di Filippo Gobbo
Eppure, come dobbiamo regolarci con questa storia, questa storia così importante, la storia degli altri, che si rivela prima del significato che secondo noi dovrebbe avere e che assume invece un significato grottesco, tanto siamo male attrezzati per discernere l’intimo lavorio e gli scopi invisibili degli altri?
P. Roth, Pastorale americana
Da un fatto di cronaca, un territorio
C’è un rischio quando si scrive un libro ambientato in Veneto. Il rischio è quello di rimanere invischiati nelle sue mitopoiesi, nella rete di stereotipie e autonarrazioni che da decenni ormai consolidano l’identità veneta. Alcuni scrittori, queste stereotipie, le hanno usate per stravolgerle in chiave grottesca e satirica (come Francesco Maino nei Morticani – ne abbiamo parlato qui); altri se ne sono distanziati, preferendo osservare la società veneta attraverso una lente sociologica (penso a Bea vita, crudo Nord-est di Bugaro) o, al contrario, cercando di dare forma al proprio disprezzo; quel disprezzo lucido, a mascelle serrate, che contraddistingue i libri di Trevisan (ne abbiamo parlato qui e qui).
Al di là delle soluzioni individuali, raccontare bene – il Veneto, come qualsiasi altra cosa – dovrebbe prima di tutto consistere in un gioco di sottrazione rispetto a quanto ci viene consegnato dal senso comune. Sta tutto qui: scomporre, smontare, interrogare la superficie delle cose.
Lo sa bene Enrico Prevedello che nel suo Una rivolta. Orizzonti e confini del Nord-Est (nottetempo, 2024) racconta la storia di Luciano Franceschi, bottegaio di Borgoricco e indipendentista veneto della prima ora. Nel 2013 Franceschi sparò a un direttore di banca, ferendolo, dopo che quest’ultimo non gli aveva concesso un prestito per salvare la propria bottega. Fatto di cronaca dimenticato, come molti ne accadono nel quotidiano. Non dimenticabile però per Prevedello che, originario di Borgoricco come Franceschi, ne ha frequentato per molto tempo la casa, in qualità di amico di Arturo, il figlio del bottegaio. Durante l’infanzia e l’adolescenza, passati anche a casa Franceschi, Prevedello entra in contatto in maniera obliqua con l’indipendentismo veneto nelle sue forme più o meno stravaganti (le prove della divisa della polizia veneta, le discussioni sulle leggi dell’Autogoverno del Popolo Veneto, proclamato da Franceschi e i suoi nel 1999). Questo gli permette di avere un punto di vista privilegiato, allo stesso interno ed estraneo, da cui osservare il fenomeno.
Uno sguardo che Prevedello vuole mantenere anche per il suo libro. La storia del protagonista, i suoi pensieri e la sua voce, recuperata anche grazie ai diari scritti da Luciano in carcere, non occupano mai tutta la scena, rischiando di diventare feticci da dare in pasto alla curiosità del lettore. Vengono al contrario controbilanciati dal racconto dell’infanzia e dell’adolescenza di Prevedello, permettendo al libro di avere un respiro più ampio (e più convincente). Grazie al montaggio di questi due destini particolari emerge un mondo provinciale che – pur nelle sue spigolosità – viene percepito da Prevedello come il proprio territorio, la propria casa.
Il territorio è la storia delle relazioni umane di un luogo, ma è anche uno spazio in cui si cercano felicità, soddisfazione e bellezza ogni giorno. Vivere un territorio è lasciare un segno invisibile, una ics segnata nella rete di rapporti in cui sta sepolto un dono che si rievoca con empatia e condivisione. (p. 146)
Se vivere un territorio significa lasciare un segno invisibile su di esso, vale anche il contrario. I capitoli più “borgoricchesi” del libro dimostrano come la provincia veneta, con tutto il suo corollario aneddotico, sia rimasta sottopelle a Prevedello. È una materia talmente debordante quella che fuoriesce dalla memoria da scardinare i binari della narrazione ed elevare la digressione a principio ordinatore (soprattutto nei primi capitoli, quelli dedicati all’infanzia, questo principio sembra agire maggiormente, quasi a voler mimare l’esuberanza analogica del ricordo infantile). Emergono così sotto gli occhi del lettore piccoli quadri d’ambiente, tesi a restituire un paesaggio allo stesso tempo fisico e morale: le suore dell’asilo che convincono una madre a iscrivere il figlio alle medie dalle consorelle perché «alle medie statali regalavano la droga ai bambini»; il senso di esclusione di Prevedello-bambino all’asilo, quando, unico figlio di operaio in mezzo a figli di piccoli imprenditori veneti, si inventa che il padre vendeva trattori per entrare nelle conversazioni dei compagni; lo sguardo triste e «immerso nella nebbia» di L., coltivatore di tabacchi, mentre sta piantando pali nel proprio terreno; il gesto di un anziano curioso che soppesa come un pesce morto la protesi di una bambina (cui un trattore aveva portato via il braccio), senza rendersi conto del disagio che sta provocando; o, ancora, lo scricchiolio del cranio di un falchetto morente, calpestato da Prevedello dopo che il padre l’aveva colpito col fucile da caccia.
[…]e allora con la punta del piede gli schiaccio la testa, e a quel punto, mentre attraverso il mio alluce protetto dallo stivale sento il suo cranio scricchiolare […] e penso l’ho uccisa io, questa meraviglia del cielo, gli ho fatto scricchiolare la testa sotto al mio piede. […] Riprendiamo a camminare, io un poco più indietro degli altri, in pancia il senso di aver distrutto qualcosa di irreparabile.
Portato a girovagare attraverso queste scene, il lettore si imbatte anche su aspetti questioni di interesse sociologico, senza che vengano esplicitati in tono didascalico. Ecco che l’immigrazione clandestina e lo sfruttamento di manodopera immigrata compaiono quasi per caso. Basta la rottura della finestra di una fabbrica apparentemente smantellata per far comparire un lavoratore cinese; basta seguire le tracce di un furto di maiali per scoprire che in una casa abbandonata vivono lavoratori immigrati arruolati nelle imprese delle vicinanze; basta raccogliere il tabacco d’estate per incontrare una dozzina di nigeriani che usano «una sorta di italiano con tecnicismi in dialetto, tipo ’speta, pian, ’ndemo, e qualche bestemmia come jolly». E il problema dello sfruttamento della forza lavoro clandestina è solo un esempio. Anche le crisi economiche, climatiche ed esistenziali che lasciano la loro traccia su Borgoricco si manifestano sempre nelle periferie del testo, attraverso pennellate e allusioni che lasciano all’immaginazione il compito di riempire il quadro generale e interpretarlo.
Cura e attenzione
Questa possibilità di interpretazione e di riflessione su quanto si sta leggendo è permessa anche dall’accostamento dei capitoli di natura diversa e dal loro stesso andamento interno, non sempre evidente e chiaro: a volte prevale un criterio analogico, a volte cronologico, a volte di semplice alternanza di protagonista (Luciano o Prevedello). Il risultato è uno strano connubio tra memoir familiare (la storia della famiglia di Luciano), diario dal carcere, racconto di formazione nella provincia veneta (quella di Prevedello), mentre sullo sfondo si sviluppa, con taglio saggistico, la cronistoria dell’indipendentismo veneto, dalle radici della Liga Veneta agli attuali progetti autonomisti della Lega («un contentino», secondo Luciano). Il feticismo da faits-divers, che sembra caratterizzare superficialmente il testo, viene in realtà scongiurato, aprendo le porte a una rappresentazione caleidoscopica della regione
Inoltre, questa varietà di generi mi pare scongiuri un altro pericolo: quello di far diventare il libro un romanzo incentrato sulla sola figura di Luciano. Prevedello, infatti, avrebbe potuto sfruttare la libertà che solo la finzione pura può concedere, quella di accedere ai pensieri del personaggio, andando verso la direzione del non-fiction novel alla Truman Capote. Ma Prevedello, non solo è consapevole di non poterlo fare, ma nemmeno lo vuole.
Posso conoscere un po’ di più il mondo di Luciano nel tentativo di capire meglio le sue scelte, ma devo essere consapevole che è un’illusione, che ci sarà sempre una distanza tra me e lui, perché solo così può trovare spazio una relazione, e che ci sarà sempre, in questa distanza, anche un limite, per assicurare a entrambi di avere una forma propria. (p. 32-33)
A conti fatti, tutti i pensieri che sono attribuiti al protagonista sono il frutto di un attento e rispettoso prelievo di ciò che Luciano ha scritto nel suo diario o confessato a Prevedello stesso nelle interviste preparatorie alla stesura. Non è l’unico esempio di cura che lo scrittore ha nei confronti dei suoi protagonisti. Anche le micro-scelte linguistiche e lessicali sull’uso del dialetto mi paiono ponderate nell’ottica di salvaguardare la dimensione tragico-eroica della vita di Luciano. Se certi passaggi recuperati dai diari dal carcere, verosimilmente scritti in veneto, ma riportati da Prevedello in italiano, fossero rimasti in dialetto mi chiedo se avrebbero mantenuto lo stesso voltaggio. E questo vale sia per alcune riflessioni sia per il capitolo dedicato alla morte lenta e dolorosa della moglie di Luciano, Emilia (forse uno dei capitoli più drammaticamente convincenti del libro).
Più in generale, uno dei tanti meriti di Prevedello si misura sulla sua capacità di ridurre l’aspetto bizzarro dell’esperienza indipendentista di Luciano, di rendere le sue istanze se non condivisibili, quantomeno comprensibili e, cosa più importante, di mostrarci l’uomo dietro il gesto folle, togliendo al lettore medio il ghigno di supponenza che rischiava di stamparglisi in volto. D’altronde da questo ghigno non è stato esente nemmeno Prevedello che, alla notizia del colpo di pistola, ha avuto la stessa reazione («un primo momento di stupore, poi ho sorriso e liberato uno sbuffo dal naso. Ho pensato […] Ecco, vedi, quella storia del venetismo lo ha fatto impazzire», p. 15-16).
Questa volontà di mostrare l’umanità dietro al fatto di cronaca mi pare traspaia in un passaggio dei capitoli finali, in cui Prevedello si pente di non aver letto la novella Il treno ha fischiato di Pirandello quando insegnava al carcere Due Palazzi di Padova (carcere in cui è stato rinchiuso anche lo stesso Luciano per un certo periodo). Seppur non evidenziato, il parallelismo tra la storia di Belluca e quella di Luciano mi pare evidente, così come l’assonanza delle operazioni compiute rispettivamente da Pirandello e Prevedello. Non è forse Luciano un Belluca? Non è forse «uno che ha sempre lavorato come un somaro» e la cui reazione agli occhi di molti appare inspiegabile? E non ci chiede forse Prevedello, proprio come Pirandello, di non fermarci alla superficie, di collegare gli episodi alle condizioni in cui vivono? In una sorta di mise en abyme metaletteraria, Prevedello, riportando una metafora usata da Pirandello, parla del suo libro.
Per spiegarsi meglio [Pirandello] usa una metafora: se vedeste la coda di un mostro vi farebbe terrore, sembrerebbe assurda e inconcepibile, ma se la riattaccaste al mostro sarebbe una normalissima coda di mostro. […] Allo stesso modo se riconducessimo l’azione di Belluca (arrivare in ritardo, non lavorare e reagire alla punizione del capo) alla sua vita quotidiana (lavorare anche di notte per sostentare una famiglia di tredici persone, di cui tre ciechi, sette marmocchi urlanti e due vedove che non fanno nulla in casa), capiremmo che è una reazione normalissima. Mi chiedo se il carcere non sia altro che un grappolo di gabbie in cui abbiamo infilato tante impossibili code di mostro.
Che una coda di mostro (quella del leone di San Marco) campeggi anche sulla copertina del libro di Prevedello non mi pare un elemento trascurabile. Forse anche l’indipendentismo veneto non è altro che un grappolo di gabbie in cui abbiamo infilato tante impossibili code di mostro.
