Alcesti, l’opera teatrale di Euripide, è la tragedia del ritorno. Admeto, re di Tessaglia e amico del dio Apollo, dovrebbe morire; ma la moglie Alcesti lo ama così tanto da accettare di prendere il suo posto offrendosi a Thanatos, dio della morte. Il lutto di Admeto viene disturbato dalla visita di Ercole, che decide di aiutare l’amico re combattendo con Thanatos e riportando Alcesti, col volto velato, nel mondo dei vivi. Admeto la riconoscerà pian piano.
Anche I Morticani di Francesco Maino, che in larga parte riscrive l’Alcesti, è una tragedia del ritorno: ma racconta di come un vero ritorno dal regno dei morti non è possibile, perché si è già morti in vita. Non siamo nella Tessaglia dei miti ma in un Veneto così straniato (è il regno del Veenetken) da risultare per assurdo anche troppo familiare. I regnanti sono sostituiti dal PM Adamo D’Elia e la giudice Marcella Toffoletto, una coppietta benestante calata nelle piccole meschinità e i segreti della vita di provincia. Adamo ha una relazione extraconiugale con il giardiniere Luca Apolloni, il dio Apollo, che cerca di salvare l’amante da morte certa proponendo che qualcuno muoia al posto suo. Ancora una volta è la moglie ad offrirsi, ma al contrario della sua controparte mitica Marcella lo fa perché quella che vive è una morte, una condizione insopportabile di cui odia ogni elemento — il lavoro, la figlia, i genitori e più di tutto il suo “immedicabile matrimonio di merda” (p. 133).
Che lo spettro della morte possa aprire uno spazio per indagare e smascherare tipi antropologici e condizioni ideologiche è uno dei temi portanti de I Morticani. Un aspetto che emerge soprattutto nelle parentesi-fiume che Maino dedica alle due figure che dovranno condurre Marcella Toffoletto alla morte. Nell’Alcesti Thanatos è un’incarnazione dei “diritti degli inferi” sulla terra, una divinità sotterranea che deve muoversi in superficie, tra i vivi e i morti. Busolin (scomposizione di Tanato in tana, buso, e –ato, diminutivo) e colui che lo sostituirà, Aureliano “Tutorial” Sfalci, dovrebbero condurre Marcella Toffoletto al luogo in cui le sarà somministrata un’eutanasia; ma restano a loro modo eredi del dio della morte. Soprattutto, offrono a Maino l’opportunità di ibridare la lingua, le usanze e le leggi di un territorio simile al Veneto contemporaneo a quelle divine — con esiti grotteschi e inquietanti.
Busolin è il primo a dover scortare Marcella Toffoletto alla morte; però è “non becchino: necroperatore” (p. 117). Anche se deve fare le stesse cose del dio della morte, questo nome derubrica il suo compito ad una mansione qualunque in un’organizzazione aziendale. È sempre secondo questa logica aziendalistica che Busolin viene fatto fuori dagli dèi: non solo decide di voler violentare Toffoletto, ma di usare — da dipendente — il modo di parlare dei datori di lavoro. Gli dèi, appunto. In questa infrazione il potere divino e il linguaggio aziendale si influenzano a vicenda, invertendosi di valenza: gli dèi governano il mondo come si gestirebbe un’azienda, mentre il linguaggio aziendale diventa un linguaggio fatale, sacro, con potere di vita e di morte.
Con Busolin fuori gioco, gli dèi chiamano Aureliano “Tutorial” Sfalci a riprendere il lavoro. Nel suo caso l’appartenenza a due mondi diversi è ancora più evidente e permette a Maino di essere ancora più esplicitamente critico, perché la questione si fa politica. Sfalci è infatti “vicario del Dio della Porchetta, del Mondo de Soto”, ma anche “bailo dell’Imperatore più Pompato del Mondo de Sora” (p. 200). Non è solo un dio della morte, ma anche elettore fervente dell’”Imperatore Astutissimo” dietro il quale non è complicato riconoscere il nostro Luca Zaia, che pare “governasse il Veenetken da secoli, da sempre, si può dire” (p. 182). Già così l’Imperatore sembra un dio, ma Maino va oltre. Questa figura, che nella gag forse più spassosa del libro compare quasi in ogni pagina con infinite variazioni sul suo titolo, è molto più di un dio. Maino ne esplora il legame con la terra che l’ha eletto in una serie di iperboli sempre più visionarie:
“Non c’era bisogno di ascoltarlo, l’Imperatore Radio Birikino… non c’era bisogno di credere in lui… Poiché Egli, l’Imperatore dei Banner, Bello & Monello… era nel genoma popolare… era nei dati digitalidi tutte le carte di credito… principio generativo come il ricordo vivo di Balconato Mandibolazzo da Palazzo Venessia che, comunque sia andata la piccola storia peninsulare, ha fatto anche cose egregie… Egli, l’Imperatore del Servito Fresco… era la metafora della vita dei territori e contemporaneamente il meteorite finale sui territori” (pp. 183-5)
È chiaro che gli dèi, con le loro beghe un po’ macchiettistiche, non possono assolutamente reggere il paragone con un imperatore così, una sorta di principio teologico fondamentale. Di nuovo, le leggi umane e quelle divine si ibridano con esiti esasperati e comici, ma anche inquietanti, come testimoniano l’allusione apocalittica al meteorite e al fascismo. Sfalci, essendo “uno che quando afferma sono il responsabile marqetin… ti sta dicendo: Io sono la premessa inconscia ad un nuovo fascismo enologico” (p. 178), incarna quest’ultimo elemento alla perfezione. La terminologia aziendale, ancora una volta, stempera intenzioni che sono tutt’altro che innocue: in questo caso la complicità di Sfalci nel sistema oppressivo del suo Imperatore. Che lo rende due volte lo psicopompo di Marcella Toffoletto: deve condurla alla morte, ma col suo sostegno all’Imperatore è anche responsabile della situazione che lei ha deciso di abbandonare. Ma tutto il Veenetken è anche una terra dei morti viventi: i fedelissimi dell’Imperatore lo stanno lentamente trascinando (o meglio: sovrapponendo) all’oltretomba.
Con questi miti paralleli che si rincorrono, si scambiano e si sdoppiano, che razza di ritorno alla vita può esserci per Marcella Toffoletto? Sarà salvata da Bassetti D’Eraclio Junior, l’equivalente Veenetkenizzato di Ercole, che la riporterà a casa — non prima di farla innamorare di sé durante un intenso rapporto sessuale. Il ritorno dal marito Adamo, a sua volta abbandonato dal dio che ama, non è altro che lo stanco ritorno alla routine che ha frustrato entrambi per tutta la vita e che ora, con le sue bugie e segreti tutti svelati, si manifesta per quello che è: uno stillicidio invivibile. Il ritorno, non rinascita ma ripetizione, dimostra l’impossibilità dei personaggi di uscire dal proprio isolamento. E se quella di Marcella Toffoletto e Adamo D’Elia è una tragedia privata, non fa che ratificare una condizione così pubblica da evocare “un coro composto non da uomini donne nutrie e ispettori, bensì da edifici infissi manifesti resti di boschi” (p. 250) per recitare una conclusione che riprende l’originale euripidea in un tono molto più amaro:
Sono molte le forme degli eventi. Quello che si credeva non si avvera. Un dio trova la quadra a cose di cui non si ha fede; è così che questa vicenda finisce. (p. 250)
È legittimo, quindi, pensare a I Morticani come ad un romanzo di denuncia? Forse sì, a patto che si ammetta che il suo valore non si esaurisca in questa funzione. Maino non considera solo le possibilità di un rifacimento dell’Alcesti in un Veneto straniato. Il tema del ritorno che si sviluppa dalla tragedia greca viene esplorato anche in direzione metanarrativa, interrogando le possibilità della letteratura rispetto alla vita. La vicenda è la “psicotropa tragedia” (p. 47) con cui l’avvocato Alfonso Della Marca cerca di farsi dimettere dal ricovero a cui è stato costretto aver aggredito la giudice Toffoletto. La sua vera follia, però, è “la cosa di sentirsi scrittore”: “roba eternamente umiliante”, una malattia che porta ad un’“orrenda emorragia” che “indurisce in croste sozze per rispaccarsi reiteratamente, di continuo, come lava per l’orribile eternità” (p. 37). Più di una metafora, questo sentimento che Della Marca sembra portarsi dentro fin dalle prime battute del libro (che si apre su di lui e la sua condizione) è il punto da cui si dipana l’altra grande esplorazione del ritorno ne I Morticani. Da una parte c’è la vita, con le sue storture e le sue frustrazioni, ma dall’altra c’è qualcosa che da questa emerge slegandosi dalle sue limitazioni: il racconto come possibilità dell’infinito, una questione con cui Maino puntella tutto I Morticani. La storia che Della Marca genera vive un’altra vita e si muove in un altro tempo, nel “tempo sminato dei miti” (p. 158) in cui “non c’è… il prima il dopo né lo stupido bisogno di attualizzare qualcosa, quanto piuttosto un al di fuori” (p. 97). Che questa dimensione, una volta aperta, non possa essere abbandonata è quello che sentono anche gli altri personaggi: finito il suo racconto Della Marca viene dimesso e il suo autista, Ferrari, venuto a riportarlo a casa, ha il presentimento che “questa storia non finirà mai” (p. 275). E difatti, nell’ultimo passaggio della storia, un Della Marca ormai ritornato alla vita di sempre cerca inutilmente di far addormentare sua figlia Hannah. Visto che non ci riesce, lei gli propone uno scambio: sarà lei a raccontargli la storia della buonanotte, con un racconto a lui chiaramente familiare: è di nuovo quello di Alcesti, che grazie all’immaginazione della bambina diventa “Una regina simpatica” a cui “piacevano la pasta al ragù e i brillantini” (p. 282). Se narrativamente il ritorno di Alcesti fallisce ed è impossibile, metanarrativamente il ritorno dell’Alcesti è sempre possibile, sempre diverso, sempre rivoluzionario — non è un caso che la storia emerga quando i ruoli di padre e figlia sono sovvertiti. Nel colpo di coda del libro, il finito della Storia soccombe al momento infinito del racconto, che ha ancora una volta, e per sempre, la possibilità di capovolgere, trasformare, trasfigurare il reale. E fare in modo che “Le cose che non avvennero mai saranno sempre” (p. 218).