di Leonardo Mezzalira
Una ferita nel paesaggio
Chi di noi ha l’abitudine di frequentare le alpi venete, trentine e friuliane ha imparato ormai a riconoscere nel paesaggio le chiazze di bosco distrutte dall’uragano Vaia del 2018. Osservando le zone ancora integre, però, potrebbe aver notato anche un’altra stranezza. In molte zone dell’altopiano di Asiago, del Trentino orientale, del Cadore, i boschi di abete rosso sono disseminati di alberi morti o con la chioma arrossata, e in alcuni punti il fenomeno è talmente vistoso che è arrivato a sua volta a modificare l’aspetto del paesaggio.
La causa è il bostrico (Ips typographus), un piccolo coleottero dal ciclo vitale piuttosto appassionante. Il maschio, dopo aver passato l’inverno tra le foglie, orientandosi tramite segnali chimici individua un abete rosso sotto stress. Fa un foro nella corteccia, si insedia al di sotto e costruisce una camera nuziale in cui, tramite feromoni, attira due o tre femmine. Ciascuna femmina, fecondata, scava una galleria sottocorteccia e vi depone decine di uova. Le larve che ne nascono scavano altri tunnel paralleli tra loro (sembra che riescano a evitare di incrociare i fratelli tramite segnali sonori), creando quella trama affascinante di intarsi nel legno che è valsa all’insetto l’epiteto di “tipografo”. Una volta pronte, le larve si trasformano in adulti e sfarfallano da un nuovo foro nella corteccia. Se fa ancora caldo, cercano un nuovo albero dove riprodursi a loro volta; altrimenti trovano un luogo riparato dove passare l’inverno, e il ciclo ricomincerà la primavera successiva.
La parte dell’albero di cui il bostrico si nutre, il floema (o libro, come lo chiamano i libri di scuola) ha la funzione di trasportare la linfa elaborata, ricca di sostanze nutritive. L’azione dell’insetto riduce e poi interrompe il flusso di linfa nell’albero, portando dapprima alla caduta di aghi ancora verdi, poi alla colorazione rossastra della chioma, e infine alla morte della pianta.

Boschi fragili
Ora, il bostrico è un parassita naturale dell’abete rosso che normalmente attacca solo gli alberi sotto stress. Quando però in un bosco c’è una quantità di piante deperienti superiore al normale, possono verificarsi le cosiddette pullulazioni, episodi di crescita incontrollata della popolazione dell’insetto che lo portano ad avere la forza (numerica) per attaccare anche piante sane. Alcune delle pullulazioni più intense del bostrico tipografo si sono verificate in Italia e in Germania a seguito dei danni ai boschi provocati dai conflitti mondiali. Un fenomeno simile si sta verificando proprio sulle nostre montagne a seguito dell’uragano Vaia e della quantità di piante danneggiate o schiantate a terra che questo ha messo a disposizione dell’insetto. Più che come causa unica, però, è meglio vedere Vaia come un tassello all’interno di un complesso di cause più articolato.
La realtà è che i boschi di abete rosso caratteristici del paesaggio delle Alpi orientali sono meno “naturali” e meno sani di quello che potrebbe sembrare. Il motivo è storico. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento la colonizzazione umana delle nostre montagne ha raggiunto un apice, e l’estensione delle foreste ha conosciuto un punto minimo. Poi è venuta la prima guerra mondiale, che ha contribuito a distruggere ulteriore bosco. Dopo il conflitto è stato svolto un grosso lavoro di rimboschimento, che come altri interventi estensivi in ambito montano ha avuto anche la funzione di ammortizzatore sociale: piantare alberi, come recuperare materiale bellico, è stato per anni un impiego importante per gli abitanti delle zone montuose interessate dal conflitto.
Per questi impianti è stato utilizzato quasi solo l’abete rosso, che oltre ad essere una delle specie caratteristiche della fascia montana è anche la specie più pregiata e richiesta dal mercato. In questo modo però sono stati creati dei boschi in cui tutti gli alberi sono coetanei e hanno una genetica simile. Un po’ come avviene per le monocolture agricole, boschi simili sono particolarmente esposti a epidemie e attacchi di parassiti come il bostrico. Con la differenza che, mentre il modello monocoltura (per quanto discutibile) può essere fatto funzionare a forza di trattamenti chimici, in un bosco di montagna questi per fortuna sono difficili da immaginare.
Oggi la cultura di chi gestisce i boschi è cambiata, ma i tempi lunghi di qualsiasi politica forestale fanno sì che la transizione verso forme di bosco più sostenibili (cioè boschi misti, con alberi di età diverse e una struttura più complessa) sia molto lenta. Ad aumentare la vulnerabilità dei boschi, nel frattempo, è arrivato il cambiamento climatico, che mette direttamente le piante sotto stress e poi aumenta la probabilità di eventi estremi tipo Vaia. Nel caso del bostrico il cambiamento climatico ha anche effetti diretti sul ciclo dell’insetto – gli inverni miti consentono lo svernamento di più adulti, e le estati più lunghe gli consentono di svolgere più generazioni l’anno.

Le azioni possibili
Di fronte a un insetto che uccide alberi e distrugge lembi di foresta sembra naturale intervenire; e dopo Vaia da più parti lo si è fatto, o si è detto di volerlo fare – ad un certo punto la cosa ha anche generato una piccola querelle nella maggioranza Zaia. Ma come intervenire?
In realtà le misure più efficaci contro la diffusione del bostrico sono quelle preventive, la cosiddetta igiene forestale: taglio di alberi deperienti, sgombero o almeno scortecciatura del legname tagliato o schiantato (quello che dopo Vaia non si è riusciti a fare dappertutto). Va detto che l’igiene forestale ultimamente va poco di moda, sia per la generale riduzione dello sfruttamento dei boschi per mancanza di resa economica, sia perché per altri versi si è capita l’importanza di lasciare in bosco il legno morto, fondamentale per la biodiversità.
Tra le misure attive che si possono adottare nel corso di una pullulazione, invece, ci sono il taglio e l’esbosco o almeno la scortecciatura delle piante attaccate, prima dello sfarfallamento (si sta facendo in alcune zone, ma gli alberi colpiti sono difficili da individuare tempestivamente e i lavori sono costosi), la sospensione dei tagli ordinari per evitare l’aumento di materiale vulnerabile in bosco (si sta facendo in Trentino nelle zone più colpite), e la cattura di massa con trappole sul modello norvegese. Nel 1979 la Norvegia, durante una forte pullulazione di bostrico, finanziò l’installazione di oltre mezzo milione di trappole attivate con il feromone dell’insetto, per la cattura diretta degli adulti in volo, e la misura si ripeté negli anni successivi con risultati probabilmente apprezzabili. Sui nostri boschi accidentati e di montagna, però, interventi su simile scala sono difficili da attuare, e le trappole si usano solo per monitoraggio.

Biopolitica di un insetto
Come abbiamo detto, di fronte a un insetto che uccide alberi e distrugge lembi di foresta sembra naturale intervenire – e “salvare i boschi” è la parola d’ordine con cui vengono comunicate varie iniziative in merito. Ma a ben vedere, quali sono gli obiettivi dell’intervento?
L’obiettivo dichiarato è, spesso, la conservazione del bosco inteso come risorsa economica. Se questo è il quadro di riferimento la lotta al bostrico richiede l’ovvio passaggio preventivo dell’analisi costi-benefici. Ma negli ultimi decenni il Veneto ha investito sempre meno sullo sfruttamento economico dei propri boschi, tant’è vero che la quantità di legname da recuperare post Vaia ha trovato le imprese boschive e le segherie locali del tutto impreparate. In termini strettamente economici, è difficile pensare che la costosa lotta al bostrico possa essere effettivamente conveniente.
Oltre a quella economica, il bosco ha naturalmente molte altre funzioni, tra cui per esempio quella di protezione dall’erosione e dal dissesto, quella di regimazione delle acque e quella di conservazione della biodiversità. Ma queste funzioni sono svolte meglio di tutto da un bosco sano. Una funzione ecologica del bostrico è proprio quella di sgomberare il campo dalle piante già vulnerabili, sotto le quali cresceranno altre piante, eventualmente più adatte al luogo e al clima. E che eventi come Vaia e la pullulazione di bostrico possano essere in realtà considerati opportunità per una transizione verso boschi più vari ed ecologicamente stabili, è stato ripetuto da diversi addetti ai lavori.
Un altro obiettivo possibile della lotta al bostrico è naturalmente la conservazione del bosco a fini estetici, paesaggistici e turistici. Ma è proprio a questo punto che può venir voglia di parlare, provocatoriamente, di una gestione biopolitica dell’insetto, con le implicazioni di controllo, normalizzazione, codificazione estesa alla sfera biologica che il termine si porta dietro. Vogliamo usare sofisticati mezzi tecnici per mantenere il bosco così come se lo immagina il turista di pianura, o vogliamo gestirlo in un modo tale che possa svolgere le sue molteplici funzioni al meglio anche in un contesto di clima che cambia?
Certamente resta opportuno tentare di intervenire in qualche modo nelle zone in cui il bostrico potrebbe compromettere funzioni vitali del bosco, come la protezione di centri abitati da frane o valanghe. Ma per il resto pare importante ricordare che In Italia la superficie coperta da foreste è alta e in costante aumento e che gran parte di queste è costituito da foreste collinari e montane, economicamente poco o per nulla sfruttate. Fatto ancora più importante, né una porzione di foresta schiantata da Vaia, né una macchia di alberi colpiti dal bostrico cessa tecnicamente di essere un bosco. Diventa semplicemente un bosco in fase di rinnovazione, fase di per sé del tutto naturale e destinata – magari con il supporto di una gestione attenta – a lasciare il posto a formazioni più adatte al luogo e alle mutate condizioni climatiche.
