intervista a Luca Illetterati
A partire dalle chiusure del 2020, un gruppo di docenti dell’Università di Padova ha iniziato un percorso di resistenza e di alternativa rispetto alla possibile istituzionalizzazione della didattica a distanza, leggendovi un’accelerazione delle dinamiche produttivistiche e aziendaliste che interessano l’istituzione da decenni. È stato organizzato un convegno (qui i materiali) e preparati dei punti programmatici in vista di un manifesto (qui il sito). Ne abbiamo parlato con uno dei promotori del gruppo, Luca Illetterati.
Partirei chiedendole da dove nasce questa esperienza e come si è sviluppata.
Il gruppo è nato nella pandemia e, da un certo punto di vista, grazie alla pandemia. Ci siamo accorti che durante i primi mesi dello scorso anno si stavano realizzando delle modificazioni, delle trasformazioni, delle autentiche metamorfosi della vita all’interno dell’università. Da un certo punto di vista erano evidentemente del tutto giustificate dal clima che si stava creando; d’altra parte, però, avevano altre caratteristiche che fuoriuscivano dalla specificità della situazione che si stava affrontando.
Da un lato queste modificazioni erano molto coerenti con una serie di trasformazioni che hanno coinvolto l’istituzione universitaria, ma in generale il mondo della formazione, a partire dalla scuola. Erano molto coerenti con una serie di interventi normativi, ma quasi vorrei dire comportamentali, che avevano colpito tutte queste istituzioni negli ultimi vent’anni; cioè, se si vuole mettere una data, dalla Riforma Gelmini.
Durante i primi mesi di pandemia tali mutamenti riguardavano soprattutto la dimensione didattica; ci si rendeva conto che però questi mutamenti non erano delle cose eccezionali, ma che sarebbero state da inserire all’interno di un clima precedente. Proprio per questa coerenza sembravano prefigurare un futuro.
A un certo punto succede questo: un collega di chimica, che non conoscevo, aveva letto un mio articolo in cui dicevo queste cose. Mi ha chiamato e mi ha detto «Guarda, noi non ci conosciamo, ma sono d’accordo con quello che dici»: da lì è nato il gruppo.
Il nostro grande timore è che la sbornia pandemica in qualche modo renda molto più fluido un processo che poteva essere invece più ragionato e che poteva trovare anche degli elementi di attrito e di resistenza nella realtà
Lo scopo è quello di riflettere sulle trasformazioni, sulla potente tensione accelerativa che ha coinvolto l’università durante la pandemia per capire se queste trasformazioni fossero connesse solo alla situazione pandemica o fossero parte di una strepitosa accelerazione di processi, già nati fuori dalla pandemia ma che prefiguravano un futuro dopo la pandemia. Il nostro grande timore è che la sbornia pandemica in qualche modo renda molto più fluido un processo che poteva essere invece più ragionato e che poteva trovare anche degli elementi di attrito e di resistenza nella realtà. Invece questo elemento sembra produrre una torsione senza che venga vissuta nei termini dolorosi in cui qualsiasi tensione deve essere vissuta.
Leggendo il vostro manifesto la prima cosa che si nota è che non ci si rivolge contro i cambiamenti risultanti dalla pandemia, ma si affronta l’attuale modello di università in generale. In che termini le due cose sono collegate? In che termini cioè il presente modello di università ha favorito le trasformazioni in questa direzione?
Noi non vogliamo che il nostro ragionamento sia relativo alla pandemia. Se la pandemia richiede che noi stiamo chiusi, se le condizioni generali lo impongono e ci viene detto che è importante che in questo momento noi si eviti la lezione in presenza va bene, non è lì il problema, lo viviamo con dolore e sacrificio ma se si deve fare si fa. Il problema che noi cerchiamo di porre riguarda che cosa l’emergenza pandemica renda possibile indipendentemente da essa. Questo è il nostro orizzonte: vogliamo fare in modo che quello che sta avvenendo diventi l’occasione per discutere ciò che è avvenuto e ciò che avverrà, non ciò che sta avvenendo nella puntualità di questo istante.
Cosa sta avvenendo in questo momento? Può fornire una valutazione della didattica nel corso della pandemia?
Vorrei essere molto prudente nei confronti di questo modello di didattica e provare a contestare una certa retorica che ha caratterizzato alcune università tra cui Padova e le grandi università soprattutto, che sulla base della didattica blended hanno cercato di accaparrarsi nuovi studenti: quindi, da questo punto di vista, nuovi clienti. Si dice allo studente che vive in zone più disagiate e lontane del paese: non è necessario che tu ti muova, noi ti portiamo il servizio a casa. Questo è stato per lo più presentato come un movimento di inclusione. Si dice a chi vive nelle parti più disagiate: resta dove sei e resta quello che sei, non pensare all’università come a un luogo di trasformazione per te stesso, di crescita, di possibilità di liberarti magari di una condizione di disagio, perché noi veniamo dentro il tuo disagio.
Si dice a chi vive nelle parti più disagiate: resta dove sei e resta quello che sei, non pensare all’università come a un luogo di trasformazione per te stesso, di crescita, di possibilità di liberarti magari di una condizione di disagio, perché noi veniamo dentro il tuo disagio
Il vostro manifesto si muove sul filo del rasoio. Una critica alle innovazioni tecnologiche, nelle quali la DAD ha la funzione di punta di diamante, potrebbe essere fatta in nome di un passato radioso; opzione che voi rifiutate. Preferite piuttosto fare riferimento alla trasformazione e al superamento del presente in termini appunto di un futuro diverso. In questo modo si ritaglia per l’università un ruolo – anche – di critica propositiva. Questi discorsi hanno un’efficacia, a mio parere, quando escono dai campi (capiamoci, proprio alla Bourdieu) in cui vengono formulati e attraversano la società. Che ne pensa? Pensa cioè a un’espansione di questi discorsi? Quali sono gli interlocutori, quali i compagni di strada?
Guardi, lei ha toccato un punto per me difficile, e da un certo punto di vista anche il più ambiguo, di tutta questa faccenda. I nostri avversari, coloro che invece cavalcano questo processo trasformativo e lo vivono come un grande balzo in avanti nelle dinamiche progressive della società, hanno un argomento molto facile: ci accusano di essere passatisti. Di guardare a un passato, che è poi peraltro un passato molto spesso mitologizzato, non un passato reale. Vi piace di più il passato del futuro.
Noi invece vorremmo smarcarci radicalmente. Io, personalmente, sono stato un critico feroce dell’università del passato; c’erano cose bellissime, ma anche cose orribili. Era un’università elitaria, che ingigantiva alcuni elementi di disuguaglianza sociale che c’erano, e ci sono, nella società; era un’università caratterizzata da meccanismi di cooptazione sicuramente poco chiari. Non ho nessuna nostalgia di tutto questo! Quello che non sopporto è che venga utilizzata la critica a quel modello di università per imporre un’università che in realtà non è un’università del futuro, ma è un’istituzione schiacciata sul presente. Su alcune dinamiche del presente che tendono a perpetuare le diseguaglianze del presente.
Il tentativo è quello si pensare la sfida, l’elemento anche complesso di questa operazione. Siamo perfettamente consapevoli di questa complessità. Si cerca di dire: si può essere critici dell’università del passato, e pensare a un’università del futuro che non sia però un adeguarsi alle radicali diseguaglianze che caratterizzano il presente? Il nostro timore è che alcuni degli strumenti di trasformazione che sono stati messi in atto rischiano non solo di adeguarsi allo stato delle diseguaglianze che caratterizza il presente, ma di acuirle queste diseguaglianze, di andare ulteriormente a determinarle.
L’idea è: è possibile pensare al futuro senza iscriversi al partito degli entusiasti novatores rispetto a qualsiasi elemento di velocizzazione, efficentizzazione, cultura della competizione e del ranking, che io penso essere una cultura nefasta e che caratterizza in modo radicale la nostra contemporaneità? Ci rendiamo benissimo conto, ce lo diciamo con le lacrime agli occhi: non stiamo per diventare nostalgici? Non stiamo per ricadere in quell’orrida malattia dello spirito che è appunto la nostalgia per un passato che di solito non esiste? Che è solitamente un passato mitologizzato? Proprio per la nostra consapevolezza abbiamo però qualche anticorpo in più rispetto a chi è convinto che l’innovazione sia identica al miglioramento, che tutto ciò che è nuovo sia necessariamente buono. Questo sì è un pregiudizio. Chi identifica innovazione e giustizia non sa che si muove dentro a un pregiudizio che è un bias strepitoso.
Un percorso del genere richiede un’apertura, non può limitarsi a restare un discorso fra docenti. Con chi pensate di interloquire?
Innanzitutto, avevamo bisogno di una fase di confronto schietto tra docenti di aree scientifiche molto diverse per capire se il disagio che stavamo vivendo era semplicemente individuale, magari psicologico, connesso a delle caratteristiche singolari; o se invece fosse avvertito a un livello che ci consentiva di uscire da quello della singolarità.
Questo lavoro è stato fatto in questi mesi, in un incontro ogni quindici giorni: una specie di analisi di gruppo, ha avuto però la funzione di farci capire quanto tutto questo riguardi un sistema. È stato un passaggio decisivo, volendo ingenuo; ma nel momento in cui riconosci nell’altro che il tuo disagio trova una eco, una risposta nel linguaggio dell’altro: abbiamo capito che proseguire aveva senso. Abbiamo raggiunto un livello minimo di stabilità, e siamo pronti a uscire, ad andare incontro agli studenti, al personale tecnico amministrativo ma anche – ed è l’aspetto che personalmente mi interessa di più – al mondo della scuola.
Queste cose in quel mondo sono oggetto di attenzione da molti anni, lì si è più avanti che nell’università: le trasformazioni sono arrivate prima, si è stati in grado di ragionarci, con un grado di consapevolezza decisamente maggiore. Esiste una elaborazione problematica della questione fatta all’interno del mondo della scuola; all’interno dell’università una simile elaborazione è ancora agli albori. Trovare una piattaforma che metta insieme scuola e università, docenti e studenti, sulle politiche della formazione per il futuro, è una questione decisiva che potrà avere effetti a livello sociale più ampio.
Credo insomma – ed è un secondo punto – che la scuola e l’università possano diventare un luogo di elaborazione di strategie di azione e di pensiero che vadano poi fuori dall’università, finendo per coinvolgere qualcos’altro. Gliela dico molto banalmente, ma io ho l’impressione che se un pensiero di critica del presente può trovare una qualche forma di elaborazione oggi, deve partire da qui; e da qui può trovare altri luoghi di sviluppo. Ho l’impressione che oggi questo sia il punto nevralgico. Il mondo della scuola e dell’università è un mondo sul quale si è tranquillamente agito a livello normativo, legittimati da una cultura diffusa che dipingeva scuola e università come luoghi del privilegio, sui quali era perciò necessario un intervento riformatore tutto retto da logiche di tipo produttivistico. E in questo senso il modo in cui si è pensato alla scuola e all’università sono cartine al tornasole di una concezione della società e della vita che va oltre esse. Proprio per questo un’elaborazione critica del presente può partire da qui, e da qui può avere effetti, credo, fuori da questi ambiti. Quello che mi interesserebbe in questo momento sarebbe dunque creare una piattaforma in cui il mondo della formazione in senso ampio pensa a se stesso e alle proprie trasformazioni per proporre un’alternativa.
1 thought on “Università e DAD: la controproposta dei prof padovani”