di C. H.
Mi era da poco capitato di parlare dei Quindicimila passi quando ho ricevuto il messaggio di un’amica che mi informava che Trevisan non c’era più. Onestamente, non me ne è mai fregato nulla della morte di uno scrittore, nemmeno della morte di un attore o un cantante se è per questo. Ho sempre pensato che fosse la vita e che in fin dei conti quelle persone nemmeno le conoscevo, quindi in definitiva anche affari loro. Quando ho saputo della morte di Trevisan mi sono sorpreso a scoprire che la cosa mi toccava, non mi lasciava indifferente. È stato come se una voce molto vicina e familiare si fosse improvvisamente ammutolita per sempre, come fosse scomparso un conoscente, non uno scrittore qualunque.
L’indomani sono uscito a camminare da solo lungo le strade della mia città addobbata ancora a festa, durante la camminata ho riflettuto più volte sull’accaduto, sono entrato in un paio di librerie e ho cercato i suoi libri, non per comprarli ma solo per vederli, tenerli in mano, rileggere le quarte di copertina. Ho scritto qualche messaggio ad alcuni vecchi amici per condividere con loro la mia inquietudine, rendendomi conto che i sentimenti che stavo provando e le riflessioni che stavo facendo erano in un qualche modo condivisi.
Trevisan è stato una voce vicina e familiare perché ha saputo dare una dignità artistica a quel disagio sordo provato da tanti noi veneti che non siamo mai stati davvero in grado di accettare il luogo in cui siamo nati e cresciuti. È riuscito attraverso la scrittura a delineare i contorni di quella rabbia apolitica, viscerale e afasica che ci porterebbe a mandare a cagare il vicino di casa che ci saluta la mattina davanti al cancello anziché a ricambiarlo. Così senza una ragione apparente, solo perché non li sopportiamo. Trevisan ha fornito una figura a quell’oggetto incandescente e deforme che molti di noi si trovano a dover tener fra le mani fin dall’adolescenza e con cui siamo costretti a convivere una vita intera. Lo teniamo in mano e fatichiamo a capire come fare a maneggiarlo senza farci del male. Quindi proviamo a costruirgli dei confini per evitare che si allarghi a dismisura fino ad inghiottirci. È quell’oggetto che provoca quella forza centrifuga che ci spinge fuori, all’esterno. Ci ritroviamo in questo modo a spendere il nostro tempo a capire come stare fuori, perché non ci si sentirà mai davvero dentro, pur sempre mantenendo un piede mezzo all’interno per non cadere nel baratro. E i baratri poi non sono nemmeno così tanti: le dipendenze, l’emarginazione sociale, le lunghe giornate passate nei bar, la solitudine. Tentiamo di essere l’alterità che ha trovato il compromesso per sopravvivere. A volte qualcuno scappa, un po’ come il personaggio di Il ponte. Un crollo, a volte resta o torna ed insiste a capire come creare quello spazio tra sé stesso e il resto che gli permetta di non affondare, o almeno di non vedere troppo da vicino quel mondo che non accetta. Ecco: Trevisan a suo modo era riuscito a fare tutto questo, aveva preso quell’oggetto oscuro e bruciante, l’aveva modellato e aveva trovato nella letteratura il suo modo per resistere. Anche se a volte ti faceva incazzare leggerlo e avevi solo voglia di dire: “adesso basta Trevisan, hai rotto il cazzo, la stai menando troppo.”
Ho letto i Quindicimila passi quasi dieci anni fa, non ho più riletto quel romanzo da allora e ora non ho un ricordo preciso del libro ma solo di qualche immagine, sensazione. Nel periodo in cui lo stavo leggendo ero talmente infastidito dal Veneto, avvilito dalla sua piccola meschinità, che avevo deciso di tagliare la corda e andarmene. Mentre leggevo nel suo romanzo le descrizioni delle palazzine lungo la SP248 sentivo terribilmente prossimo il tedio di quelle vite rinchiuse lì dentro, quella percezione di ineluttabilità nel ritrovarmi anche io un giorno lì. Eppure, il suo libro, in quel periodo in cui non riuscivo a trovare molte mediazioni con la mia rabbia e la mia paura, era lì e mi mostrava che era possibile fornire almeno una fisionomia e un decoro a quei pensieri scomposti. Infatti, come ha avuto modo di scrivere un’amica in un racconto, non è affatto uguale se prendi l’autobus la mattina per andare a Ponte di Brenta (che non è così diverso che prenderlo per andare lungo la SP248) o lo prendi per raggiungere un qualunque luogo, magari altrettanto desolante, nella periferia di New York. Non è uguale perché di Ponte di Brenta in definitiva a nessuno frega nulla: nessuno ci ha mai scritto un bel niente, né ci ha fatto un film. Perciò noi e il nostro disagio non abbiamo nulla che ci faccia apparire più belli e sopportabili. Ecco, Trevisan, forse anche solo involontariamente, ci ha aiutati ad esserlo.
A poco vale, a mio avviso, scrivere ora titoli ad effetto “è morto il Thomas Bernhard del Veneto”, a poco valgono anche tutte le parole di circostanza o le profonde analisi letterarie sul blablabla del perché è stato uno scrittore tra i più interessanti di questi ultimi vent’anni. A poco valgono, almeno ora, in questo momento. Trevisan, per quanto a volte ti stava anche sul cazzo, ad una parte di noi – qui – ha parlato da vicino, è stata la voce che ci ha reso meno osceno quello che a volte ci appare inguardabile e con il quale non riusciamo a fare del tutto i conti. E mentre lo faceva era come se fosse uno degli avventori di uno dei tanti bar delle nostre province con il quale ti capita ogni tanto di scambiare due parole, non un estraneo. Ma era anche noi che vomitiamo parole di odio, fastidio e malessere quando attraversiamo in auto o a piedi le varie sp o ss e vediamo la melma dello sviluppo da far west di queste zone, il loro degrado culturale. Solo che noi, in genere, vomitiamo e basta. Questi sono i motivi per cui la sua morte ci tocca per davvero.
2 thoughts on “Di te me ne importa qualcosa. Su Trevisan”
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