di Stefania Giroletti
Black Tulips (Einaudi, 2022) è il romanzo postumo di Vitaliano Trevisan. Approda nelle librerie quando ormai l’autore si è tolto la vita: è un romanzo sospeso, più che incompiuto. Racconta, mescolando biografia e fiction, del viaggio che l’autore fa in Nigeria in cerca di lavoro, in compagnia di Ade, una prostituta di Benin City conosciuta a Vicenza, di Amen, il cugino, e di Mudia, il meccanico con cui avrebbe dovuto intraprendere una sconclusionata attività commerciale.
La Nigeria non è un pretesto, ma sicuramente è il motore di una serie di interrogativi che la travalicano, andando a investire l’Italia, le categorie con cui ragiona, ama, muore l’uomo bianco, fino a mettere alla prova l’uso stesso delle parole, la forma della scrittura dell’autore. Una forma che si espone fino al rischio della frantumazione. Ma Trevisan voleva parlare e ancora una volta è riuscito a farlo profondamente. A questo autore abbiamo già dedicato un articolo. E ora riprendiamo il dialogo.
C’è una separazione netta fra il bianco e il nero. Ma c’è anche la possibilità che il nero diventi specchio del bianco. Se esponi una fotografia al limite, scompaiono le zone grigie: o te, o me. L’immagine si appiattisce e perde volume. Non esiste prospettiva, solo contrasto. Quando è massimo il grado di alterità, ecco che scatta imprevedibile e straniante il riconoscimento. E così, non ti eri proprio mai visto.
Si può descrivere il Veneto attraverso la Nigeria?
Si può conoscere l’uomo bianco attraverso la donna nera?
Si può essere un cliente e parlare politicamente di prostituzione?
Queste, e tante altre, sono le domande che mi sono fatta leggendo Black Tulips di Vitaliano Trevisan. Sentivo una certa ritrosia nell’iniziare questo libro: conoscevo a grandi linee il contenuto e temevo il cinismo, il gusto di un politicamente scorretto portato ai limiti. A Trevisan piaceva spiazzare, si sa, e gli piaceva affondare la lama acuminata e amara della sua lingua nel bon ton dell’intellettualismo accademico. Per capirci: nessuna sex workers, in questo libro, solo puttane. È una provocazione, ma solo a metà. In questa scelta c’è un’intenzione.
You must c with your own eyes. È una delle frasi che ricorre nel testo, nonché il titolo complessivo di una serie di frammenti che ricostruiscono i dialoghi e i rapporti fra il personaggio Trevisan e le prostitute nigeriane che frequenta. La frase in pidgin-english, nello specifico, è un’esortazione ad andare a vedere, in Nigeria, ciò che altrimenti non si potrebbe capire, per astrazione intellettuale. Vedere, non ragionare, perché la distanza è troppa, è immensa e, prima di essere capita, va vista. E vista nella sua lacerazione, nella piena e inconciliabile differenza.
Trevisan va in Nigeria e fin da subito comprende, anzi sente, la sua alterità: è un oyibo (un bianco) e tutti lo guardano. In aeroporto, nelle strade, negli alberghi, nei ristoranti: è fluorescente, gli occhi di tutti sono su di lui, scrutandolo, seguendolo. Il personaggio-autore comprende l’impossibilità della trasparenza – reale e poetica – a cui può tendere solo fuori dalla Nigeria. Non essere visto, nascondersi in una casa di mezza montagna; farsi filtro letterario (più o meno deformante) di un Paese che attraverso il suo sguardo impietoso può prendere voce e narrare di tutti. Qui, per Trevisan è chiaro che lui non può narrare l’altro da sé, perché l’altro si staglia contro il medesimo e si dimostra impenetrabile. Inappropriabile. Quindi niente filtri, niente mezze parole o mezze misure in questo scontro fra l’io e l’altro. Come quando si parla una lingua straniera mai realmente imparata: il dialogo è al grado zero, la lingua è quella ustionante della materia più concreta.
Tu non sei l’altro: il tuo colore è un altro; la tua ricchezza – anche se in patria sei praticamente un proletario – è un’altra; il tuo paesaggio è un altro; la temporalità è un’altra (quella dei rolex); la morte è un’altra. Non sei accettato, non sei benvoluto e, possibilmente, verrai fregato: che sia la oyibo tax o un’imboscata notturna per le strade di una Lagos nemica, o un museo che non apre, un’attesa indefinita, uno spazio non mappabile. Che poi, per un bianco è così strano non sentirsi a proprio agio, sicuro fisicamente e culturalmente, sempre in grado di filtrare e comprendere, quindi incasellare, la differenza altrui. Se un nero, in Italia, non vuole che il bianco Trevisan entri in casa sua, lo si può giustificare e capire, perché secoli di discriminazione e depredamento portano a un odio che le categorie del bianco intellettualmente superiore possono comprendere e persino condividere. Ma là, in Nigeria, quando un musulmano sputa al suo passaggio, Trevisan non ragiona affatto: reincontrandolo, sputa a propria volta; in un’altra occasione cerca la rissa per uno guardo storto. Perché è mutato l’atteggiamento, perché è finita ogni mediazione? Forse perché l’altro è stufo di voler esser compreso da te, e forse Trevisan ci teneva a dirci proprio questo.
Così nella lingua di Black Tulips – oltre che nei temi di questo libro – percepiamo una frizione e capiamo di trovarci di fronte alla messa in discussione delle possibilità della parola: ci sono interi frammenti, a metà opera, in cui la sintassi salta completamente, perdendo fluidità, sicurezza e appropriatezza e mimando un’oralità ulcerata, incerta, al limite dell’incomprensibile. Come poco comprensibile è quel mondo. Anche la scelta generale di comporre un racconto-saggio a frammenti potrebbe essere interpretata in questa direzione.
Ma i frammenti aiutano anche il mescolamento grafico di ciò che geograficamente e culturalmente risulterebbe diviso. Ed è alla luce di una scelta strutturale che l’altro finisce col sovrapporsi al sé fino all’inedito rispecchiamento. Quindi, all’improvviso, come dice Chika a Trevisan: Italians are the Nigerians of Europe, abi?
I piigs di un’Europa sempre più settentrionale e sempre più bianca: deboli economicamente, poveri, arraffoni, mafiosi. Come i nigeriani, no? E i veneti in particolare: i “terroni del nord”, i contadini, gli ignoranti, i migranti. Riemerge un rimosso a colpi di pidgin-english e dialetto veneto sovrapposti e consonanti. Risuona un controcanto veneto, nella descrizione che Trevisan fa dell’ossessione securitaria di Lagos, che caratterizza tanto gli edifici, quanto gli atteggiamenti: le recinzioni, le reti metalliche, i cocci di bottiglia, le pesanti inferriate a sbarrare porte e finestre, il filo spinato. Certo, in Nigeria è esasperata la paura della povertà – perché l’ansia securitaria è quella dei ricchi in un paese povero e quindi pericoloso – mentre in Veneto le stesse inferriate cercano di tenere lontano un fantasma del passato. Ma sono quasi la stessa cosa. E Makoko, la baraccopoli alla periferia di Lagos, di cui le autorità locali non riescono a sbarazzarsi, la fangosa cloaca che svergogna lo stato di fronte ai turisti internazionali che visitano la capitale, è ironicamente definita la “Venezia nera” o “Venezia d’africa”. E ce la fa osservare, Trevisan, quella strana Venezia affamata, sporca e promiscua che rovescia l’immagine sfolgorante della città più romantica del mondo, dove si radunano tutte le star del momento, fra una Biennale e un festival del cinema. In quale anfratto borbottano ancora gli originari pescatori? Chi, quando e perché ha voluto farli fuori, marginalizzali? L’autorità locale, però, non ha tenuto conto che è la corrosione dei margini a far crollare, prima o poi, la diga:
“perché è lì, nel bordo, che la catastrofe giace, apparentemente inerte, ma vigile; una volta attaccato e penetrato il bordo, il cedimento, che può verificarsi anche dopo anni, non è che il risultato finale, eclatante, del disastro di cui è insieme riassunto e emblema”
Trevisan ancora una volta ci parla di una grande finzione, scoperchiata dall’altro che fa emergere allo specchio il ghigno di un sé dimenticato, rimosso. Come Vicenza, l’elegante, borghesissima città in cui a lungo ha vissuto l’autore, che di notte si trasforma in un luogo differente, in particolare nella zona della stazione, quella che è stata definita il “quadrilatero del disagio”. Ed è proprio in quelle strade che l’autore-personaggio ama incamminarsi, piuttosto che fare le vasche fra le vie illuminate del centro, perché è qui che si gioca a carte scoperte. E qui che la commercializzazione della vita si mostra nella sua esasperazione, attraverso le prostitute nigeriane che sono le proletarie del mestiere. È in questo centro commerciale diffuso e a cielo aperto che le dinamiche di compra-vendita dell’esistenza si palesano nella maniera più indecorosa possibile. Incredibilmente, è da qui che si riscoprono calore, umanità, consapevolezza. Una tempra che dona luce a un libro duro, accusatorio e feroce nei confronti di un paese stanco e meschino come il nostro, che genera solitudini esasperate, e di una regione perbenista, cattolica, arricchita e tremendamente finta che sa rovinare la vita, come il Veneto.
Questo libro non vuole però solo la deflagrazione. Se qualcosa deve distruggersi, se in virtù dello scontro con l’altro l’io deve diminuirsi, è per provare a costruire qualcosa d’altro. Di rovesciato. Per svegliarsi talvolta è necessario guardarsi in uno specchio inaudito, in grado di ridurre all’osso l’immagine: quell’immagine ti osserva, ti sbugiarda, ti invita a tenere fisso lo sguardo su un mondo da rifare.
Vitaliano Trevisan nel suo libro parzialmente autobiografico (come tutti, d’altra parte) Works racconta di aver sempre saputo di avere un futuro da scrittore, anche senza aver mai scritto una riga. In un’intervista di qualche anno fa affermava di aver iniziato a scrivere perché gli avevano regalato un computer; in un’altra, per i soldi. Nato nel 1960 e morto, dopo una vita tormentata ma decisamente varia e, speriamo, alle volte divertente, un anno fa, nei suoi Quindicimila passi, Shorts, Tristissimi giardini ha parlato del Veneto senza per questo essere uno scrittore regionale, categoria che avrebbe odiato. In un suo paragrafo parla della «mia ira immobile, o la mia furibonda immobilità»: l’arrabbiata figura dell’invettiva attraversa la sua opera e ci chiede conto delle nostre giornate e delle nostre miserie. Black tulips, oggetto di questo articolo, esce postumo nel 2022.