Di Emanuele Caon
Ho sentito dire che ci sono tre cose da fare nella vita: piantare un albero, avere un figlio e scrivere un libro. Non so se per un’esistenza debbano essere queste le esperienze fondamentali, di certo almeno una volta bisognerebbe andare a uno sfratto: il modo con cui si guarda alle vicende umane ne esce mutato.
Nel racconto mediatico, come nelle chiacchiere comuni, quando si racconta uno sfratto si assume sempre il punto di vista della proprietà. Da una parte ci sono la proprietà ingiustamente violata e l’onesto cittadino che si vede privato del suo diritto a una rendita sudata, perché quella casa in più è costata i sacrifici di una vita oppure è una cara eredità di un genitore defunto. Come si spiegherebbe altrimenti che qualcuno abbia una casa da affittare?
Dall’altra parte c’è chi vìola le regole base della convivenza, non rispetta la proprietà privata, vive a sbafo e non paga perché non vuole pagare: «Se ti entrano in casa con un figlio, non li mandi più via» mi è spesso risuonato nelle orecchie. Un discorso accompagnato da allusioni continue al ruolo dello stato italiano che non fa nulla o, peggio, sta lì proprio a tutelare i furbetti.
A chi ha assistito a uno sfratto, anche solo uno, questa costruzione retorica risuona insopportabile e falsa. Cerchiamo allora di raccontare la storia di qualche persona finita sotto sfratto nel ricco nord-est d’Italia. Storie di chi non vorrebbe, ma si trova a essere un occupante. Chi sono queste persone? Perché non pagano l’affitto? Perché la tirano lunga fino a farsi sfrattare?
Tutti i nomi che seguono sono, per ragioni ovvie, censurati e inventati.
1. Persone in occupazione, persone
T. e S. sono marito e moglie, hanno due figlie, due bambine che insieme non arrivano ai dieci anni. Lavorano entrambi, lui ha un contratto a tempo indeterminato in fabbrica; lei lavora per una cooperativa di pulizie, part-time a tempo determinato. Non è una famiglia ricca, non è povera e, con qualche difficoltà, ha sempre pagato l’affitto regolarmente. Come mai allora i due coniugi sono diventati degli occupanti sotto sfratto? Semplicemente è scaduto il contratto d’affitto, il proprietario non vuole rinnovarlo perché ha altri progetti. T. e S. allora cercano casa, non c’è problema: lavorano, hanno due contratti, possono pagare. Però hanno la pelle nera perché sono africani. In questo momento, con gli affitti alle stelle e gli appartamenti che non si trovano, nessuno vuole affittare a una famiglia visibilmente straniera.
M. e R. sono italianissimi, la loro storia è un classico più diffuso di quanto si possa immaginare. Con il Covid lei perde il lavoro, poi lo ritrova. Lui, per aspirazioni professionali, cambia lavoro ma poi l’azienda va male, esubero del personale, licenziato. Come non bastasse si ammala e si deve operare, sono mesi dentro e fuori l’ospedale: «In quella situazione non mi assumeva più nessuno». L’assegnazione della casa popolare non arriva, quindi finiscono sotto sfratto per morosità incolpevole. Ora M. ha trovato lavoro, la salute va meglio, ma i risparmi sono bruciati e con uno sfratto sul collo non trovi più casa. Il proprietario è furibondo, sta cercando di liberare l’appartamento da 18 mesi. Loro gli chiedono di poter restare, garantiscono che con il tempo pagherebbero anche tutti gli arretrati. La storia la racconta R.; invece M. fatica, dice poco e senza mai guardarti negli occhi. Si vergogna di essere povero, si vergogna di essere finito sotto sfratto, si vergogna di non saper garantire un tetto sulla testa al figlio. Un ragazzino di undici anni che ha iniziato ad avere degli attacchi di panico.
Quando M. parla con il proprietario si sente addirittura in colpa, si scusa in continuazione, pensa che l’altro abbia ragione: l’affitto va pagato. Intanto è arrivata una proposta risolutiva dal Comune: alloggio momentaneo di emergenza per madre e figlio, il papà per strada.
Quando si pensa a una persona o a una famiglia sotto sfratto si pensa sempre a situazioni limite, casi fuori dal comune; invece si tratta spesso di storie “normali” in cui qualcosa a un certo punto non è andato come previsto. Poi, certo, spesso si incontrano poveri o persone con fragilità multipla. Chi è giusto un po’ sopra la fascia di reddito che dà diritto a una casa popolare. Chi alla casa popolare avrebbe diritto, ma i posti non ci sono. Qualcuno che si è ammalato o ha avuto un incidente. Persone sole perché il compagno o la compagna non ci sono più. L’immigrato a cui è andato storto qualcosa anche solo momentaneamente, ma che è in Italia senza una rete familiare di sostegno.
Ricordiamoci che in Italia oltre il 20% della popolazione, più di una persona su cinque, vive in una situazione di povertà relativa. Ricordiamoci anche che il nostro è il paese dove gli stipendi non aumentano da trent’anni e dove un terzo di chi lavora guadagna meno di 12.000 euro lordi l’anno; ma intanto il costo degli affitti è salito vertiginosamente. Per una persona senza casa di proprietà può bastare veramente poco per finire nel circuito che porta dalla “normalità” allo sfratto.
2. Come avviene uno sfratto, la disumanità
Lei è A., donna con due figli minorenni a carico. Il più grande ha sette anni. Il marito è sparito, non abbiamo capito come, comunque non vive più in casa. A. è romena, a un certo punto ha fatto venire in Italia anche la mamma che ormai è anziana e ha problemi di mobilità: mandare soldi in Romania per aiutare la mamma non era possibile, così hanno deciso che venisse lei in Italia. C’è anche il vantaggio che al pomeriggio la nonna può stare con i nipoti mentre la mamma è a lavoro, così si risparmia.
Purtroppo A. resta disoccupata e non riesce più a pagare l’affitto, arriva la richiesta di sfratto, ma la vicenda va per le lunghe; nel frattempo A. trova nuovamente lavoro, potrebbe ricominciare a pagare l’affitto. Ora però i proprietari non vogliono saperne, anche perché intanto gli affitti in città sono aumentati e i proprietari vogliono alzare il canone. Si arriva così allo sfratto vero e proprio.
Primo arrivo dell’ufficiale giudiziario, che prende atto della situazione: lo sfratto andrà fatto ma non subito, ci sono due minorenni, un’anziana fragile, bisogna dare tempo alla famiglia di organizzarsi. Inoltre, il Comune promette di intervenire. Lo sfratto è rimandato di qualche mese.
Secondo accesso dell’ufficiale giudiziario. Come al giro precedente, ma questa volta il Comune è arrivato con una proposta: non ci sono case popolari, ma la famiglia può alloggiare in una stanza di un B&B. Come ci staranno in quattro in un B&B? E cucinare? E lavare i vestiti? E poi è dall’altra parte della città, come faranno i bambini ad andare a scuola? A. non farebbe in tempo a portarli prima di andare al lavoro; non può chiedere cambi orari, l’hanno appena assunta. L’ufficiale giudiziario concede un secondo rinvio sperando che il Comune proponga di meglio.
Terzo accesso, stavolta vogliono veramente sgomberare.
Mattina presto. I bambini non sono in casa, sono stati mandati a dormire da un’amica di A.; se ci sarà lo sfratto meglio che non assistano alla scena. A. e la mamma sono dentro l’appartamento. Giù, davanti alla porta, un comitato di solidarietà. Arriva l’apparato dello sfratto. Ufficiale giudiziario accompagnato dalla polizia e dalla celere, i proprietari accompagnati dall’avvocato. Dai servizi sociali non si presenta nessuno, non hanno personale, mandano un operatore esterno che è altri non è che la lavoratrice di una cooperativa che si occupa di emergenza abitativa. La cooperativa viene pagata quando dà alloggio a persone in situazione di fragilità, in altri termini se lo sfratto viene eseguito questi avranno un guadagno assicurato per qualche mese. È ovviamente brava gente di sinistra a cui l’assessore e i servizi sociali sembrano felici di affidarsi. Una che ha il coraggio di dire che A. è responsabile della situazione in cui si trova perché prima di emigrare bisogna avere un “progetto migratorio”. Siamo al paradosso: la persona inviata dai servizi sociali dovrebbe tutelare i diritti di A. e della sua famiglia, invece spinge per lo sfratto.
Inizia una trattativa, fatta di resistenza passiva. Il comitato di solidarietà sta davanti all’ingresso delle scale, se polizia e ufficiale giudiziario vogliono salire dovranno far trascinare via un bel po’ di persone, c’è qualche giornalista pronto a far foto. Su queste premesse si può discutere. Facciamo scendere A., in modo che si possa negoziare.
La cooperativa propone ancora la solita stanza in un B&B, come se fosse una soluzione compatibile per una famiglia che deve cercare di sistemarsi. I proprietari dicono che in realtà A. ha un marito che può pagare ma che vive nascosto, che è tutta una finta. Poi l’avvocato ci spiega che i vicini si lamentano di A., perché si porta a casa uomini, che pare siano piccoli malavitosi e che non è un ambiente sano per i figli. Ci si arrabbia, perché tutte le donne straniere sotto sfratto ricevono sempre la stessa accusa; sentiamo in continuazione il solito stereotipo razzista: se la farebbero tutte con gli spacciatori usando i figli come arma per non farsi cacciare di casa dai proprietari. Intanto, la mamma di A. si sente male, non dorme da tre giorni, ha la febbre alta, arriva l’ambulanza.
3. Diritti da conciliare (e da pesare)
In storie come queste ci sono due diritti. Uno è il diritto alla proprietà e alla propria rendita. L’altro è il diritto alla casa e a tutto ciò che avere o meno un tetto sopra la testa comporta per la vita delle persone. Quando questi due diritti entrano in conflitto perché si crea una situazione che genera un’occupazione, dovrebbe intervenire una funzione pubblica in grado di proporre una soluzione abitativa dignitosa, garantendo così che il rispetto della proprietà non sia fatto valere solo a suon di avvocati, poliziotti e ufficiali giudiziari.
Va però anche esplicitato che questi due diritti non sono equivalenti. Se mettiamo sulla bilancia il diritto alla rendita e il diritto alla casa, quale dei due vale di più?
Esistono, certo, i piccoli proprietari. Quelli che hanno una casa in più, per cui l’affitto diventa fondamentale per integrare il reddito da lavoro, spesso troppo basso in Italia. Va però anche chiarito che il mito del povero piccolo proprietario è statisticamente un falso. Anzi, in un paese come l’Italia in cui quasi il 70% delle persone vive in una casa di proprietà, chi vive in affitto? In affitto ci vivono soprattutto le fasce di reddito più basse, ci vive soprattutto chi non riesce a comprare una casa. Di povertà però non si vuol parlare, perché ci si vergogna, perché né abbiamo paura e perché con i poveri non si vincono le elezioni. E quindi la verità è molto più brutale di quel che ci raccontano: i poveri vivono in affitto e garantiscono la rendita ai ricchi, ai palazzinari, alle agenzie immobiliari, ai grandi proprietari, agli speculatori, ai fondi finanziari. Di eccezioni, di piccoli proprietari con la casa in più per cui l’occupazione diventa un dramma, ne troverete quanti volete; ma si tratta appunto di eccezioni, la regola è un’altra: quella immobiliare è una rendita organizzata e vergognosa che mette a rischio alcuni diritti fondamentali.
Nel Veneto del mito del lavoro, del «mi sono fatto da solo con il sudore della mia fronte», si può dire che ha dignità chi si mantiene con il proprio lavoro, non chi vive di rendita, sia anche immobiliare? Si può, in altri termini, decidere da che parte stare? E dire che no, chi finisce sotto sfratto non è un parassita, non è un colpevole: si merita solidarietà e non condanne morali.