di Filippo Grendene
L’Arcella a Padova non è un quartiere come gli altri. È il più grande, ha goduto di una brutta nomea ormai evaporata, ci nascono un sacco di bimbi. Chi vince le elezioni all’Arcella, si dice, prende la città. Le case costa(va)no poco, dunque nel quartiere si concentrano gli immigrati, vengano dal resto d’Italia o da fuori paese; probabilmente per questo negli ultimi anni è quartiere vivo e interessante.
All’Arcella ci sono un sacco, ma veramente un sacco, di chiese, ciascuna col suo più o meno grande (solitamente enorme) oratorio con annessi e connessi. Di conseguenza ci sono tantissime sagre. C’è invece una carenza di strutture pubbliche: fino a pochi anni fa oltre alle scuole, spesso strettine, alla piccola biblioteca di via Dupré, alla casetta del parco Piacentino e a davvero poco altro non esistevano spazi comunali, tanto che anche gli uffici, ad esempio l’anagrafe, erano in via Curzola, in affitto dalla parrocchia. Lo sbilanciamento fra pubblico ed ecclesiastico parla di una progettazione e d’una idea di città. Da un anno e mezzo, però, ha aperto la Casa di Quartiere nelle strutture pubbliche (ultimo utilizzo del liceo Marchesi) che fin dal 1923 affacciano su Viale Arcella.
La Casa di Quartiere
La scorsa e la presente amministrazione hanno puntato sul progetto delle Case di Quartiere: luoghi dove l’associazionismo e il terzo settore convivano a fianco del servizio pubblico, dove i cittadini possano sentirsi accolti e costruire una progettualità condivisa; dove il CPIA, l’istruzione statale per adulti, da anni sballottato da un luogo all’altro, possa trovare sede. Il progetto prende forma in un quinquennio, fino all’apertura di inizio 2023, dopo un percorso gestito dalla Fondazione per l’Innovazione Urbana di Bologna, che ha seguito simili progetti non solo nel capoluogo emiliano.
Per l’ex Marchesi l’idea è la seguente: al netto di un’assegnazione diretta, senza bando, dell’unica parte autonoma dell’edificio agli alpini, che in Italia hanno la precedenza (per la cronaca: 210 euro al mese con pagamento posticipato), si procede a collocare gli uffici comunali (anagrafe, servizi territoriali ecc.), la segreteria del CPIA, dunque a mettere a bando l’assegnazione degli spazi residui: 5 stanze fra piano terra e primo piano.
Come funziona il bando? L’assegnazione avviene dopo tre riunioni in cui i soggetti interessati presentano la propria progettualità; si spingono i soggetti in direzione di una sintesi, per cui le varie proposte si traducano in un progetto unitario; si procede al bando e all’assegnazione. Il bando viene vinto da Rete Coesa, nata per l’occasione, che riunisce l’Arci di Padova e le cooperative sociali Sestante, Orizzonti, Equality, Cosep. Rete Coesa non paga un affitto ma ha l’onere di gestire l’apertura delle cinque stanze assegnate, le pulizie, soprattutto la progettualità. Le cinque stanze assegnate sono condivise con il CPIA, che invece ha in assegnazione esclusiva solamente la stanza della propria segreteria.
CPIA
A inizio agosto 2024 viene reso pubblico che, per la quarta volta in meno di un decennio, il CPIA cambierà sede. L’alfabetizzazione finirà in centro città, mentre la serale secondaria a Mortise. A partire da alcune docenti e studenti del CPIA nasce un comitato che si oppone alle scelte, prese congiuntamente dall’Amministrazione e dall’Ufficio Scolastico Provinciale (cui il CPIA come ogni altra scuola pubblica fa capo).
Francesca Vian, che da una decina d’anni insegna al CPIA in Arcella, ci racconta come è andata: «Gli imprenditori del sociale hanno richiesto sempre più spazio per le proprie attività. Il primo anno usavamo 4 aule con loro; il secondo, a causa dei contrasti insorti, ci siamo ridotti in due stanze. La nostra Media si è accomodata in queste due aule (64 diplomati in un anno, più di ogni altra esperienza in provincia), mentre i corsi A1 e A2 sono andati al Bernardi, dove arrivavano solo i maschi. Non ci arrivavano le madri di famiglia; c’è stata una esclusione sociale che alla casa di quartiere non ci sarebbe stata».
Vian è molto dura con Rete Coesa, come si può leggere in questo documento che ha raccolto oltre 300 firme. In generale fa notare come, in un panorama migratorio che ha una sua storia e una stabilità, il fatto che lo Stato si faccia carico dell’alfabetizzazione di coloro che saranno cittadine e cittadini italiani, nel quartiere dove maggiormente vivono, è una necessità. Il CPIA in effetti è da questo punto di vista, per quanto in difficoltà come tutta la pubblica istruzione, un’isola felice in un mare di cooperative sociali, corsi volontari, iniziative più o meno private che troppo spesso difettano di professionalità e costanza, pur abbondando in buona volontà. La didattica dell’italiano agli stranieri ha bisogno di regolarità, tempo, docenti specializzati, risorse, luoghi fisici: e tutti questi elementi assieme, non solo alcuni. Lo Stato questo lo può, e lo deve, garantire.
Di chi è la colpa?
Chiariamo subito una cosa: lo spostamento è avvenuto in seguito a una richiesta formale del CPIA di avere più spazi. L’Ufficio scolastico provinciale, cui pertiene la decisionalità sulla didattica, e l’Amministrazione comunale, che dispone degli spazi, hanno dunque deciso il cambiamento di sede. La lettura del Comitato è chiara: vengono promessi degli spazi che però risultano essere in cogestione, da subito complessa; a seguito di contrasti insorti si delimita in CPIA in due aule; la scelta dell’amministrazione è di privilegiare la progettualità politica (aprire una casa di quartiere gestita da una cordata del terzo settore); la richiesta di più spazi viene usata per sistemare la vicenda.
Di qui due domande: al netto di qualsiasi fatto intercorso, com’è possibile che il CPIA non stia dove deve stare, cioè in Arcella? E poi: ma può funzionare, e come, la progettualità della Casa di quartiere, con spazi condivisi in cui terzo settore e pubblico costruiscono assieme? Se alla prima domanda la risposta è secca – no, è un enorme errore sociale e politico, il CPIA deve tornare all’Arcella – la seconda richiede un di più di riflessione.
Rete coesa
Per capire cosa succede alla Casa di quartiere chiamiamo Serena Maule, presidente di ARCI Padova e rappresentante legale di Rete Coesa. Ci spiega un po’ come ha reagito alle accuse del Comitato: « Durante il primo anno ci siamo resi conto che i referenti di sede dell’epoca del CPIA non avevano chiara la prospettiva della casa di quartiere: agivano come convinti che la titolarità dello spazio fosse loro e avessero necessariamente la precedenza nell’utilizzo degli spazi, non avevano chiarezza del mandato su cui si basa la concessione degli spazi per il progetto Marchesi Living Lab – quindi all’inizio è stata difficile la collaborazione. Nell’estate 2023, sulla base delle difficoltà dei mesi precedenti, abbiamo fatto un accordo con il CPIA in cui si raggiunge la quadra con 2 aule in esclusiva al CPIA. Va sottolineata una cosa: gli spazi sono in concessione a rete coesa, mentre il CPIA ha in concessione solo la segreteria.
Con questo accordo c’è stata una convivenza serena: partendo dai presupposti dell’anno 2023/2024, si pensava che da settembre si sarebbero fatte cose in più assieme. Non più una convivenza forzata, come il primo anno, provando a fare un passo in più. Quando a giugno la referente (una docente diversa con cui siamo stati in ottimi rapporti per tutto il 23/24) ci ha comunicato che le attività didattiche si sarebbero spostate è stata una notizia improvvisa di cui non avevamo avuto avvisaglie da parte della dirigenza del CPIA».
Avendo seguito da vicino la vicenda, avanziamo alcune obiezioni: Rete Coesa ha una progettualità sociale, che coinvolge numerose associazioni e singoli volontari; ha dei progetti per il quartiere; però ha anche una progettualità economica, affitta gli spazi della Casa di Quartiere – d’altra parte non riceve finanziamenti dal comune e deve retribuire chi gestisce il progetto. Sulle pagine social si trovano avvisi del tipo: «Hai in programma un corso ma non uno spazio adatto dove svolgerlo? 🧘 Sei un professionista alla ricerca di un posto dove incontrare regolarmente i clienti o il tuo team di collaboratori ha un appuntamento fisso e siete stufi di vedervi al bar? 💻 Il tuo corso di formazione deve essere facilmente raggiungibile dalla stazione o dall’autostrada? 🏃».
Insomma: complice la mancanza di spazi in quartiere, di cui sopra, e senza una diretta pressione da parte di Rete Coesa, lo spostamento del CPIA lascia il posto anche (non solo) al professionista con i suoi incontri, alla riunione condominiale, allo psicoterapeuta che affitta lo studio ad ore. Rivolgiamo a Serena queste osservazioni: «La collaborazione con il CPIA era una delle condizioni alle quali siamo entrati nella Casa. Dal punto di vista economico, Rete Coesa mette a disposizione a risorse economiche e umane. Il rendiconto dei primi 15 mesi di gestione (settembre 2022-dicembre 2023) presenta quasi 10mila € di perdita, perché siamo in fase di avvio e di investimento.
Partiamo da un fatto: il Comune non paga un servizio, non mette liquidità per la gestione, però prevede la possibilità di chiedere contributi e affitti per l’utilizzo degli spazi, anche la possibilità di aprire un bar di circolo privato – una strada che non abbiamo percorso finora, volendo rendere innanzitutto la sala del piano terra lo spazio più permeabile di tutti, una sala comune in cui si può andare quando si vuole tutto il giorno, e dando la priorità al processo di partecipazione, ben avviato; attenzione: abbiamo dato la precedenza alla progettualità sociale e non alla messa sul mercato degli spazi, discutendo le modalità della messa a disposizione con gli Abitanti [chi collabora alla gestione, n.d.r.], diversificando le attività che si svolgono e essendo il più flessibili e aperti possibili. Se il focus fosse fare commercio, dando che ne so gli spazi in affitto a un’azienda di formazione, non potrebbe nascere la Casa di Quartiere.
Abbiamo attirato in un luogo tantissime attività diverse; Il focus non è farci i schei, è necessario individuare un funding mix tra entrate da uso spazi, offerte di servizi, finanziamenti. Abbiamo presentato qualcosa come 15 progetti a enti finanziatori, alcuni sono andati in porto, altri stanno procedendo (ad esempio, uno molto interessante incentrato sulla povertà educativa). Gli Abitanti hanno portato lì alcune attività del bando comunale Città delle idee.
Insomma: come tutti gli ETS devi basarti su differenziazione del budget. Il fatto che non ci sia finanziamento di base del comune è certo un elemento di attenzione e determina la necessità della ricerca di un equilibrio di gestione che garantisca la presenza di professionisti che attuino il progetto mantenendo la Casa di Quartiere a disposizione della cittadinanza».
Come valutiamo politicamente il progetto?
Riassumiamo la vicenda. La precedente amministrazione avvia il progetto di aprire una Casa di Quartiere a Padova – altre ne seguiranno. Al suo interno troveranno posto uffici comunali, CPIA, associazioni volontari ed enti del terzo settore. Vince il bando di gestione rete Coesa, che non riceve soldi ma solo gli spazi a titolo gratuito, e che ha la gestione di cinque aule che però dovranno servire anche al CPIA. In quanto ente del terzo settore Rete Coesa attua una progettualità sociale con un impegno umano ed economico, per sostentare la quale attiva varie forme di finanziamento – fra cui l’affitto di alcuni spazi a soggetti con progettualità o interesse sociale. Nasce da subito un contrasto con il CPIA rispetto alla gestione degli spazi, si arriva ad assegnare due aule univocamente al CPIA; le aule risultano insufficienti, il CPIA stesso chiede maggiori spazi, cioè implicitamente un nuovo spostamento, le sue attività vengono divise e dislocate, a Mortise e in centro. Nelle aule della Casa di Quartiere resta Rete Coesa che, grazie alle sue varie fonti di finanziamento, compresi gli affitti ai quale il Comune rinuncia, continuerà ad apportare il proprio valore aggiunto in termini di gestione e progettualità.
Quel che non emerge dall’intervista, ma che a noi viene da pensare, è che alla base di tutta questa vicenda ci sia una domanda politica di importanza non irrilevante: è possibile pensare a un luogo pubblico che costruisca una progettualità sociale sottraendosi alle logiche del mercato, senza un investimento statale o simile? Si può pensare che il terzo settore, in quanto tale, sia garanzia di riuscita e non si avviti su logiche atte a perpetuare se stesso? Non per mala fede o per spirito affaristico dei soggetti nello specifico, il cui operato non ci è dato valutare, si badi bene: la questione è legata a come in Italia il terzo settore sia stato sviluppato negli ultimi decenni, immaginato da attori politici che hanno un solo modello su cui informare la propria azione: il mercato e l’impresa da una parte, i bandi – e dunque la competizione – dall’altra. Rivolgiamo queste domande a Marta Nalin di Coalizione Civica, che ha fortemente voluto la Casa di quartiere nelle forme attuali.
«Guardando le esperienze che ci sono in giro per l’Italia non siamo partiti da zero. È possibile sottrarsi a logiche di mercato? In tutti i casi, nelle case di quartiere c’è un’attività commerciale, c’è un’attività di somministrazione. Proprio perché esiste una questione di sostenibilità. Credo che serva un investimento comunque pubblico e nel nostro caso c’è, anche se si potrebbe dire magari non sufficiente, ma c’è, nel senso che rispetto alle regole generali di utilizzo degli spazi qui non paga l’affitto. Siamo ancora in una fase di sperimentazione da questo punto di vista; certo che se i comuni avessero più risorse da poter spendere anche in questi progetti, non solo in quelli strettamente necessari – ad esempio quelli del sociale inteso in senso stretto – allora si, sarebbe bello poter uscire da quella logica lì.
Ad ogni modo, qui si è provato ad offrire una strada un po’ diversa, che però va tenuta viva; quindi la sfida, secondo me, è che ci sia una co-programmazione costante – è il senso del fatto che a settembre si faccia il calendario e non attraverso un bando, ma con chi vuole partecipare. Proviamo a metterci d’accordo per fare le attività che rispondano ai principi. Insomma, la logica su cui si basa la gestione della casa serve un po’ anche a questo, cioè ad uscire dalla logica del bando tipica della gestione pubblica degli spazi oggi.
La questione dell’affitto degli spazi esiste, ma il problema vero sulla Casa di Quartiere è: come facciamo a sostenerla, a farla frequentare? Non credo che la risposta possa essere legata solo alla sostenibilità economica, cioè alla richiesta di mettere un po’ di soldi per farla funzionare».
Proviamo azzardare una domanda che, dopo aver conosciuto questa vicenda, continua a girarci in testa: «Marta, ma secondo te come può fare un soggetto pubblico a gestire uno spazio aperto alla gente, in parziale autogestione, aperto a chi voglia prenderselo ed abbia qualcosa da proporre? Pensare a una gestione volontaria e in qualche modo fondata su una partecipazione forte del quartiere in questo momento è difficile. C’è solo l’oratorio che regge su questa modalità, perché c’è una grande idea del mondo dietro, no? Quella di Dio. Se manca la grande idea, l’ideale, alla fine finisce che un posto del genere deve essere gestito da qualche professionista del dell’aggregazione. Cosa ne pensi?»
Risponde Marta: «Da questo punto di vista sono d’accordo. Una volta c’era Dio o la politica, per dirla un po’ netta, che consentiva di immaginare, di aggregare, di creare comunità e anche di utilizzare spazi pubblici o privati in un modo diverso. Infatti l’Emilia Romagna era piena di posti così; poi, effettivamente, la politica ha perso un po’ di appeal; lì dove era più la politica che Dio si è provato a fare questa cosa diversa: le case di quartiere di Bologna. Qui è la prima volta che ci proviamo. Inoltre il problema del volontariato c’è: sappiamo che il volontariato si sviluppa in molte forme, ce n’è tanto in Italia; però è un volontariato precario, fatto di persone precarie, a spizzichi e bocconi. Quest’anno lo faccio, il prossimo non lo faccio più: è quindi difficile. Le persone si muovono, vanno e vengono, soprattutto in una città come Padova. L’affidamento della gestione, nei modi non abituali che abbiamo detto, è un modo per affrontare queste problematiche».
Su questa prospettiva chi scrive è in disaccordo, nonostante le questioni aperte non siano scontate e non riguardino solo la gestione di uno spazio ma l’idea stessa di politica. I prossimi anni forniranno forse qualche risposta; nel frattempo, vediamo quantomeno se si riuscirà a riportare il CPIA in Arcella.