Ricevere la protezione o l’asilo viene spesso raccontato come un traguardo per chi arriva in Italia, o più in generale in Europa, con la prospettiva di cominciare una vita diversa.
Accade però, che il pezzo di plastica tanto atteso, che sancisce il diritto a restare, diventi motivo di angoscia e precarietà. Paradossale, no? Eppure è quello che sta succedendo a tanti richiedenti asilo del Burkina Faso e del Mali.
Accolti nei CAS, la prima accoglienza (ne avevamo parlato in questo articolo: https://www.seizethetime.it/accoglienza-a-padova-la-voce-degli-operatori/), dopo pochi mesi dal proprio arrivo si ritrovano con in mano un documento, ma misere prospettive di autonomia sul territorio.
Essendo il Burkina e il Mali Paesi considerati instabili e non sicuri, le procedure di riconoscimento della protezione sono molto rapide; si può essere chiamati in Commissione dopo 4-5 mesi dal proprio arrivo in Italia e ricevere una risposta nel giro di qualche settimana. La risposta è quasi sempre positiva e comporta l’ottenimento della protezione sussidiaria, con durata di 5 anni.

A questo punto, nella prospettiva più rosea di un sistema che fa acqua da tutte le parti, il titolare di protezione avrebbe diritto ad accedere al progetto SAI, la cosiddetta seconda accoglienza, e quindi continuare ad avere un supporto finalizzato a una piena integrazione sul territorio. I posti in SAI però, sono pochissimi, nettamente inferiori a quelli in CAS, in cui la persona è inserita fino a quando non abbia risposta, positiva o negativa che sia, dalla Commissione. L’accesso estremamente limitato, associato a tempi di inserimento molto lunghi, affliggono ulteriormente chi è in possesso della protezione, ma non ha ancora acquisito una autonomia tale da poter vivere senza un supporto materiale nel territorio padovano.
Una volta avuto risposta positiva dalla Commissione, nel giro di poche settimane, la Prefettura notifica la cessazione delle misure di accoglienza, in quanto uno dei requisiti che sanciscono il diritto a stare in CAS, ossia l’essere richiedenti, decade. Questo, però, è solo uno dei requisiti.
L’accesso al sistema di accoglienza, infatti, richiede due condizioni: l’aver fatto richiesta di asilo una volta giunti sul territorio italiano e il non essere autosufficienti. Sebbene il nostro Governo, come d’altronde quelli precedenti, abbiano con continuità minato alla stabilità di questo sistema, rendendolo sempre più precario ed emergenziale, il CAS rimane uno dei pochi, se non l’unico appoggio, per chi, arrivato in Italia, non abbia la possibilità di mantenersi e di avere un supporto.
Attualmente, le persone burkinabè e maliane, una volta ricevuta la Protezione, continuano a non essere auto-sufficienti: la maggior parte è in Italia da meno di anno, parla ancora poco la lingua, fa lavori precari e spesso in nero e ha un’estrema difficoltà a riuscire a pagarsi una stanza in affitto, sempre ne trovino una considerato il razzismo dilagante dei proprietari e la crisi abitativa in cui ristagna Padova. Non parlare bene l’italiano significa, anche, avere estreme difficoltà di accesso ai servizi primari: prendere appuntamento in Questura per il rinnovo dei documenti, interfacciarsi con l’anagrafe del proprio Comune per il rilascio delle tessera sanitaria, l’accesso a visite specialistiche per problemi di salute diventano ostacoli enormi senza un supporto adeguato.

Privare dell’accoglienza soggetti non nella condizione di mantenersi significa lasciarli per strada. Al momento, per evitare che queste persone si ritrovino senza una casa nell’attesa di capire se entreranno o meno in un SAI, le Cooperative continuano a ospitarle, senza che queste possano essere contate nella retta del bando, e quindi fornendo vitto e servizi non rendicontabili; ma non è una situazione sostenibile sul lungo periodo.
Attualmente non esiste la possibilità di chiedere la sospensione della notifica della Prefettura, che permetterebbe ai titolari di protezione di usufruire di un periodo cuscinetto, che vada incontro alle loro necessità, nell’attesa di capire se saranno inserite in un nuovo progetto; spesso la notifica di cessazione arriva perfino prima del concreto rilascio del documento attestante la protezione.
Paradossalmente ricevere un diniego dalla Commissione Territoriale apre una finestra temporale caratterizzata da maggior stabilità: richiedenti tunisini, egiziani e bengalesi, i cui Paesi d’origine sono considerati sicuri dall’Italia, sono in qualche modo “avvantaggiati”, perché alla risposta negativa della Commissione, alla quale si accompagna il decreto di espulsione dal territorio italiano, possono contrapporre il ricorso, avvalendosi dell’aiuto di un avvocato con patrocinio gratuito, per contestare la risposta ricevuta. L’avvocato che presenti ricorso, automaticamente, presenterà anche la richiesta di sospensione della disposizione di espulsione dal territorio italiano; ciò garantisce alla persona revocata la possibilità di restare all’interno del progetto di accoglienza, fintanto non sia autosufficiente e/o non si concluda il processo del ricorso, che può richiedere anche diversi anni.
L’impasse che si crea per le persone burkinabè e maliane, dovuto allo smantellamento negli anni del sistema di accoglienza e all’applicazione di norme che non tengono conto delle reali condizioni materiali delle persone, rischia di creare nuova marginalità e dimostra come ottenere un documento non sia un punto di arrivo, ma semmai un ulteriore punto di partenza per chi arriva in Italia.