di Livia Pinzoni
Il Mose, dopo aver fatto tanto parlare di sé (ne abbiamo scritto anche noi in un altro articolo), sembra essere caduto nel dimenticatoio, come succede spesso alle grandi opere controverse che poi, alla fine, funzionano. Dopo la sua prima attivazione, nell’ottobre 2020, le paratie mobili del Mose sono state sollevate 84 volte, separando Venezia e la sua laguna dal mare fino a due settimane consecutive (tra ottobre e novembre 2023). Di tutte le peggiori acque alte che hanno colpito Venezia negli ultimi 100 anni più della metà sono state registrate dopo il 2009, con una tendenza in costante peggioramento che ha portato anche gli scettici a riconoscere che i benefici garantiti dal Mose superano i costi legati alla sua costruzione, attivazione e manutenzione. Ma se da un lato è vero che il Mose sta salvando Venezia dall’acqua, dall’altro rischia di cancellare definitivamente l’ecosistema lagunare che la circonda, con la sua concentrazione unica di biodiversità. Che cosa sappiamo oggi degli effetti del Mose sulla laguna, e che cosa dobbiamo aspettarci per il futuro? Ne abbiamo parlato con Alberto Barausse, ingegnere ambientale dell’università di Padova, che ha partecipato al progetto Venezia2021 (programma di ricerca che aveva l’obiettivo di valutare le ricadute, ambientali, sociali ed economiche del Mose) e che da anni si occupa di monitorare gli impatti delle attività umane sull’ecosistema lagunare.
1. Una delle maggiori preoccupazioni riguardo al Mose, oltre a quelle ovvie di natura economica, era l’impatto che questo avrebbe avuto sull’ecosistema della laguna. Potresti iniziare spiegandoci il motivo di queste preoccupazioni e quali rischi comporta la chiusura della laguna, specialmente per periodi prolungati?
La premessa da fare è che quest’opera è particolare perché è stata fatta senza avere un’idea chiara dell’impatto che avrebbe potuto avere sull’ambiente. Questi effetti sono stati studiati e monitorati a posteriori, ad esempio col progetto Venezia2021, finanziato proprio per capire come funziona la laguna regolata. L’impatto principale che era stato ipotizzato riguarda proprio la morfologia lagunare: quando alzi il Mose e quindi chiudi la laguna hai una ridotta sedimentazione sulle barene (le “paludi salate” della laguna, terreni di forma tabulare che vengono periodicamente sommerse dalle maree e ospitano una grandissima varietà di specie animali e vegetali), che già senza il Mose erano degli habitat estremamente a rischio, basta guardare le mappe di come è cambiata la laguna negli ultimi 100-200 anni. Le barene sono ambienti che stanno proprio sparendo, per un deficit di sedimenti in laguna causato principalmente dalle attività umane, tra cui il moto ondoso provocato dall’idrodinamica accelerata dallo scavo del canale dei petroli e dalle imbarcazioni a motore. A questo si aggiunge il problema dell’innalzamento del livello del mare. Le barene in realtà sarebbero in grado di crescere come cresce il mare, quindi all’incirca un paio di millimetri all’anno, il problema è che la maggior parte della sedimentazione, che è il processo che porta alla crescita delle barene, avviene proprio durante le alte maree. Chiudere la laguna per impedire a queste maree di entrare significa essenzialmente condannare le barene ad “annegare” sotto queste pressioni combinate.
2. Che cosa comporta la perdita di un ambiente come quello delle barene, per la laguna e per noi?
Le barene sono l’habitat terrestre che sequestra più carbonio per unità di superficie, e le barene veneziane ne sequestrano molto di più di altre nel mondo; quindi, parliamo proprio di habitat con una capacità di sequestro eccezionale, di molto superiore a quella delle foreste. In realtà per me il più grosso problema per la laguna di Venezia non è tanto che perdendo le barene si perda la loro capacità di sequestrare il carbonio, quanto proprio il fatto che, quando vengono erose, una parte di quel carbonio tornerà in circolo, e in che misura e con quali conseguenze è tutto ancora da capire. In più c’è uno studio che ha mostrato come il moto ondoso nella laguna di Venezia anni fa, quando c’erano molte più barene, fosse molto minore, perché le barene, anche formando un continuo con i fondali più bassi, smorzano il moto ondoso facendo attrito sull’acqua riducendo anche la lunghezza su cui il vento può soffiare e trasmettere energia al corpo idrico. Quindi se continuiamo in questa direzione dobbiamo aspettarci un moto ondoso sempre più importante con conseguenti difficoltà di navigazione e danni alle rive e agli edifici veneziani.
Infine, ricordiamoci che le barene sono habitat protetti dalla direttiva europea Natura 2000, fitodepurano le acque reflue, e, una cosa che tutti si dimenticano, sono il paesaggio tradizionale naturale della laguna di Venezia. Quindi se perdiamo le barene perdiamo un elemento del paesaggio che è tutelato dall’UNESCO, perché il sito patrimonio dell’umanità non è Venezia, ma Venezia e la sua laguna.
3. E a che punto siamo oggi? Che cosa sappiamo dell’impatto del Mose sulla laguna, e che cosa invece dobbiamo ancora capire?
Per la questione dell’impatto sulla morfologia lagunare e quindi sulle barene non ci sono dubbi: è stato dimostrato che la chiusura della laguna durante le alte maree riduce, e di parecchio, la sedimentazione sulle barene. I numeri sono abbastanza impressionanti: le maree più alte (quelle definite “eccezionali”, che costituiscono una minima parte dei normali cicli mareali) portano il 70% del sedimento che contribuisce al mantenimento e alla crescita di questi ambienti. Quindi sta già succedendo: impedendo le maree più alte si elimina più della metà della sedimentazione dentro alla laguna. Ma non è finita qui: si è visto anche che tenendo chiuso il Mose si interrano alcuni canali, soprattutto minori (i “ghebi”), quindi quel sedimento va da altre parti e va a ridurre ancora di più l’eterogeneità dei fondali lagunari che già vengono spianati dall’erosione, e questo problema di diversità morfologica naturalmente si traduce in un problema di biodiversità.
Un altro grosso problema è quello legato alla qualità dell’acqua: Venezia ha gli scarichi fognari che vanno in laguna, che viene diciamo “lavata” due volte al giorno dallo scambio d’acqua attraverso le bocche di porto col mare a causa dei cicli mareali giornalieri. Se però si chiude la laguna tutto quello che viene scaricato da Venezia resta all’interno, con presumibili crisi future ipossiche e anossiche, quindi scarsità o mancanza di ossigeno, i cui effetti sanitari ed ecologici sono tutti ancora da esplorare. Finora il Mose non è ancora stato chiuso per tanti giorni di seguito, un paio di settimane al massimo, e le stazioni Samanet del provveditorato (una rete di stazioni di monitoraggio automatico dei parametri chimico – fisici delle acque lagunari) hanno registrato diminuzioni di ossigeno non troppo severe. Il problema è che queste stazioni sono lungo i principali canali navigabili dove la quantità di acqua è maggiore, bisognerebbe guardare alla laguna più interna, tra le barene, dove ogni notte l’acqua va in ipossia perché sono luoghi biologicamente molto attivi. E a questo non sta guardando nessuno, noi stiamo provando a farlo ma ci vorrà del tempo per rielaborare quei dati.
Inoltre, tutte le previsioni ci dicono che andando avanti il Mose dovrà essere chiuso sempre più di frequente, e quindi oltre a questi problemi bisognerà tenere conto anche del fatto che verrà interrotta la continuità ecologica tra laguna e mare. Ci sono molte specie che devono spostarsi dal mare alla laguna per riprodursi, e la laguna è un eccezionale ambiente di “nursery”, che ospita, cioè, gli stadi giovanili di queste specie durante la fase di accrescimento, questo costituirà un altro problema enorme per la biodiversità e non solo, pensiamo anche alle attività di pesca lagunare, che spesso sono uno dei pochi esempi rimasti di pesca sostenibile.
4. Insomma ci sono parecchie problematiche che ancora non sono state esplorate, e spesso le tempistiche necessarie per degli studi a livello ecosistemico non sono in grado di far fronte al ritmo con cui i problemi reali si presentano. Al momento che progetti ci sono all’attivo? E possono essere, secondo te, in grado di tappare questi buchi di informazioni in tempi ragionevoli?
Grandi progetti di ricerca attivi al momento sul Mose non ce ne sono. Ci sono tanti gruppi tra Padova, Venezia, CNR, OGS e altri, che lavorano sul Mose, ma non c’è un coordinamento scientifico tra queste realtà, così come non c’è tra gli enti preposti alla gestione della laguna e la comunità scientifica.
Comunque continueranno ad arrivare nuove informazioni, purtroppo con opere così eccezionali che stravolgono l’idrodinamica e la morfologia è difficile dire a priori cosa succederà, lo si può capire solo dopo e adesso stiamo solo iniziando a capire, ci vorranno anni solo per vedere cosa sta succedendo adesso, è inevitabile rimanere indietro. In questo senso è molto utile il confronto con i pescatori. Quando è stato scavato il Mose e sono state installate le paratoie loro subito hanno detto che era cambiata l’idrodinamica, che certi pesci avevano smesso di arrivare in laguna, che erano cambiati giri d’acqua anche distanti dal Mose. Questa conoscenza ecologica locale è certamente imperfetta, ma spesso non sbaglia, e comunque ci arriva prima, queste figure dovremmo vederle un po’ come sentinelle dei cambiamenti ambientali, e instaurarci un dialogo.
Adesso in laguna di Venezia c’è un momento di vuoto anche culturale, nel senso che il Mose con la sua enorme spesa pubblica e il suo apparato comunicativo è stato fatto, e meno male che funziona. Sta di fatto che adesso è un momento in cui la società veneziana riprende fiato, però sono parecchie le voci che dicono che tra 30-40 anni il Mose sarà già vecchio perché il mare si alzerà così tanto che dovrà essere chiuso sempre più spesso e più a lungo, e dovremo ragionare su cosa fare con la qualità dell’acqua intorno a Venezia, e con gli ambienti di barena che perderemo. Quindi per me, e non solo per me, la vera domanda diventerà “possiamo spostare la laguna da qualche altra parte?”. Se il mare crescerà l’entroterra Veneto sarà destinato ad allagarsi, un po’ alla volta dovremo accettare che alcuni territori dovranno andare sotto acqua, e quindi la vera sfida adesso è decidere dove farlo prima, farlo in modo proattivo, non aspettare che succeda, in modo da pianificare al meglio quello che comunque sarà un disastro sociale perché verranno spostate le persone, e anche per ricostruire lì gli habitat che andranno inevitabilmente persi dentro alla laguna.
5. A questo proposito ti vorrei chiedere una riflessione sulla grande contraddizione che ci regala il cambiamento climatico, di cui Venezia è il perfetto esempio, di scegliere se salvaguardare il patrimonio culturale o quello naturale. Quali potrebbero essere in questo senso le soluzioni per trovare un equilibrio tra queste due cose?
Sicuramente come anticipato spostare la laguna e le persone. Il punto purtroppo è che fare il Mose è stato semplice, e probabilmente farà ridere pensando a quanti anni, discussioni, processi, scandali e miliardi di euro di fondi pubblici sono serviti, però alla fine era un problema semplice perché affrontato da una prospettiva meramente tecnica, anzi tecnocratica, forse anche figlia di certi modi di ragionare tipici non solo dell’ingegneria italiana ma anche della storia stessa di Venezia: spostiamo i fiumi, cambiamo la forma della laguna ecc… Ora non si tratta più di capire solo come chiudere la laguna e quindi salvare Venezia, ma di come salvare un ecosistema con tantissime forme di vita e allo stesso tempo anche il patrimonio culturale, la società e l’economia veneziana, un obiettivo estremamente più complesso del Mose. Secondo me la prospettiva giusta per non dover scegliere tra Venezia e la sua laguna, che è quello che è stato fatto finora: si è scelto di salvare Venezia, è rendersi conto che la laguna non è più un ambiente strettamente naturale da tempo, così come è stata modificata dall’uomo in passato va spostata di nuovo, dove peraltro era prima, cercando di riportare la morfologia il più possibile alla sua forma originale. Non è certo una cosa facile da fare, prima di tutto dal punto di vista politico, perché è un ragionamento da fare sulla scala dei decenni, e quindi nessun politico smaliziato investirà su una cosa del genere perché non ha un ritorno, servono delle figure lungimiranti e anche coraggiose.
6. Quindi, secondo te, come si può far dialogare meglio la scienza con la politica e l’economia?
La prima cosa è capire che fa parte della ricerca applicata perlomeno la trasmissione della conoscenza, quella che nel gergo tecnico delle nostre università si chiama terza missione, che già non mi piace come nome perché sembra suggerire una gerarchia. In Italia siamo molto bravi a fare sofisticate analisi teoriche, la vera sfida è passare al fare, ed è molto sottile il confine tra analisi teorica e ingenuità. Quindi sicuramente sforzarsi di andare a parlare con i decisori, che non vuol dire solo la classe politica ma anche i tecnici perché spesso quando si ha a che fare con la complessità, e succederà sempre di più, le istituzioni italiane non sono attrezzate per farlo. Ti porto come esempio la gestione dei canali di Padova: abbiamo il genio civile che si occupa solo di acqua, ARPAV solo di qualità, il comune che non ha grandi competenze tecniche, la sovrintendenza che vede solo le mura e i monumenti e quando si tratta di mettere queste cose insieme gli enti non hanno la formazione e nemmeno il tempo per farlo perché siamo in un momento in cui la macchina pubblica in Italia viene sempre più smantellata. La ricerca in questo senso è importantissima perché può permettersi di sperimentare, può permettersi di sbagliare. Se io come ricercatore dico una sciocchezza nessuno va sotto acqua, mentre se lo fa il genio civile sì. Quindi questo deve essere il ruolo della ricerca e il passo deve nascere dalla ricerca, al momento purtroppo mancano la formazione e gli strumenti comunicativi adeguati. Quando è la politica ad andare dalla scienza di solito vuol dire che è già troppo tardi.