di Tancredi Castelli
È probabile che quest’articolo sia nato dalla lettura del libro di Jonathan Safran Foer, ma alla fine non è stato altro che un pretesto.
Possiamo salvare il Mondo Prima di Cena non è un saggio, né un consiglio e nemmeno un romanzo. Non saprei dire quale tra questi elementi abbia la priorità in queste pagine, ma certa è la premessa che ne sta all’origine: siamo «senza speranza» di fronte alla crisi climatica. Non è facile categorizzare un testo del genere; da un lato, sembra una confessione personale dell’autore che dichiara la propria imperfezione davanti alla responsabilità travolgente di non lasciare le cose come stanno, dall’altro, si configura come un disperato tentativo di fornire una risposta concreta e immediata alla catastrofe ambientale: «niente prodotti di origine animale prima di cena». Questa non è un’affermazione campata in aria, ma una necessità materiale dettata dall’evidenza, che tutti noi conosciamo, ma a cui pochi credono. La Fao – Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – afferma che il 14.5% delle emissioni di gas serra dipende dal settore zootecnico, ma Foer è più propenso ad accogliere una valutazione molto più alta, il 51% – Worldwatch Institute – e di tutte le implicazioni che ciò comporta non ne tace nessuna. Insomma, la cifra distintiva del libro è lo sconforto.
Le informazioni raccolte, l’atteggiamento così umano dell’autore e questo obiettivo fortemente pratico rendono la lettura qualcosa di unico. Potrei quindi fermarmi qui, eppure mi dispiace non aver provato, oltre allo sconforto, alcun tipo di speranza. È come se qualcosa mancasse, come se si arrivasse sempre al cuore della questione, ma si distogliesse lo sguardo, ogni volta. Penso sia la stessa frustrazione provata da Foer al termine della proiezione di Una scomoda verità, film-documentario prodotto da Al Gore e guardato con grande entusiasmo dall’autore di Possiamo salvare il mondo prima di cena.
Scomode verità
Un entusiasmo che, tuttavia, si è dissolto immediatamente una volta arrivato ai titoli di coda, come anticipato. Qui l’ex vicepresidente americano si rivolge direttamente al pubblico in sala e, appellandosi alla responsabilità dei singoli spettatori, lascia loro una lista di raccomandazioni per salvare l’ambiente, «frustrante nella sua vaghezza»: piantare alberi, andare in bicicletta, passare a fonti di energia rinnovabile, chiamare le radio, scrivere ai giornali, candidarsi al parlamento, pregare affinché le persone possano cambiare… Foer è sbalordito dalla sterilità di queste proposte; eppure, a distanza di più di quindici anni, chi si occupa di sostenibilità spesso dà consigli simili, perché simili sono i presupposti. Ai vecchi slogan se ne aggiungono di nuovi e di maggior impatto, come quelli che riporta Carlotta Perego, ideatrice di Cucina Botanica:
«Oggi parliamo di quelle cose che possiamo fare fin da oggi per essere più sostenibili: usare la borraccia […]; compare usato o scambiare cose […]; comprare sfuso il più possibile […]; riutilizzare qualsiasi cosa possibile […]; bere l’acqua del lavandino […]; usare scottex e fazzoletti bianchi che possono andare nell’umido […]; usare borse riutilizzabili quando andiamo a far la spesa; compare solo quello che serve […]; usare la coppetta mestruale […]; fare la differenziata […]; diventare più vegani possibile […]; evitare per quanto possibile prodotti importati […]; prendere meno l’aereo […]; usare shampoo e saponi solidi […]; fare andare elettrodomestici solo quando sono pieni […]»
Si tratta di buone abitudini per vivere in maniera responsabile ed etica, una nuova esigenza che ha dato origine in tutto il mondo, Italia compresa, a diverse realtà che propongono alternative etiche alla solita merce da supermercato. È il tentativo di passaggio dalla logica del consumo-spreco a quella del consumo etico, consapevole. Cucina Botanica, lo dice apertamente, «è una cosa bella far vedere che noi consumatori apprezziamo, scegliendo di spendere i nostri soldi per alternative più ecologiche». E così la pensano anche altri, come Cristina Coto, divulgatrice di tematiche ambientali o green influencer: «Dobbiamo imparare ad essere consumatori rognosi, meticolosi, invadenti, insistenti. C’è a chi viene facile esserlo, chi fa più fatica, ma è davvero solo questione di abitudine!». La proposta di Al Gore era figlia del suo tempo, suona inattuale, “vecchia” e al limite dell’ipocrisia, ed è pazzesco che ancora oggi la sostenibilità venga trattata allo stesso modo, come una questione esclusivamente individuale che trova risposta nel consumo.
Il peggio arriva quando la morale si fa consumo e la possibilità di cambiare il mondo diventa una faccenda di intelligenza e di stupidità. Ce lo dice, Simone Molteni, direttore scientifico di Lifegate, a TEDx:
«Per renderla più facile, se la volete mettere su un grafico, […] la legge di Molteni dice questo: più siamo intelligenti, quindi più vi spostate in orizzontale con il vostro quoziente di intelligenza che va a crescere, più persone possono stare sul pianeta, possono riuscire a vivere sul pianeta. Quindi all’estremo destro, la stima è che se avessimo […] una popolazione costituita sola da dei super sapiens potremmo starci forse anche in 500 miliardi o forse anche di più […] man mano che andate indietro sull’asse orizzontale, questo numero potenziale scende fino ad arrivare, forse, anche a zero, dipende […] dalla percentuale di deficens e di [super] sapiens».
Possiamo Salvare il mondo prima di Cena?
Cambiare abitudini, trovare alternative, provare a fare qualcosa nel nostro piccolo è un’esigenza sempre più importante; è impossibile negare il valore delle azioni quotidiane, senza le quali non ci sarebbe alcuna possibilità di cambiamento. La nostra responsabilità esiste ed è innegabile, ma allo stesso tempo non è qualcosa di esclusivamente nostro. Sia Foer sia Al Gore guardano alla responsabilità come una questione volontaria e personale, come se noi tutti vivessimo fuori dal mondo. Se non vengono riconosciute le mediazioni che il mondo ha sulla quotidianità, alla fine non ci si accorge nemmeno che il mondo esiste, quando in realtà la nostra vita viene costantemente regolata da logiche che stanno al di fuori di noi e che, in fin dei conti, digeriamo senza troppo volerlo. Questo significa accettare il consumo quale unico spazio d’azione rimasto o concessoci, significa rendere misera la responsabilità e rovesciarne il senso che almeno noi le diamo, abitare attivamente il mondo.
È un libro troppo personale da giudicare ed è evidente la genuinità dell’obiettivo che Foer si è posto: dare un consiglio immediato e facile da mettere in pratica per cambiare le cose. Tuttavia, le armi che ha scelto di imbracciare, quelle del buon consumatore, sono le stesse che il mondo ci mette a disposizione ogni giorno e proprio per questo non sembrano davvero pericolose. Per salvarlo dobbiamo assumerci davvero le nostre responsabilità, non solo consumando, ma immaginando qualcosa di diverso. Se il sistema in cui viviamo è caratterizzato dallo sfruttamento materiale, umano ed ecologico, anche se fosse un po’ più verde, continuerebbe a lavorare allo stesso modo: la questione è cambiare i rapporti che producono noi e il mondo. Se la nostra sola speranza è quella di poter controllare il mercato attraverso la domanda, non stiamo cambiando niente, stiamo accettando le cose così come stanno.
Responsabilità individuale
Oggi, associare la responsabilità agli individui è normalissimo, perché condividiamo la stessa visione delle cose: un mondo semplice in cui tutto dipende da noi. Concetti come individualismo o narcisismo sono categorie generalmente diffuse per interpretare il reale e, benché siano spesso ridotte a semplici atteggiamenti, si tratta di elementi sistemici, tasselli di un’ideologia. Stiamo parlando ancora una volta della mitologia meritocratica. È l’era dell’uno su mille – magari – ce la fa, ma siamo spinti a credere che quella misera percentuale di successo dipenda solo dal nostro sbatterci, così come impariamo a vedere nello specchio l’unico nemico di noi stessi, il solo colpevole dei nostri fallimenti. Da un lato, allora sta la lotta di tutti contro tutti in cerca della vetta, dall’altra la responsabilizzazione dei singoli da parte del sistema e dei singoli stessi che oramai hanno inghiottito il boccone. Se il sistema è perfetto perché permette a tutti di gareggiare, per esclusione, le variabili sono le persone.
È un “tic” condiviso dall’etica della sostenibilità che in tal modo si presenta sempre come una questione privata: spetta a noi salvare il mondo alla maniera dei supereroi. Dobbiamo stare attenti a quello che consumiamo, a quello che sprechiamo, a quello che ricicliamo, senza mai alzare la voce contro chi ha la colpa e il dovere di cambiare questa situazione. Possiamo e soprattutto dobbiamo cambiare abitudini e fare la cosa giusta; ma consumare bene è davvero la cosa giusta da fare, quando il governo inventa nuove leggi per criminalizzare gli attivisti? Quando in Veneto per far fronte alla siccità ci si affida a preghiere e reliquie sante? Quando la colonizzazione di Marte sembra più probabile della riduzione delle emissioni?
I singoli sono lasciati soli con le loro paure e difficoltà, mentre anche l’ultimo argine istituzionale sembra ritirarsi e rinunciare a qualsiasi forma di responsabilità verso i cittadini, lasciando mano libera al mercato. Spetta a noi sostenere questo sistema? In un mondo in cui il concetto di limite è stato sostituito da quello di sostenibilità, in cui lo sviluppo è fiduciosamente illimitato e le risorse tragicamente limitate, la responsabilità di sorreggere questo sistema è scaricata su tutti noi, individui soli e privi, non solo dei mezzi per assumere un’agenzia di comunicazione che ci tinga di verde, ma spesso della reale possibilità di vivere una vita etica. Se non impariamo a prendere in mano la nostra reale responsabilità oggi – in un mondo diviso tra chi può permettersi la coscienza pulita e chi non può – forse domani non ci sarà più niente per cui lottare.