Di Anna Capretta
Nelle scorse settimane abbiamo appreso dai giornali l’intenzione della Prefettura di Padova di voler istituire delle zone rosse per aumentare il livello della sicurezza percepita nella nostra città. Dopo una discussione interna al Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica – composto da Prefetto, Questore, Sindaco, Assessore alla sicurezza, Comandante della polizia locale, Comandante provinciale dei carabinieri e Comandante provinciale della guardia di finanza – si è deciso di passare ai fatti: attraverso l’emanazione di un’ordinanza prefettizia della durata di 60 giorni, l’area della stazione è stata resa una zona rossa. La scelta della stazione ferroviaria non è casuale: nel corso degli ultimi anni, le stazioni sono state dei luoghi in cui le politiche di sicurezza urbana, tanto locali quanto nazionali, si sono concentrate con particolare attenzione, alimentando retoriche anti-degrado volte a giustificare un sempre maggiore controllo attraverso la presenza di forze dell’ordine sul territorio – si pensi all’operazione Strade sicure, che anche a Padova ha portato alla creazione di un presidio fisso dell’esercito fuori dalla stazione. Se la predisposizione di politiche di controllo sociale in questa specifica area della città non è una novità, vale la pena riflettere sui possibili effetti dell’implementazione della zona rossa.
In cosa consistono queste zone rosse, che sono state già sperimentate in altre città italiane come Milano, Roma e Napoli? Secondo una direttiva del ministro Piantedosi, promotore di questa misura securitaria, si tratta dell’individuazione temporanea di “aree urbane dove vietare la presenza di soggetti pericolosi con precedenti penali e poterne quindi disporre l’allontanamento”. All’atto pratico, si invitano i Sindaci e le Autorità di pubblica sicurezza a servirsi di strumenti già esistenti, applicandoli a contesti urbani ritenuti “sensibili” sotto il profilo della sicurezza quali ad esempio stazioni ferroviarie, aree di spaccio e di movida, zone “degradate” della città. Tra questi strumenti troviamo, oltre alle ordinanze sindacali, gli ordini di allontanamento e i divieti di accesso: noti anche come daspo urbano o mini-daspo, sono stati introdotti dal decreto Minniti (quindi dal centrosinistra, a dimostrazione di come l’adesione a un discorso securitario sia trasversale a tutto l’arco parlamentare) e poi rivisti e ampliati dai decreti Salvini, soprattutto il primo. Si tratta di misure di carattere amministrativo rivolte contro coloro che, in determinate aree della città (definite dalla legislazione nazionale ma ampliabili dai regolamenti di polizia urbana), compiano una serie di comportamenti che vanno a minacciare la sicurezza e il decoro urbano, anche quando tali comportamenti non comportano la violazione di una legge. I divieti di accesso vedono un ampliamento della loro applicabilità all’interno del ddl 1660, noto anche come ddl sicurezza, che vorrebbe estendere la misura “a coloro che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio” (art. 10).

L’introduzione delle zone rosse incorpora queste disposizioni nonostante debbano ancora diventare legge, dando il via libera alle Prefetture locali per decidere chi può stare in città e chi no. Infatti, la direttiva emanata da Piantedosi attribuisce un ruolo fondamentale ai Prefetti, richiamando l’utilizzo delle ordinanze prefettizie ex art. 2 TULPS (dichiarato parzialmente incostituzionale dalla Corte costituzionale già nel 1961). Tali ordinanze, che la norma definisce contingibili e urgenti, consentono al Prefetto di predisporre l’allontanamento di persone ritenute responsabili di attività illegali da specifiche aree urbane. Era stato proprio Piantedosi, quando nel 2018 era Prefetto di Bologna, a usare per la prima volta lo strumento dell’ordinanza ex art. 2 TULPS in materia di sicurezza urbana. L’iniziativa era stata ripresa da una direttiva di Salvini del 2019, quando il leader leghista era Ministro dell’Interno, per poi essere inserita nella direttiva dell’attuale Ministro nel dicembre 2024.
L’istituzione delle zone rosse viene formalmente giustificata in nome del miglioramento della sicurezza urbana, del contrasto alla criminalità diffusa e a ogni forma di illegalità e della garanzia della piena fruibilità degli spazi pubblici da parte dei cittadini. Viene da chiedersi: di che tipo di sicurezza si parla? O meglio, sicurezza per chi e rispetto a cosa? Una lettura attenta del testo della direttiva, accompagnata da uno sguardo ampio che comprenda le politiche di sicurezza urbana adottate a livello locale e nazionale negli ultimi anni, fa intravedere come la sicurezza di cui si parla escluda dalla popolazione ritenuta meritevole di tutela le fasce più marginali della società – ad esempio, persone senza fissa dimora, persone con background migratorio, persone tossicodipendenti, ecc. Nelle retoriche securitarie di cui il Ministero si fa portavoce emerge in modo chiaro il binomio criminalità-degrado, che contribuisce alla stigmatizzazione e alla criminalizzazione di interi gruppi sociali, spesso poveri e razzializzati. Si tratta di gruppi sociali a cui viene riconosciuta una condizione di “fragilità (abitativa, occupazionale, educativa, familiare)”, ma la responsabilità di tale fragilità e delle condizioni di esclusione sociale che ad essa si accompagnano viene fatta ricadere sui singoli gruppi ed individui invece che sul sistema economico e sociale che l’ha prodotta. La direttiva ministeriale afferma che le diseguaglianze economiche e sociali sono “terreno fertile per comportamenti antisociali” e forme di criminalità, in un elenco che tiene insieme lo spaccio e il vandalismo con l’occupazione abitativa. La causa strutturale delle diseguaglianze non viene menzionata in alcun modo, mentre gli strumenti proposti per affrontarne gli effetti sono volti al controllo e alla “repressione” (parola esplicitamente utilizzata nel testo della direttiva): oltre ai già richiamati strumenti di tipo amministrativo, la direttiva invoca una maggior presenza delle forze dell’ordine sul territorio urbano “per il benessere della popolazione”.
Ancora una volta, ci chiediamo: di che popolazione stiamo parlando? Misure securitarie e punitive che criminalizzano la marginalità sociale, in cui rientra l’istituzione di zone rosse in cui vengono imposte importanti limitazioni alla libertà di circolazione di determinate categorie di soggetti che vengono considerati come degli elementi di disturbo al decoro della città, non fanno che aumentare l’esclusione di questi soggetti dal tessuto urbano. Politiche simili, dal carattere intrinsecamente classista e razzista, hanno l’effetto di dividere i cittadini in “buoni” e “pericolosi”, in “perbene” e “permale” alimentando delle contrapposizioni dal carattere morale in cui quello che viene individuato come nemico deve essere controllato e, se questo non basta, neutralizzato. Vicende come quella di Moussa Diarra e di Ramy Elgami, entrambi uccisi dalla polizia negli scorsi mesi, sono esempi estremi ma pienamente rappresentativi degli effetti di queste politiche. Di cosa succede quando si sceglie di considerare indesiderabili alcuni abitanti delle nostre città, che non per caso sono sempre i soggetti razzializzati e poveri.
Veniamo da anni di politiche tanto locali quanto nazionali che utilizzano un paradigma punitivo legato al concetto di sicurezza urbana per affrontare questioni che richiederebbero ben altri approcci per poter essere risolte. Si preferisce parlare di degrado, riempire le città di videocamere di sorveglianza e agenti in divisa, imporre divieti e ordini di allontanamento piuttosto che affrontare povertà ed esclusione sociale per quello che sono: questioni economiche, questioni sociali, questioni politiche. Finché si continuerà a implementare politiche securitarie e punitive, finché si continuerà a non guardare alla matrice strutturale del problema non si avrà mai la “promozione di politiche […] realmente efficaci”, per richiamare ancora una volta la direttiva di Piantedosi. A meno che non si considerino efficaci delle misure che tutelano solo una parte della popolazione urbana, quella più ricca che vive nel centro storico. Ma non è questa la città che vogliamo. Non abbiamo bisogno di zone rosse, ma di città che accolgano tutte e tutti, dove si investe nella solidarietà e nei servizi pubblici, non nell’esclusione.