di Livia Pinzoni e Tommaso Vidal
A Padova da pochi mesi è nata l’Assemblea di Ateneo, a partire dalla mobilitazione di docenti, ricercatorɜ, dottorandɜ, personale tecnico amministrativo e studentɜ dell’Università di Padova. Si tratta di un’esperienza nuova, per certi versi inedita o rara nella storia delle mobilitazioni universitarie, dal momento che raccoglie e armonizza le voci e la rabbia di diverse componenti della comunità accademica, dal personale strutturato a quello tecnico amministrativo; dal variegato mondo del precariato dottorale e post-dottorale (rappresentato dal Coordinamento Ricercatorɜ Dottorandɜ e Assegnistɜ – CORDA e da ADI) a quello studentesco con la partecipazione di alcuni collettivi (CAU, Spina, Collettivo DISLL), senza dimenticare il personale esternalizzato.
Questa assemblea si inserisce in un contesto nazionale di forte preoccupazione per le sorti dell’Università pubblica italiana, minacciata da una riforma generale che mira a rivedere governance, reclutamento, didattica e diritto allo studio, di cui la cosiddetta «riforma del pre-ruolo» (aka ddl 1240 o ddl Bernini) è solo il primo tassello.
Le attuali mobilitazioni non sono certo un fenomeno isolato, ma l’esito di un malcontento radicato, frutto di anni di attacchi al comparto universitario: tagli strutturali, precarizzazione diffusa e una progressiva aziendalizzazione del sistema accademico ne compromettono la capacità di rispondere alle esigenze di studentɜ e lavoratorɜ in termini di didattica e servizi, e mettono in discussione la sua missione costituzionale di produrre ricerca libera e indipendente dal mercato.
Se da un lato lɜ studentɜ vedono il proprio diritto allo studio progressivamente eroso, dall’altro chi lavora in università subisce condizioni di impiego sempre più precarie, con il blocco del turn-over e l’assenza di adeguamenti salariali. A rendere il quadro ancora più critico, si aggiungono i vantaggi concessi alle università telematiche, dove queste dinamiche si esasperano, ampliando il divario tra i grandi atenei e le piccole università, spesso lasciate senza risorse adeguate in un contesto di competizione sempre più spinta.
I finanziamenti pubblici destinati all’università sono in costante riduzione: il Fondo di Finanziamento Ordinario (Ffo), principale fonte di sostegno per le università pubbliche, con la nuova legge di bilancio subirà una riduzione di 173 milioni di euro rispetto al 2023, a cui si aggiunge un’ulteriore riduzione di 340 milioni, vincolati a piani di reclutamento straordinario già programmati ma non adeguatamente finanziati. Nel solo 2025, senza contare la stagione di tagli lineari che si profila all’orizzonte, il sistema universitario italiano dovrà far fronte a una contrazione di risorse pari a circa mezzo miliardo di euro, che rappresenta il calo annuale più significativo mai registrato nel finanziamento degli atenei, addirittura superiore a quello del 2010, che diede origine al movimento dell’Onda.
Non sorprende, dunque, che stiamo assistendo a un momento di generalizzazione e diffusione della protesta senza troppi precedenti per l’università italiana, di cui lo sciopero generale del 29 novembre è stato un importante banco di prova, dimostrando che negli atenei si stanno aprendo nuovi spazi di mobilitazione. Spazi che l’Università ha il dovere di abitare per costruire alleanze ampie, indispensabili per affrontare la primavera delle controriforme che ci aspetta, e rilanciare un contrattacco che pretenda il rifinanziamento dell’istruzione pubblica, la stabilizzazione del personale precario e un vero diritto allo studio. Perché, sebbene l’università attuale sia sicuramente preferibile a quella che il nostro governo si sta immaginando per il futuro, resta comunque un’istituzione frammentata, indebolita, che fatica a reagire. Eppure le acampade contro il genocidio a Gaza hanno mostrato che gli atenei possono ancora essere luoghi di espressione del conflitto, di discussione critica del presente. Tuttavia, a quindici anni dalla riforma Gelmini, difendere l’università pubblica non può limitarsi a una battaglia difensiva: serve uno sforzo di immaginazione collettiva, capace di ripensare radicalmente un’università adeguatamente finanziata e libera dalle logiche neoliberali.
E il vero punto di forza dell’Assemblea di Ateneo padovana risiede proprio nella sua capacità di unire tutte le componenti dell’università—docenti, ricercatorɜ, personale tecnico-amministrativo e studentɜ—superando le tradizionali frammentazioni che hanno indebolito le mobilitazioni precedenti dell’Onda e, prima ancora, della Pantera.
Quali sono le rivendicazioni dell’Assemblea di Ateneo?
Il coordinamento dell’Assemblea ha elaborato una piattaforma di rivendicazioni avanzate al Governo nazionale, al Parlamento, alla Regione, all’ESU e all’Ateneo, che ci restituiscono un tentativo di costruzione di un immaginario diverso dell’Università.
Al centro delle richieste vi è il rifiuto della precarizzazione come strumento di compensazione al definanziamento: troppe figure accademiche sono costrette a lavorare in condizioni di instabilità, attraverso forme non contrattuali che privano lavoratori e lavoratrici dell’esercizio dei loro diritti fondamentali. Si chiede inoltre il riconoscimento e la tutela del personale esternalizzato, con la garanzia di salari adeguati, stabilità occupazionale e condizioni di lavoro dignitose negli appalti per la gestione delle attività strumentali all’interno dell’Ateneo.
Un altro nodo centrale è l’opposizione alla riforma Bianchi sui “60 CFU”, che rende l’accesso all’insegnamento ancora più elitario imponendo costi insostenibili e senza alcuna agevolazione economica. Parallelamente, si rivendica l’adeguamento ISTAT per il personale non contrattualizzato, per contrastare l’erosione del potere d’acquisto di fronte a un’inflazione che ha raggiunto il 17,3% nel biennio 2022-24. Anche le borse di dottorato risultano del tutto insufficienti rispetto al costo della vita in città universitarie come Padova, aggravato da un’impennata del prezzo degli affitti, aumentati del 45% negli ultimi quattro anni, dai 9,16 euro/m² del 2020 ai 13,29 euro/m² del 2024. Di fronte a questa crisi abitativa, l’Assemblea chiede un piano strutturale per la costruzione di residenze universitarie pubbliche, in modo da garantire soluzioni dignitose e accessibili.
A completare questo quadro vi è la richiesta di finanziamento integrale delle borse di studio, per eliminare la figura degli “idonei non beneficiari” e garantire un accesso reale e non selettivo all’istruzione superiore. Nella stessa direzione va la richiesta di un servizio di ristorazione efficiente e di qualità, che risponda ai bisogni di studentɜ e lavoratorɜ invertendo la tendenza alle chiusure continue delle mense universitarie verificatasi negli ultimi anni. Infine, sulla scia delle mobilitazioni per la Palestina e delle lotte ambientaliste, si chiede l’avvio di un processo di due-diligence per rivedere e annullare gli accordi tra l’Università di Padova e aziende o istituzioni coinvolte in scenari bellici, in gravi violazioni dei diritti umani o in pratiche eco-inquinanti che contribuiscono alla crisi climatica.
Il 17 dicembre si è tenuta la prima grande manifestazione unitaria di tutte le componenti dell’università contro i tagli e il Ddl Bernini, a seguito della quale è stato deciso di consegnare la piattaforma rivendicativa alla rettrice e al prefetto, con cui si sono svolti incontri a porte chiuse nella prima metà di gennaio.

Com’è andato l’incontro con prefetto e rettrice?
Secondo quanto riportato dalla stessa Assemblea di Ateneo, gli incontri di consegna della piattaforma sono andati più o meno come ci si poteva aspettare. L’incontro con il prefetto, segnato da un clima di ascolto interessato, ha ottenuto il risultato (non per forza scontato) di un’effettiva trasmissione all’autorità competente delle rivendicazioni nazionali. Decisamente più problematico l’incontro con la rettrice dell’Università di Padova Daniela Mapelli: mentre un presidio convocato sotto palazzo Bo cercava di dare pubblicità all’evento e ricostruire il senso e il percorso della mobilitazione, dietro alle porte chiuse del rettorato la delegazione dell’Assemblea si è scontrata di fatto contro le posizioni della governance di ateneo che sono parse subito inamovibili. Alle richieste avanzate dall’Assemblea di Ateneo, la rettrice ha opposto i tecnicismi; alla ricerca di un modo migliore di fare l’Università, la fatalistica accettazione dello stato attuale.
La consegna della piattaforma – e del resto la piattaforma stessa – non è però la fine di un percorso, semmai ne è l’inizio. Se l’incontro con il prefetto ha messo in luce come definanziamento e limitazioni al turn-over siano comuni all’intera funzione pubblica, quello con la rettrice dell’Università di Padova ha evidenziato tutte le insidie e le difficoltà che le mobilitazioni si troveranno ad affrontare nell’università aziendalizzata. L’attacco portato avanti dal ministero e dal governo al sistema Universitario (e all’intera istruzione) sono infatti senza precedenti e superano persino l’offensiva lanciata quindici anni fa dal governo Berlusconi IV. Se allora la “riforma Gelmini” incalzava su un processo di aziendalizzazione che era appena agli inizi, ora gli interventi del ministero guidato da Anna Maria Bernini arrivano quando tale processo è in una fase di evidente accelerazione. Oggi la progressiva negazione del diritto allo studio, il controllo esercitato sul personale ricercatore e docente tramite ANVUR e VQR, la compressione salariale del personale tecnico-amministrativo, le esternalizzazioni, il taglio del Fondo di Finanziamento Ordinario e l’ampliamento della platea del personale precario, produttivo ma privo di diritti (come lo sciopero) ed escluso dagli organi rappresentativi interni dell’università, sono parte di un’unica offensiva e hanno un chiaro obiettivo: demolire l’Università repubblicana. Tanto più se il management universitario, soprattutto nei suoi livelli più alti, si rende complice di questa deriva, assecondando compiacente la verticalizzazione del sistema o abiurando il proprio ruolo politico, rendendosi mero passacarte dell’università aziendalizzata.
Di fronte a queste sfide diventa fondamentale iniziare a concepire e concepirsi in mobilitazione al di là degli obiettivi ristretti come possono essere l’opposizione a una legge finanziaria o a un DDL precarizzante. Se l’offensiva dello Stato mira a demolire l’Università come presidio di democrazia e come luogo libero, aperto, plurale di costruzione dei saperi, l’orizzonte mobilitativo non può che partire ribadendo proprio questo ruolo dell’istruzione superiore (e non solo). Se l’attacco alle Università passa anche e soprattutto nella loro trasformazione in aziende, in cui tutte le componenti sono chiamate a pagare il tributo alla produttività, ciascuna con le modalità che le sono proprie, questa e future mobilitazioni non potranno che partire dal costruire e costruirsi come pratiche alternative. Per questo motivo esperienze come quella dell’Assemblea di Ateneo che ha progressivamente fatto delle pratiche di dibattito collettivo, ascolto e autocoscienza delle proprie componenti un momento fondativo sono estremamente importanti. Non solo perché sono in grado di mobilitare una porzione maggiore e coesa del mondo universitario, unendo studentɜ, personale strutturato, tecnico-amministrativo, precario ed esternalizzato, ma anche perché al loro interno le singole componenti non vengono annullate ma partecipano e rinforzano la propria coscienza individuale e collettiva, contribuendo a costruire davvero una comunità di apprendimento e costruzione dei saperi. Ecco, se l’Università repubblicana può avere un futuro questo dovrà partire dalla costruzione di mobilitazioni in grado di praticare, prima ancora che ottenere, un modello di collettività aperta, accessibile, antiautoritaria e libera.

