di Filippo Gobbo
Anche Seize the time va in vacanza, ne approfittiamo per riproporvi qualche articolo dal nostro archivio. Proseguiamo, dopo la settimana di Ferragosto, con un’altra recensione. Tocca a Bea Vita! Crudo Nordest di Romolo Bugaro: sebbene racconti il Veneto e la Padova di 15 anni fa ci restituisce immagini e soprattutto tipi di umanità che possono ancora appartenere al nostro presente.
Ci rivediamo a settembre!
La crisi, l’estraneità e le specie
Capita che chi viva in una realtà di provincia certe volte percepisca un senso di estraneità, di incompatibilità, quando non di vera e propria avversione, nei confronti di essa. Capita che, magari, inizi a chiedersi cosa pensino, come vivano e a cosa aspirino le persone che quel senso di estraneità sembrano invece non averlo. Bea vita! Crudo Nordest, una raccolta di racconti scritta da Romolo Bugaro e pubblicata nel 2010, gioca proprio su questa dialettica: da una parte chi, come l’autore, vive un senso di isolamento, incompatibilità ed esclusione (il primo capitolo Che ci faccio in questo posto?, calco da un verso di Creep dei Radiohead, è abbastanza eloquente); dall’altra, i «favorevoli al mondo», coloro che riescono ad «aderire alla superficie liscia» delle cose, i protagonisti del libro.
Al centro di questo librettino di meno di cento pagine c’è una Padova raccontata all’indomani della crisi del 2008, abitata da «gente che crede nel denaro e nella possibilità del successo per chiunque sia disposto a sacrificarsi. Che trova sostanzialmente giusto l’ordine delle cose»; una Padova che diventa la specola privilegiata da cui osservare la costellazione valoriale della provincia veneta. Nonostante siano passati ormai tredici anni dalla sua pubblicazione, questo libro racconta ancora qualcosa non solo su ciò che era il Nordest un decennio fa (all’indomani della crisi del 2008) ma anche su che cos’è il Nordest oggi. Ad aiutare Bugaro è la fortunata circostanza di scrivere durante una fase di transizione, nel momento in cui l’idea del successo alla portata di tutti, che aveva contraddistinto il decennio berlusconiano, inizia a sfumare sotto il peso della crisi. Per questo ad aleggiare su tutti i racconti è un senso di decomposizione in atto, di sconfitta storica ed esistenziale. Sei degli otto testi che compongono il libro, quelli più narrativi, appaiono come variazioni su questo tema. La crisi colpisce tutti, senza distinzioni: dalle ragazze di provincia che votano Berlusconi e sperano nel salto di classe mentre passano le pause pranzo a osservare le vetrine griffate di via San Fermo (2.Via San Fermo) alle ricche trentenni e quarantenni dai redditi medioalti che comprano ciò che le prime sognano (5. Ancora via San Fermo); dall’amico-collega dell’autore, un avvocato abituato a lavorare fino alle undici di sera e a rimproverare a suon di «Bea vita!» (per i non veneti, la frase serve a colpevolizzare sottilmente di indolenza) chiunque non sia disposto a sostenere i suoi ritmi (3. Bea vita!) ai «ragionieri quarantenni che guadagnano duemilacentoquaranta euro mensili per quattordici mensilità» (6. Duemilacentoquaranta euro per quattordici mensilità); fino ad arrivare ai coetanei dell’autore, quelli della generazione cresciuta alla fine degli anni Settanta, nella Padova «incandescente, lacerata dal conflitto e dalla violenza politica» (4. Non proprio organici all’ordine generale delle cose) e allo stesso autore, costretto nel finale ad ammettere che quel senso di estraneità all’ordine generale delle cose (e il senso di presunta superiorità che l’accompagna), in realtà è solo un diverso modo di stare al mondo (7. La tara dei non-insediati): «[…] i non-insediati […] sembrano provvisti della miglior attrezzatura per vedere e comprendere, delle migliori idee sul mondo, ma sono bugiardi e avari di sé. E sprecano tutto, perché incapaci di fedeltà».
Ciò che rende particolarmente efficace questo libretto è la forma con cui Bugaro decide di raccontare questa crisi. Il senso di estraneità dichiarato all’inizio trova infatti un suo corrispettivo formale in un distaccamento spietato che a più riprese raggiunge l’oggettività più fredda. A emergere così è uno strano ibrido a cavallo tra narrativa e sociologia; una sociologia brutale e cruda come il Nordest che vuole rappresentare. A rafforzare questo effetto è la strutturazione dei racconti secondo un movimento che va dal generale (il contesto sociale, la descrizione fredda dei luoghi urbani e periurbani) al particolare, senza raggiungerlo pienamente. Di fronte agli occhi del lettore infatti non ci sono individui, ma uomini medi le cui storie acquistano valore più per la loro rilevanza statistica, che per la loro irriducibilità esistenziale (a prevalere, non a caso, è la terza persona plurale). L’accanimento sociologico di Bugaro è tagliente. Le azioni che i personaggi compiono non stupiscono, sono semplici variabili sociologiche: limitate, protocollari, prevedibili tanto quanto le frasi e i periodi usati per descriverle.
Sono soprattutto ragazze giovani: sui diciotto, sui ventuno, sui ventisei. […] di solito si muovono in gruppetti di tre o quattro. Camminano tenendosi a braccetto, allegre e leggere sui passi e attente allo spazio circostante. […] Alcune sono piuttosto eleganti. Scarpe col tacco, giacche scure, gonne aderenti. Lavorano in negozi blasonati o studi professionali d’alto livello o ci tengono a raccogliere consensi lungo i corridoi delle camere di commercio. Altre affrontano la giornata con minor intenzione e indossano scarpe basse, maglioni di lana. Altre ancora scelgono jeans comodi e felpe, indifferenti a qualsiasi ipotesi di collegamento fra lavoro ed esposizione personale. (p. 16)
L’identità ritmica e sintattica suona volutamente ripetitiva, senza via di uscita, come i pensieri, le aspettative e i destini dei personaggi. Bugaro sceglie così di svelare la menzogna che si cela dietro a una delle più resistenti ideologie del Nordest imprenditoriale – quella della possibilità di successo per chiunque sia disposto a sacrificarsi –, mostrando donne e uomini intrappolati nei loro ruoli, nelle loro storie familiari e nei ceti sociali di appartenenza. O, per meglio dire, intrappolati nella loro specie. Il passaggio dal piano sociologico a quello biologico è infatti costante all’interno del libro, perché è così che i personaggi pensano il loro essere sociale, come naturale e immutabile. Da una parte, la trentacinquenne dal reddito medioalto che «guarda le vetrine accanto alle giovani segretarie e commesse e impiegate» concepisce queste ultime come appartenenti «a una specie diversa dalla sua» (p. 64); dall’altra, le seconde che pensano sia giusta e naturale la corrispondenza tra «l’avere poche risorse» e l’avere «poche prospettive» (p. 21).
La crisi, il dramma e la specie
Eppure, Bea vita! Crudo Nordest non è solo un libro cinico. Dietro le pieghe della medietà statistica e sociologica si percepisce il dramma allo stesso tempo universale e individuale, reso più tragico dalla freddezza con cui viene trattato e dalla rapidità con cui le parabole esistenziali dei personaggi si consumano sotto gli occhi del lettore. Prendiamo per esempio il quarto racconto, Non proprio organici all’ordine generale delle cose, in cui Bugaro tratteggia in meno di una ventina di pagine le vicende degli ex-ragazzi degli anni Settanta, dai militanti di autonomia operaia, per passare ai periferici al movimento, fino ai «non contestatori», figli dell’alta borghesia padovana, «totalmente organici all’ordine generale delle cose da sembrare replicanti» (p.53). Tanto per questa generazione, quanto per i ragionieri da duemilaequaranta al mese, i piccoli imprenditori o le impiegate a contratto, la crisi «è un lampo di luce bianca che rende straordinariamente nitidi i contorni delle cose», in cui si fatica a riconoscere la propria storia « nel paesaggio trasfigurato dalla difficoltà» (p. 78). Nessuno è immune dall’ethos nichilistico che domina la raccolta: né Attilio, ex-leader dell’autonomia padovana pentito («pochi mesi più tardi […] avrebbe mandato in galera decine di persone», p.49), le cui foto finiranno trent’anni dopo sulle pagine del «Mattino di Padova» per essere stato picchiato da un magnaccia; né altri che «hanno cambiato strada, rinnegando il passato», diventando «come vuole il luogo comune, professionisti, manager, dirigenti d’azienda» (p.52). Nemmeno gli ex-ragazzi «a favore del mondo e favori nel mondo» sono immuni dalla caduta: alcuni cadono per l’alcol, altri per la loro intraprendenza e ottusità imprenditoriale, altri per la troppa vitalità.
C’è un che di leopardiano nella nettezza e tragicità di queste parabole, nel loro assommarsi di «orrori». La comune miseria umana (economica, sociale, esistenziale, biologica), al di là delle differenze sociali, e l’ineluttabilità con cui essa viene raccontata, portano il lettore a trascendere la propria vita individuale e vederla in prospettiva, in un’ottica di specie. La grandezza di questa raccolta del 2010 forse sta proprio in questo: nel saper trasfigurare il contingente (la crisi del 2008, la fine del berlusconismo, il definitivo riflusso nel privato) in qualcosa di universalmente umano, nel darci la possibilità di vedere «l’esilità dei fili cui sta appeso tutto quanto» (p. 50).