di Filippo Gobbo
Che cos’è la sussidiarietà?
A volte, la semplice inversione nell’ordine di alcune parole può raccontare molto della storia di un paese. Può raccontare tendenze e ideologie in atto, aprire sguardi sul recente passato e sul futuro prossimo. È il caso ad esempio dell’articolo 114 della Costituzione, uno degli articoli che è stato oggetto di modifica con la riforma del titolo V della Costituzione del 2001 e il cui cambiamento ha messo le basi per una nuova gestione amministrativa della vita comune in Italia (nonché aprire la strada all’attuale riforma sull’autonomia regionale). Ma andiamo con ordine e osserviamo come è stato modificato questo articolo. Se nella versione del 1948 l’articolo recitava «La Repubblica si riparte in regioni, province e comuni», dopo la riforma ciò che troviamo scritto è questo:
«La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
L’inversione dell’ordine di elencazione degli enti territoriali non è casuale. Nella costituzione pre-riforma c’era l’idea di uno Stato centralista, in cui flusso di potere, di informazioni e di decisioni andava dalle amministrazioni centrali verso quelle più periferiche (regioni, province, comuni), per finire a pioggia sui cittadini. Con la riforma del titolo V questa gerarchia viene invece ribaltata. Ma a favore di cosa e perché?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo fare riferimento a un altro articolo che è stato modificato con la riforma del 2001, l’articolo 118, e a un nuovo principio che esso introduce all’interno della Costituzione: il principio di sussidiarietà.
In diritto, quando si parla di sussidiarietà si fa solitamente riferimento all’intervento pubblico statale. Quest’ultimo deve essere sussidiario rispetto alle capacità private di incidere sull’organizzazione dell’esistenza collettiva. In altri termini, in tutti quei casi in cui un gruppo sociale è in grado di provvedere da sé, lo Stato non deve intervenire (o deve intervenire il meno possibile). Saranno i privati, singolarmente o cooperando tra di loro, a trovare delle soluzioni adeguate per i loro pari in difficoltà (si parla, in questo caso, di sussidiarietà orizzontale). Una comunità locale è carente di scuole per l’infanzia, ma riesce attivarsi in autonomia, grazie al privato sociale? Lo Stato non intervenga. All’accudimento degli anziani riesce a far fronte il volontariato? Allora i servizi sociali possono dedicarsi ad altro. Tutti questi casi, in cui sono i privati a muoversi per aiutare i loro pari, viene definito tipicamente come sussidiarietà orizzontale. È un principio che ha trovato terreno fertile dal punto di vista ideologico, almeno in Italia, sull’alleanza paradossale tra la dottrina sociale della Chiesa e liberismo. Da una parte, la sussidiarietà orizzontale lascia maggiore spazio alla Chiesa per intervenire e dare risposte agli svariati bisogni della comunità; dall’altra, nasconde una visione del mondo conforme a quella più tipicamente liberista, dove è l’individuo (o gli individui) a dover agire limitando al massimo grado l’intervento statale.
Solo in quei casi in cui lo Stato è chiamato a intervenire, vige la cosiddetta sussidiarietà verticale, il principio che ha portato all’inversione elencativa introdotta dalla riforma del titolo V. In altri termini, dove i privati non arrivano, arrivano prima i comuni, poi le province (quando esistevano), poi le regioni e, solo in un’ultima fase, lo Stato. L’idea alla base è semplice e chiama in causa il senso comune: 1- sono i cittadini che sanno come intervenire per migliorare il loro vivere sociale, quindi è bene promuovere la loro autorganizzazione (il «terzo settore» e «il privato sociale» sono un po’ espressione di questa idea, al contrario invece delle reti dei «beni comuni», che si muovono apparentemente sullo stesso piano, ma il cui obiettivo è denunciare le falle dello Stato nel garantire alcuni servizi essenziali); 2- qualora i privati non riescano ad autorganizzarsi in forma privata, a dover intervenire in sua vece non dovrebbe essere direttamente lo Stato centrale, quanto le istituzioni territoriali, più vicine ai cittadini e garanti degli interessi del loro territorio. Niente di più logico, niente di più concretamente razionale, no?
Le origini di un principio e di una retorica
Tuttavia, anche il senso comune, nella sua apparente neutralità, è figlio dei tempi e delle ideologie. La riforma del titolo V della Costituzione nasce in un periodo preciso della storia repubblicana. Sono gli anni in cui il crollo dell’Unione sovietica e lo scandalo Tangentopoli contribuiscono all’idea che la macchina statale centralizzata e il suo intervento siano una delle più grosse storture politiche espresse dal Novecento, contribuendo a creare una classe politica parassitaria. Pensate alla serie di riforme promossa da Gorbacev a fine anni Ottanta per combattere corruzione e privilegi del potere politico sovietico o al nostrano «Roma ladrona». Un discorso tenuto da Gianfranco Miglio, studioso di Carl Schmitt nonché uno dei più importanti teorici della Lega della prima ora (soprannominato, non a caso, il profesùr), durante il Congresso federale della Lega Nord nel 1994 è illuminante in questo senso:
Vedete. In ogni comunità politica di tutti i tempi e di tutti i luoghi c’è sempre una certa percentuale di cittadini che vivono alle spalle degli altri. Carlo Marx ha guadagnato l’immortalità perché è riuscito a dimostrare il modo con cui i proto-imprenditori capitalisti sfruttavano il proletariato industriale. Poi sulla base di quella dottrina è stato costruito un sistema in cui una gigantesca burocrazia sfruttava i pochi cittadini dell’Unione sovietica che lavoravano e producevano. […]. Il Paese che siamo chiamati a cercare di cambiare è fatto così: è un Paese ammalato da un esercito di pidocchi.
Cosa si poteva fare, secondo Miglio, contro l’inefficienza statale, contro lo strapotere dei partiti ladroni, contro l’oppressione burocratica, contro l’insostenibile pressione fiscale?
Contro questo modo di governare assurdo e incorreggibile c’è una sola alternativa: un sistema federale che rovesci la piramide fiscale e clientelare, creando rapporti diretti fra centri di potere minori, in cui si suddivide il potere centrale, e i cittadini.
Tradotto? Autonomia federale, rapporto diretto tra istituzioni e cittadini e maggiore ancoraggio del gettito fiscale al territorio. L’intervento di Miglio, che si può ascoltare nella sua interezza qui (dal minuto 54), rappresenta icasticamente l’aria che tirava a destra all’inizio degli anni Novanta. È un’aria il cui soffio è stato sufficientemente potente per convincere la sinistra di governo, nel 2001, a introdurre il principio di sussidiarietà verticale all’interno della Costituzione (un tentativo per arginare il crescente successo leghista di fine secolo). Ed è un’aria che tira ancora oggi dato che formule e retoriche usate da Miglio nel ‘95 animano ancora oggi il dibattito sull’autonomia, da destra come da sinistra. L’ideologia, come si diceva, è diventata senso comune, tanto che oggi la retorica dell’«avvicinare le istituzioni ai cittadini» viene ampiamente sfruttata. «Avvicinare» significherebbe dare la possibilità ai cittadini di avere voce in capitolo sui propri bisogni attraverso un contatto più diretto con chi li governa (ricorre, dietro questa retorica, l’immagine del parlamentare asserragliato a Roma, poco interessato ai bisogni del Paese reale). Permetterebbe inoltre un controllo più efficace sul loro operato etico-politico (tradotto: evitare che rubino) e tecnico-amministrativo (hai governato bene? No? Allora vai a casa). Ma è davvero così?
Dietro la retorica
Che l’avvicinamento delle istituzioni ai cittadini permetta con certezza un miglioramento nell’amministrazione del bene comune è ovviamente una distorsione della realtà. La cronaca politica degli ultimi decenni smentisce questa favola. Se veramente i governanti locali fossero onesti, in quanto maggiormente intimoriti dalla “vicinanza” dei propri concittadini, non avremmo avuto scandali locali e regionali, tra i più clamorosi degli ultimi anni. Pensiamo a quelli che hanno interessato il Veneto (con lo scandalo Mose, con cui si è scoperto che l’ex-presidente Giancarlo Galan era a libro paga del consorzio costruttore della diga artificiale) e la Lombardia (accusa e condanna di corruzione per l’ex-presidente Formigoni per lo sperpero di 70 milioni di euro di denaro pubblico e corruzione con intento di favorire operatori sanitari privati). Oltre a dimostrare il famoso “primato del Nord”, questi esempi ci raccontano di quanto poco incisivo sia il meccanismo di controllo dei cittadini sui propri governi regionali e su quanto l’elettorato a volte riesca veramente a tutelare i propri interessi (Galan è stato presidente del Veneto per quindici anni, mentre Formigoni per diciotto).
Ma, più in generale, ad essere erronea è la stessa idea di “controllo” dell’operato amministrativo da parte dei cittadini, secondo cui se i governi regionali “fanno bene” verranno rieletti, mentre se “fanno male” verranno mandati a casa. La differenza che passa tra questo “fare bene” e “fare male” è la stessa che passa dal dare una soluzione giusta o sbagliata in un compito di matematica. Non ci sono soluzioni, ma solo la soluzione. Il problema è che in politica dovrebbe essere esattamente l’opposto: è il conflitto delle posizioni e delle soluzioni proposte a generare, tramite mediazione, una soluzione che le bilanci. Almeno era così nel Novecento.
Oggi, il presupposto ideologico che abita ormai da diversi anni il discorso politico italiano è quello della riduzione della vita politica a tecnica politica. E questo vale sia per il piano nazionale (i governi tecnici che «mettono a posto i conti») sia per quello locale. Pensando ai successi degli amministratori locali più longevi del Triveneto, il territorio in cui sono nato e cresciuto, mi pare che molti di questi siano stati riconfermati non tanto per una visione politica condivisa, ma per la loro abilità di gestione tecnica, per la capacità di «far funzionare» il territorio. O, più tristemente, mi pare che l’unica visione politica condivisa fosse proprio questa: «far funzionare» il territorio.
Ecco che, al di là della propria preferenza per soluzioni centraliste o autonomiste, ciò che si vede nel panorama politico nazionale si riflette su quello locale: è un appiattimento verso un modello di amministrazione che riduce il potere pubblico a mero strumento di gestione, senza un reale progetto di lungo termine. Questo riduzionismo tecnico, dove le ideologie diventano quasi obsolete, finisce per trasformare le istituzioni locali in enti di pura efficienza economica, svuotandole però di una più ampia prospettiva politica e sociale.
La retorica dell’autonomia e della sussidiarietà, così come si presenta oggi, lascia quindi aperte alcune questioni fondamentali: fino a che punto l’autonomia amministrativa promuove davvero il benessere collettivo? E in che misura, invece, serve da giustificazione per delegare funzioni e responsabilità, riducendo il ruolo dello Stato a semplice arbitro in situazioni dove il “bene comune” rischia di essere sacrificato in nome di interessi particolari?
Questo articolo deve molto alla lettura di un piccolo librettino uscito per Einaudi nel 2024. Il libro si intitola Spezzare l’Italia ed è stato scritto da Francesco Pallante.