di Cecilia Beretta
Premessa: Molto spesso la vita delle donne ci interessa solo in quanto donne, perché vogliamo scoprire e giudicare tutto ciò che fanno, passandolo al vaglio di giudizi, filtrandolo. A volte ci caschiamo tutti, anche le femministe che giudicano ossessivamente i comportamenti e le pratiche delle altre donne, andando contro quell’imperativo primario del femminismo degli anni Sessanta che prescriveva di ripartire da sé, dai propri desideri, di guardarsi dentro, con o senza speculum.
Per questo motivo ritengo più che mai necessario pensarsi come femministe in cammino, con le proprie idiosincrasie, le proprie battute d’arresto, la propria storia. Però ritengo anche che, soprattutto quando si parla di concetti, sia necessario assicurarsi di andare tutte e tutti nella stessa direzione. E temo che il libro di Elisa Cuter, più per un problema di forma che di sostanza, non ci porti da nessuna altra parte che non sia la cameretta, il lavoro, le esperienze della protagonista che, come va molto di moda ultimamente, coincide con l’autrice.
Ripartire dal desiderio, libro edito da Minimum Fax nel 2020 ha molti problemi, soprattutto formali, di vero e proprio editing. In primis il fatto che non sia stato fatto.
Come la stessa Cuter afferma il libro è stato tratto da alcuni suoi efficaci articoli usciti su Il Tascabile, Not etc etc. La recente linea editoriale di Minimum Fax sembra prevedere questo: scegliere alcuni trend su internet e cercare di farci dei soldi. Che di per sé non sarebbe problematico, se ci fosse un lavoro editoriale dietro per il quale l’articolo o la somma di articoli si trasformi effettivamente in un prodotto che possa rientrare sotto l’etichetta di libro.
Non è così per quanto riguarda Ripartire dal Desiderio e infatti il libro si conclude con la dichiarazione da parte dell’autrice di essere “terrorizzata” per l’uscita del saggio.
La critica sembra averle dato torto: fioccano le recensioni entusiastiche, motivo per il quale decido di acquistarlo, priva di pregiudizi. Sbagliavo.
Il libro, che da più parti è stato trattato come un manuale di chiarezza e anticonformismo, è un’accozzaglia di poche idee ma molto confuse. Qualche trovata interessante e spunto c’è, ad esempio il ragionare sul fatto che siamo tesi a censurare le pubblicità cosiddette sessiste in cui la donna è mostrata come un mero pezzo di carne solo quando appunto si tratta di un essere umano di sesso femminile, invece per le pubblicità di intimo e deodoranti in cui l’uomo è trattato allo stesso modo non ci scandalizziamo, forse perché attribuiamo agli uomini una libera scelta, un’agency che alle donne neghiamo. Oppure è interessante, rispetto alle tensioni interne al dibattito attuale, il rovesciamento del ragionamento per il quale, più che battersi per avere pubblicità in cui il sangue sugli assorbenti sia rosso, bisognerebbe battersi per meno pubblicità (e aggiungo, anche se Cuter non lo dice, per ridurre l’IVA dagli assorbenti).
Ce ne sono sicuramente altre, ma in questo momento non mi vengono in mente. Forse proprio per il senso di spaesamento che lascia il libro. In ogni pagina c’è almeno un accostamento totalmente indebito. In ogni pagina c’è un paragone, un “come vediamo in” (aggiungi qualsiasi riferimento midcult che ti venga in mente) ma l’istituzione del legame è totalmente aleatoria e casuale.
In questa fiera della semplificazione tutto conduce a qualcos’altro, ma si finisce per perdere la cognizione di dove si è partiti e di che cosa si vuole dire. Si può agilmente passare nel giro di poche righe dall’11 settembre agli incel, da un frammento di diario di una Cuter adolescente, condito con un po’ di blanda psicologia, a una qualsiasi serie tv.
Citazioni cinematografiche estrapolate dal loro contesto diventano impropriamente pezzi di sillogismi, prove di una tesi che Cuter ha già deciso a priori e che forse più che una tesi è semplicemente un’intuizione che nel migliore dei casi è buona, nel peggiore è confusa.
Il libro in questo senso non può che apparire come una forma deteriore di cattiva sociologia: si salvano solo le recensioni delle serie tv che abbondano all’interno del libro. Non è un caso che il campo di ricerca di Cuter sia principalmente questo.
Questa mancanza di chiarezza, questa abbondanza di riferimenti depistanti da una parte fa il gioco di chi delle questioni di genere capisce poco o nulla e di chi le snobba (che comunque probabilmente non comprerà il libro) dall’altra sembra confondere le idee anche a una parte consistente della sinistra che per quanto riguarda la pratica ha ancora molto da imparare. Vedi la recensione di Francesca Gabriellini e Fabio Mengali uscita su Globalproject (Lust for Life – Considerazioni attorno a “Ripartire dal desiderio”) che da questo libro si porta a casa il fatto che ripartire dal desiderio voglia dire ripartire dal desiderio di comunismo.
Cuter banalizza ogni questione con modi di dire e proverbi, assume un costante tono colloquiale che male si accorda con la portata dei problemi che mobilita. Un esempio lo vediamo quando, ancora una volta in modo totalmente non richiesto, si chiede se sia nato prima il capitalismo o il patriarcato equiparandolo al “chiedersi se sia nato prima l’uovo o la gallina”. Ma non c’è tempo di soffermarsi su nessuna questione, bisogna passare subito in rassegna i gruppi pro Ana o il film Titanic. Scomodando Lacan e Pasolini di tanto in tanto, perché è davvero impossibile esimersi. Ma non c’è traccia di Gisela Bock o del fondamentale Il contratto sessuale di Carole Pateman che avrebbero, se non dissipato certe questioni, almeno chiarito alcuni fraintendimenti.
Tuttavia su questo tema l’autrice è netta: non vuole fornire risposte, non vuole insegnare nulla a nessuno, ma solo sollevare dubbi, gli stessi con cui lei sembra confrontarsi. Sarebbe già molto.
Non entro nel merito delle numerosissime questioni sollevate e lasciate cadere, ma vorrei soffermarmi sul tema dell’essenzialismo che Cuter identifica come il principale nemico a cui imputa la deleteria femminilizzazione della società di cui il Capitalismo sarebbe interprete. Nello stesso momento in cui l’autrice nega l’essenzialismo, in realtà sembra ipostatizzarlo: la femminilizzazione, infatti, per Cuter equivale a narcisismo, spettacolo, attenzione per l’aspetto fisico e poco altro.
Tuttavia si tratta di un «(…) narcisismo di massa che riguarda tutti i soggetti indipendentemente dal loro genere. Se questo comporta una serie di passi indietro e di perdita di potere per gli uomini, per le donne invece anche la possibilità di pensarsi come individui invece che come genere. Non vorrei sembrare troppo messianica, ma è possibile che questo processo fosse necessario per l’emancipazione delle donne. Era la loro chance, paradossalmente o forse dialetticamente per farsi neutre come uomini, di accedere al genio».
Quindi il genio è neutro e maschile, e il morbo che affligge la società attuale è la femminilizzazione, platealmente esemplificata dal fatto che Harvey Weinstein non stupri più le sue attrici ma si limiti, nello sconcerto generale, a implorare innocenti massaggi. Il dramma è, quindi, che la società attuale non aspiri più al genio maschile e neutro ma che abbia imparato da ciò che era normalmente attribuito alle donne, ovvero le famigerate soft skills.
L’essenzialismo, il fatto che il genere in cui si nasce rappresenti una missione e un destino, è la forma paradigmatica di quel dover essere (introdotto nel libro attraverso un’immancabile citazione di Shining in apertura) contro cui anche Cuter si erige a paladina ed è un tema che attraversa la storia del femminismo dai suoi albori. La querelle des sexes inizia in realtà molto prima del femminismo. Si discusse infatti per secoli, spesso in forma di lamento e di accusa, su cosa fossero, come fossero e come dovessero essere gli uomini e le donne. La querelle tutt’ora non è giunta al termine e sono convinta che sia impossibile liquidarla e necessario mantenerla aperta, accettandone parzialmente l’insita paradossalità.
Come scrive Gisela Bock in Le donne nella storia europea:
«Il rapporto fra una radicalissima e spesso interiorizzata consapevolezza dell’inferiorità del sesso femminile, che superava la pura e semplice discriminazione, e la consapevolezza della forza, della dignità e della energia innovatrice proprie di questo sesso rimase una contraddizione- storicamente inevitabile- articolata in molte forme diverse e con acume sempre maggiore. Nei primi Settanta questa contraddizione venne espressa da una disputa che può venir vista come un preannuncio dei conflitti che sarebbero seguiti sul tema della soggettivizzazione e dell’identità. Una femminista, tutta contenta di non dover essere solo una donna affermò “Perché mai una dovrebbe essere femminista, se le piace essere una donna?” E la sua interlocutrice, anch’essa femminista, ribatté: “Ma come è possibile che una sia femminista se non le piace essere una donna?” Vien fatto di pensare che allora le cose stiano come riteneva Rousseau (e come negavano Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft): una donna è sempre una donna, mentre un uomo è uomo solo a volte. Alla fin fine il problema non era se si volesse o meno essere una donna, bensì cosa significasse essere donna». (pp. 404-405).
Ma vediamo come ne esce brillantemente Elisa Cuter: “Ho sempre preferito, istintivamente, sentirmi una troia piuttosto che una femmina”( pp. 52-53).
Grazie.
Il libro non è un saggio teorico, non è un manuale di autoaiuto, non è un blog, non è evidentemente letteratura. A volte si ha la sensazione che sia il modo scelto dall’autrice per saldare i conti con il suo passato, con la sua famiglia, con il suo percorso di crescita, ma è un esercizio totalmente non richiesto. L’elenco delle cose che l’hanno eccitata, dalla sua compagnetta delle medie che metteva le foto intime online, ai suoi disegnetti con le tette grosse e i tacchi, all’eccitazione per le donne che twerkavano durante le proteste del Black Lives Matter vanno a formare un calderone vischioso in cui è difficile districarsi. La domanda sorge spontanea: ne avevamo davvero bisogno?
La mia risposta è no.
Che l’autrice-protagonista abbia fatto una scenata ad un amico che le aveva palpato il culo sulle scale prima di una festa, ma che in un secondo momento sia arrivata alla conclusione che in realtà era arrabbiata con un altro ragazzo che l’aveva rifiutata poche ore prima non aggiunge nulla al libro: è il racconto di una vicenda che non significa realmente niente se non per chi l’ha vissuta, ovvero l’unica persona che può attribuirvi un significato ulteriore.
In questo miscuglio di qualunque cosa, cultura alta, cultura bassa, critica cinematografica, questioni di genere, arte, sociologia, dichiarazioni di intenti, autocoscienza, Cuter senza tanti fronzoli ammette di essere più dalla parte della donna che si vende e sfrutta il suo corpo e si oggettifica (nella quale vede un potere che ammira. Ma da cosa deriva questo potere? Approvazione sociale? Autodeterminazione? Denaro? Spirito Imprenditoriale? Cinismo? Risposta ad un proprio desiderio non eteroimposto?) che nella «vittima stile me too», qualunque cosa significhi.
Come se non ci fosse, ancora una volta, nessuna distinzione tra la puttana e la santa, tra, come afferma Cuter nell’introduzione del libro, le due nuove facce di questa dicotomia: Ambra Angiolini e Margaret Thatcher.
Come se non fosse lo stesso sistema capitalistico e patriarcale ad averci indicato quali erano le alternative tra le quali potevamo scegliere e la sfida non stesse proprio nell’inventarne di ulteriori.
Il problema al cuore del libro sta proprio in questo porre tali false alternative in cui il grigio non esiste per spostare il piano del discorso, semplificando la realtà e uccidendo le sfumature, svicolando da una scelta politicamente pregnante. Cuter identifica il politico con l’erotico, ma non ce lo spiega, confonde i piani e resta impelagata nella difficoltà della tematica che la sovrasta.
Non perché non sia in grado di sostenerla ma per il semplice fatto che non si può tenere tutto insieme. Il libro è una somma di tanti articoli a cui si è voluta dare una cornice che non regge il peso di tutto quello che si è voluto metterci dentro. E si finisce il libro senza sapere cosa intende l’autrice con questo bel titolo estetizzante che resta poco più che una vuota lettera.
1 thought on “Recensioni oneste. Perché Ripartire dal Desiderio non dovrebbe essere un libro”
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