di Michele Garbin
In vista della Giornata della Liberazione, la sezione Anpi “Btg. Romeo” di Recoaro Terme, l’Associazione Catai e Potere al Popolo Padova, organizzano per lunedì 24 aprile l’evento “Scarpe Rotte… eppur bisogna andar”, una visita guidata lungo il Sentiero del Partigiano e della Resistenza di Recoaro Terme; un percorso che riunisce idealmente due realtà tanto diverse: un comune di pianura e uno di montagna, una città d’arte sede di una delle Università più prestigiose d’Italia e una piccola realtà che deve la sua fortuna alle acque termali presenti sul suo territorio. Nonostante questi due mondi sembrino così differenti, le due città sono legate indissolubilmente da una storia comune, una storia fatta di lotte e sacrifici in nome di una “società” – per usare le parole di Italo Calvino – “pacifica e democratica, ragionevolmente giusta”: la storia della Resistenza partigiana.
Era l’11 gennaio 1944 quando, per volontà di una Commissione di zona delle brigate d’assalto Garibaldi, una ventina di uomini si riunirono presso l’Albergo Spitz di Recoaro Terme per formare una cellula resistenziale, la seconda nel vicentino dopo il tragico epilogo del gruppo di Fontanelle di Conco, decimato dal violento conflitto interno tra la componente cattolico-badogliana che represse nel sangue quella comunista e definitivamente distrutto da un rastrellamento nazifascista nel gennaio del 1944. Quell’11 gennaio, tra le mura dell’albergo abbandonato ormai da anni e tra i monti di uno dei luoghi più significativi della resistenza vicentina, iniziò la storia di quella che divenne la XXX Brigata “Ateo Garemi”, operante in tutto il vicentino, in parte del padovano, del veronese e del trentino.
La prima fase: Raimondo Zanella “Giani” e Romeo Zanella “Germano”
La nascita e lo sviluppo di questa cellula resistenziale conobbe da subito grandi difficoltà: clima avverso, scarsità di armamenti e presenza di una fitta rete di spionaggio fascista. Nonostante le condizioni avverse il gruppo riuscì a stabilirsi nella zona grazie all’appoggio della popolazione locale, alla conoscenza dei luoghi da parte dei partigiani del posto, alla costruzione di una linea di approvvigionamento gestita dal commerciante di legname locale Giuseppe D’Ambros “Marco” e alle capacità organizzative della componente padovana del gruppo. In particolare, nella prima fase, un ruolo centrale lo ebbero i cadoneghesi Raimondo Zanella “Giani” e il cugino Romeo “Germano”. Grazie all’esperienza maturata dai due nel Friuli Orientale – dove combatterono con i garibaldini nel comune di Faedis, in provincia di Udine – il “battesimo di fuoco” del gruppo partigiano si risolse con una vittoria il 18 febbraio del 1944, quando il gruppo partigiano dopo due giorni di combattimento riuscì a sganciarsi senza subire perdite. L’eco di questa vittoria, sommato al “Bando Graziani” che chiamava alle armi le classi 1923, 1924 e il primo quadrimestre del 1925, permise al distaccamento di ricostituirsi più forte e numeroso di prima.
Sotto la guida dei due partigiani di Cadoneghe – nel frattempo nominati Comandante (“Giani”) e Commissario politico (“Germano”) da Antonio Bietolini, Ispettore delle Garibaldi del Veneto – il gruppo partigiano, ora distaccamento “Fratelli Bandiera”, adottò la strategia della “guerriglia di movimento”. La principale caratteristica di questa strategia era la costituzione di pattuglie formate da un numero di uomini che andavano dai 6 ai 10, autosufficienti per un certo numero di giorni. I compiti principali delle pattuglie erano la propaganda tra la popolazione e le azioni contro i nazifascisti che si concretizzavano con l’attacco agli automezzi, il sequestro dei registri agli ispettori dell’ammasso, delle cartoline precetto ai portalettere e degli esponenti fascisti particolarmente invisi alla popolazione, la distruzione di manifesti e dei simboli del regime. Già verso marzo la riorganizzazione del distaccamento in pattuglie era in stato avanzato, tanto che, secondo la ricostruzione degli storici Giorgio Fin e Giancarlo Zorzanello, le pattuglie erano otto guidate da altrettanti capipattuglia, tra i quali spiccano tre padovani: Clemente Lampioni “Pino”, Luigi Pierobon “Dante” e Rino De Momi “Ciccio”.
La seconda fase: Rino De Momi “Ciccio”, Clemente Lampioni “Pino” e Luigi Pierobon “Dante”
Un nuovo punto di svolta per la Resistenza alto vicentina ci fu a fine marzo del 1944 quando un rastrellamento scompaginò il distaccamento: mentre le pattuglie di “Ciccio” e “Dante” si riunirono nella valle del Chiampo sotto la guida di Giuseppe Marozin “Vero” – figura controversa della Resistenza che nell’agosto venne condannata a morte dal CLN vicentino per gli atteggiamenti lesivi nei confronti della popolazione -, “Giani” e “Germano”, persi i contatti con i membri del distaccamento, ritornarono a Cadoneghe. A questo punto la ricostituzione del “Fratelli Bandiera” venne affidata a Clemente Lampioni “Pino” e a “Marco”.
Lampioni, originario di Legnaro, nel 1937, a causa di difficoltà economiche, si vide costretto ad aderire alla banda Bedin, un gruppo di fuorilegge guidati da Giuseppe Bedin che operava nel mercato nero e si occupava di rapine in banca. Ben presto la banda divenne popolare, riservando parte del suo bottino ai bisognosi. Le gesta del gruppo spinsero Mussolini in persona a ordinare la sua eliminazione con qualunque mezzo e nel 1938 la banda fu sgominata e Bedin ucciso in uno scontro a fuoco. Arrestato nel 1939 e processato, Lampioni fu tradotto nel carcere di Ancona dove rimase fino al 1943 quando, a causa di un bombardamento che colpì il carcere, riuscì ad evadere. Tornato a Padova il legnarese entrò in contatto con i comunisti locali e prese la via della montagna col nome di battaglia “Pino”, unendosi al gruppo partigiano di stanza all’albergo Spitz. Proprio per il suo passato Lampioni era considerato un sorvegliato speciale dalla dirigenza comunista, ma ben presto, grazie alle sue abilità e alla reputazione che godeva tra i compagni, gli vennero affidati ruoli di responsabilità all’interno del distaccamento.
In seguito al rastrellamento Luigi Pierobon, che ormai aveva perso il controllo sui suoi uomini, si riunì a “Pino”, mentre Rino De Momi rimase nella valle del Chiampo fedele a Marozin. Nato a Cittadella in una famiglia dalla forte tradizione cattolica, Pierobon si diplomò al Liceo Ginnasio “Tito Livio” di Padova per poi iscriversi alla facoltà di lettere dell’Università patavina. Fervente patriota decide di prendere parte alla Resistenza e dopo la vittoria di Malga Campetto si unì al distaccamento “Fratelli Bandiera”. Riunitosi al riorganizzato distaccamento nell’aprile, “Dante” ne prese il comando a fianco a “Pino”. Per le dimensioni raggiunte, il “Fratelli Bandiera” guidato dai due riuscì a coprire con le sue pattuglie tutta l’area dell’alto vicentino, della bassa veronese e del sud del trentino. Il 17 maggio del 1944, con la fondazione a Malga Campodavanti della XXX Brigata “Ateo Garemi”, il gruppo partigiano guidato dai due padovani divenne un battaglione col nome di “Stella”, in onore di un loro compagno caduto in un’imboscata fascista. “Dante” e “Pino” si distinsero per le loro capacità di comando riuscendo a guidare una delle formazioni più importanti della Resistenza vicentina in azioni eclatanti, come il disarmo del Sottosegretariato della Marina da Guerra della Repubblica Sociale Italiana di stanza a Montecchio Maggiore. La collaborazione e la grande amicizia nata fra i due finì tragicamente il 17 agosto 1944 quando, dislocati nella zona del Basso Vicentino e della Bassa Padovana, furono arrestati a Padova: il primo in Arcella mentre riposa dalla famiglia, il secondo tradito da una spia mentre organizza un attacco a Lerino. Entrambi vennero impiccati quel giorno: Clemente Lampioni in via Santa Lucia, Luigi Pierobon nella caserma che ora porta il suo nome in via Chiesanuova. Rino De Momi, catturato mentre tentava di fare ritorno a Padova dopo la fuga di Marozin a Milano, venne fucilato per rappresaglia il 1°dicembre 1944 a Priabona di Monte di Malo (VI). Solo “Giani” e “Germano” sopravvissero alla guerra.
Era il 26 gennaio 1955 quando Piero Calamandrei, membro dell’Assemblea Costituente, durante il suo famoso discorso in un salone degli Affreschi della Società Umanitaria gremito di studenti milanesi pronunciò le famose parole: «Dietro ogni articolo di questa Costituzione dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché libertà e giustizia potessero essere scritte su questa carta. Quindi […] no, non è una carta morta, è un testamento, è un testamento di centomila morti. Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati». Rileggere le biografie di quei giovani caduti, andare in pellegrinaggio nei luoghi dov’è nata la nostra Costituzione non è mero storicismo o turismo culturale. In particolare oggi ripercorrere quelle vite e quei sentieri è un’operazione di memoria attiva, significa riscoprire quei principi e comprendere quel senso di altruismo che hanno spinto tanti giovani a sacrificare la propria vita per chi c’era allora e per chi ancora non c’era; un’operazione che ci porta a guardare al passato per agire nel presente e cambiare il futuro. Le storie di “Giani”, “Germano”, “Pino”, “Dante”, “Ciccio” e degli altri combattenti partigiani non servono solo a ricordarci il debito di libertà che abbiamo coi morti della Resistenza, ma ci insegna anche che il cammino di libertà, democrazia e giustizia sociale che loro hanno tracciato sulla Carta deve ancora essere battuto; che il futuro non è un amaro destino già scritto, ma il risultato dell’azione di ognuno di noi che in nome di un principio si organizza in una comunità in movimento.