di Laura Ferro
Il servizio della consegna del cibo ha origini antiche, eppure il rider così come lo immaginiamo oggi è una figura lavorativa dai connotati ultracontemporanei, strettamente connessa alla crescita vertiginosa nel settore dell’informazione e delle comunicazioni. La rapidità dei consumi e delle transazioni scandisce il ritmo delle biciclette, che da qualche tempo sono quasi tutte elettriche, più prestanti. In Italia Assodelivery, associazione delle principali aziende italiane del settore (esclusa Just Eat che, nel tempo, viene acquisita dalla multinazionale takeaway.com), regola i rapporti lavorativi dei rider. È una storia di sfruttamento capillare, insidiosa perché difficile da carpire. Non esistono prospetti statistici che mettano a fuoco il fenomeno. Quanti sono in Italia i fattorini? Quanto guadagnano mediamente? Quanti sono in servizio in ciascun turno? Quanti riescono ad accaparrarsi almeno una consegna? I puntini sono tanti ma unirli è possibile e doveroso. In questo tentativo ci facciamo guidare da alcune suggestioni.
«Foodora sfrutta»: un graffito appare sulla facciata di Palazzo Nuovo, a Torino. È il 2016. Il soggetto dello sfruttamento viene chiamato per nome. Foodora in quel momento, come Deliveroo, Just Eat e Glovo, è una piattaforma digitale che fattura milioni e si annovera tra gli attori della cosiddetta gig economy, un modello economico basato sul lavoro occasionale e temporaneo. Definire l’oggetto, il destinatario di tale oppressione, d’altra parte impone un ragionamento ulteriore. Chi sfrutta Foodora? La risposta implica che quel chi si possa racchiudere in una cornice identitaria. È una condizione necessaria e sufficiente, ma non scontata se pensiamo a quanto il lavoro dei rider sia strutturalmente imperniato sulla spersonalizzazione dei rapporti. Il dialogo diventa soliloquio tanto con i datori di lavoro, il cui volto si scherma dietro al meccanicismo algoritmico, quanto con la società dei consumatori, autoeducatasi nel tempo ad interagire il meno possibile. E così si afferma con facilità un immaginario lavorativo fatto di bracci automatizzati, estensioni di un sistema a cui si chiede la massima performatività. Se è vero che la rappresentazione sociale orienta e modella l’autopercezione, allora si capisce quanto il riconoscimento di un’agentività, della possibilità stessa di esercitare i propri diritti diventi faticoso. Tanto più considerato lo statuto dibattuto del lavoro dei fattorini, sempre teso tra il tentativo di farsi annoverare tra i dipendenti della logistica e la seduzione del lavoro autonomo, accompagnato dalla promessa di un’illusoria flessibilità. A Torino, quel giorno, qualcosa cambia. Lo racconta bene Rosita Rijtano nel suo libro Insubordinati. Costruendo un grande parallelismo con Vogliamo tutto di Balestrini, Rijtano evidenzia il ruolo della città, ieri culla delle lotte operaie, oggi inizio della lotta dei rider. Quel chi prende coscienza di essere categoria, eterogenea certo ma definita. Una mano scrive per tutti: Foodora ci sfrutta.
Una rampa di scale. A Roma e a Genova nel 2021 i rider scendono in piazza con Si Cobas. Chiedono, tra le altre rivendicazioni, di rimuovere l’opzione di consegna al piano. Mentre sollevano qualcuno dall’incombenza di dover scendere qualche gradino, i lavoratori si espongono al rischio che la loro attrezzatura venga rubata. Borsoni termici, bicicletta e smartphone sono tutti a carico loro, così come la manutenzione in caso di problemi. Il telefono, in particolare, non è utilizzato solo per smistare le consegne. Alcune piattaforme delivery, organizzando dei controlli a campione, impongono ai rider di identificarsi con un selfie in diretta. Questo rientra nella massiccia raccolta di dati in cui sono coinvolti. Dai nominativi, agli indirizzi, alle preferenze culinarie e di gusto: i lavoratori non portano solo un contributo fisico e intellettuale ma anche un plusvalore informativo. È ancora Rijtano ad approfondire lo snodo della privacy, definendo il «doppio sfruttamento» a cui sono sottoposti i rider.
L’account Glovo di Sebastian è disattivato per il mancato rispetto di termini e condizioni. Alcune consegne risultano in ritardo. Ma Sebastian, a 26 anni, è deceduto qualche giorno prima, sabato 1 ottobre 2022, in un incidente per le vie di Firenze. L’errore, di per sé ingiustificabile, trova il suo correlativo più macabro nelle parole del Ceo dell’azienda, che in un’intervista dichiara: «Non è l’algoritmo a obbligare ad andare veloci». L’affermazione smaschera il paradosso spietato in cui l’economia digitale si lava la coscienza: la neutralità di un ingranaggio a garanzia di un lavoro etico. Una sequenza automatizzata di operazioni non può essere imputabile di responsabilità che non riguardino il suo corretto funzionamento, figuriamoci della morte di un ragazzo. Se il problema della responsabilità appare oggi un tema enorme (l’eterna domanda: se agevolata, guidata, sostituita, una mano scaglia la prima pietra allo stesso modo? Soprattutto, è punibile allo stesso modo?), il presunto carattere neutro dell’algoritmo è un nodo da problematizzare. Un rider che non accorda la massima disponibilità sull’app aziendale viene automaticamente penalizzato dal sistema di gradimento ed è escluso da molte finestre orarie in cui poter lavorare. Gli slot della sera tardi e del fine settimana in alcune app sono chiamate «ore diamante». L’elogio dell’abnegazione. Ma non finisce qui. Se i tempi di percorrenza superano quelli stimati dall’app sulla base di calcoli approssimativi e inverosimili, ecco che scattano le sanzioni. È ciò che si è verificato in Toscana lo scorso agosto, dove molti rider hanno ricevuto da Just Eat segnalazioni per low performance, intesa in termini di velocità di consegna. Tempi, dicevamo, ma anche spazi di consegna. In un costante gioco al ribasso il raggio geografico delle spedizioni aumenta imponendo itinerari totalmente scollati dalle reali topografie della città, senza mai tener conto di traffico e fenomeni atmosferici. È una logica in cui tutte le città si equivalgono, confondendosi, scenari ultraconnessi e dissociati rispetto agli stessi lavoratori che le attraversano. Sembra chiaro allora quanto il sistema algoritmico, tutto fuorché neutro, sia lo specchio di direttive dirigenziali orientate alla massificazione dei profitti. E quanto, di fatto, ti obblighi eccome ad andare veloce.
Mappe di città irreali. A Padova le scie dei rider si muovono ormai da Mestrino al centro storico, da Cadoneghe a Montegrotto, sempre troppo veloci. Il 7 settembre Alì Jamat, 31 anni, è investito a Limena. Passano tre settimane di agonia in ospedale, poi il nulla. Alì se n’è andato percependo 3-3,30 € lordi per ogni singolo ordine. La sua storia ci ricorda l’elefante nella stanza del mondo delivery: la razzializzazione del lavoro migrante. Già perché il guadagno misero, la flessibilità e precarietà permanente e la costante deumanizzazione da algoritmo si innestano all’interno di una crescente forma di segregazione occupazionale e di sfruttamento di lavoratori di recente immigrazione (regolari) o di immigrati irregolari con ancora meno tutele. Sebbene non ci siano dati certi, le stime per le città del Nord Italia dicono che almeno 6 riders su 10 siano lavoratori immigrati (e la stima è probabilmente al ribasso). Chi abita a Padova come noi, può fare tranquillamente questa controprova osservando il colore della pelle dei ciclofattorini che indossano le tute di Deliveroo o Glovo. La discriminazione è in altri termini sistemica e rischia di promuovere fenomeni di sfruttamento nello sfruttamento: se da una parte infatti le barriere sociali e linguistiche rendono facilmente ricattabili lavoratori come Alì, esclusi, o fortemente penalizzati, dal mercato del lavoro “ordinario”, dall’altra non è inusuale osservare fenomeni in cui lo sfruttato sfrutti a sua volta, in una folle gerarchizzazione della forza lavoro. Già dal 2019 esistono infatti casi in cui immigranti irregolari e richiedenti asilo affittino l’account dei fattorini, svolgendo le consegne al posto loro e versando dal 30 al 50 per cento di quanto guadagnano, come successo nelle grandi città metropolitane (da qui l’introduzione del selfie di controllo da parte di alcune piattaforme).
Eppure la storia di Alì ci racconta anche altro. Ci racconta anche che se la rabbia resta individuale e mera lotta per la sopravvivenza rischia di essere soffocata nel silenzio. Allora torna la forza di quel chi. Dopo la morte di Alì, 150 rider di aziende diverse si riconoscono categoria: il 29 settembre in Piazza Mazzini organizzano un sit-in e scioperano. Si attivano, eleggono tra loro 4 rappresentanti e si rivolgono ai sindacati. Nella rivendicazione dei diritti spesso, come si è detto, c’è la barriera linguistica da considerare. Assecondare i ritmi frenetici di questo lavoro, magari con una famiglia alle spalle, significa non aver tempo per imparare la lingua e, di conseguenza, non avere alternative. Le richieste dei lavoratori di Padova riguardano soprattutto la retribuzione dell’attesa, finora esclusa dal pagamento dell’ordine, e un’indennità in caso di pioggia, bonus che ha sempre dimostrato scarsa operatività. Per la morte di Alì i rider si muovono in senso comunitario. Raccolgono autonomamente 3500 € da inviare alla famiglia in Pakistan per sostenere parte delle spese del funerale. Si rivolgono al Comune per ottenere una sala in zona stazione o Arcella, un luogo dove si possa fare rete tra lavoratori stranieri. Vogliono l’istituzione di una cassa, perché nessuna famiglia si trovi a pagare da sola il funerale ad un proprio caro. Lo sciopero induce Glovo alla trattativa. La firma dell’accordo viene siglata: i rider ottengono l’aumento e le tutele richieste.
Per Alì, per Sebastian, per tutti i rider costretti a consegnare durante l’alluvione a Bologna.