Gli effetti di una riforma poco discussa
Oggi, 22 ottobre, in Veneto si celebra la Giornata dell’Autonomia. Non scherziamo: nel calendario istituzionale della regione Veneto il 22 ottobre d’ora in avanti sarà una vera e propria festa. Così è stato deciso dalla Giunta regionale a luglio 2024, pochi giorni dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale della riforma sull’Autonomia differenziata. Ma a che punto siamo ora? Il 3 ottobre 2024 sono iniziate le prime trattative concrete tra il Ministro per gli Affari regionali (Roberto Calderoli) e i rappresentanti delle prime regioni (tra cui il Veneto). Sono gli ultimi passaggi di un iter lunghissimo che è partito tecnicamente dopo il referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto nel 2017, ma che ha una storia in realtà di più lungo corso che parte dalla nascita stessa delle regioni fino alla riforma del Titolo V della Costituzione che ne ampliava le competenze. In questo articolo, vi aggiorniamo su quali sono gli aspetti principali di questa riforma e sugli effetti che essa potrebbe avere per il futuro del Veneto.
Roma, 3 ottobre 2024. Fuori da Palazzo Cornaro, sede del Dipartimento per gli affari regionali e le autonomie, il governatore del Veneto, Luca Zaia, dichiara ai giornalisti che quella che sta giungendo al termine è una giornata storica. E probabilmente ha ragione. Lo scenario che si presenta di fronte a noi cambierà significativamente a causa dell’autonomia differenziata, una riforma che andrà a rivoltare l’amministrazione pubblica italiana, spostando molte competenze, attualmente prerogativa esclusiva dello Stato, alle regioni ordinarie che le richiederanno. È una riforma che probabilmente, nel corso dei prossimi anni, definiremmo epocale, ma della quale al momento non riusciamo ancora a comprendere fino in fondo le conseguenze. Da una parte perché la sua complessità l’ha di fatto resa una materia di discussione esclusiva, solo per gli addetti ai lavori (giuristi, economisti, giornalisti, amministratori, politici); dall’altra perché la semplificazione retorica dei suoi promotori (a partire da Zaia) è riuscita a renderla sopportabile, se non addirittura auspicabile. In un’intervista di Carlo Salmaso, avevamo già spiegato in che cosa consisteva questa riforma che, di fatto, rende concreto quanto già previsto dalla riforma del titolo V della costituzione voluta dall’Ulivo nel 2001 (un goffo tentativo di rispondere, da sinistra, all’ascesa della Lega Nord) e, successivamente, con la legge 42 del 2009 (che definiva in maniera più chiara quanto nella precedente riforma era soltanto abbozzato). Ora è il momento di capire come si potrebbe concretizzare in Veneto e quali effetti avrà su scala nazionale.
I LEP: garanzia di lotta alle disuguaglianze
Dato che la legge è stata approvata a fine giugno 2024, ora si è aperta la fase di richiesta e contrattazione delle competenze tra il governo e le regioni. Questa fase si divide idealmente in due: una iniziale in cui le regioni stanno richiedendo funzioni in materie “non riferibili ai LEP” e una seconda, che partirà quando saranno definiti i LEP. Ma che cosa sono? Lo dice l’acronimo stesso: da una parte sono i livelli essenziali delle prestazioni che servono a garantire i fondamentali diritti civili e sociali dei cittadini (nel concreto si tratta di individuare tutte quelle prestazioni e quei servizi che lo Stato, e le regioni in sua vece, sono tenuti a fornire al cittadino); dall’altra sono strumenti necessari per calcolare i “fabbisogni standard” di ogni regione, cioè le risorse necessarie perché queste assicurino le prestazioni. In caso contrario, il riferimento finanziario rimane la spesa storica (tradotto: quanti soldi sono serviti negli anni passati per garantire questo servizio?). Dai LEP, in altri termini, passano non solo il tentativo di superare i divari territoriali (prevedendo meccanismi di perequazione tra le diverse regioni), ma anche la piena attuazione dell’autonomia finanziaria degli enti territoriali (in primis, le regioni). Il problema è che i LEP non sono stati ancora definiti. Sebbene la legge 42 del 2009 li avesse previsti, non sono ancora stati individuati (ad eccezione per il comparto sanitario dove esistevano già i LEA, livelli essenziali di assistenza). Le ragioni per cui non sono stati fissati sono almeno tre. La prima è la crisi del 2008 e le conseguenti misure di austerità hanno costituito un vincolo importante (se fossero stati individuati i LEP si sarebbe dovuto anche trovare le risorse finanziarie per garantirle, senza aggravare la tassazione). La seconda è la modesta capacità di incidenza dei rappresentati politici del Mezzogiorno sul panorama politico nazionale. Infine, la terza ultima ragione è la scarsa attenzione della sinistra istituzionale negli ultimi decenni al tema delle disuguaglianze. Un disinteresse, quest’ultimo, che ha permesso alla destra di rafforzare le sue argomentazioni in difesa dell’autonomia differenziata in questi ultimi mesi. Nonostante l’accelerata nell’individuazione dei livelli essenziali da parte della destra leghista sia strettamente connessa all’attuazione dell’autonomia differenziata, è evidente che la credibilità del PD in questo campo è vicina allo zero («se avevano tanto a cuore la definizione dei LEP perché non li avete fatti prima?», dice Zaia nelle poche discussioni cui ha deciso di partecipare sull’argomento).
I LEP: garanzia di disuguaglianze
Allo stato attuale la definizione dei LEP è in mano a un comitato presieduto da Sabino Cassese. Rispetto alle decisioni che verranno prese da questo comitato non è previsto alcun tipo di discussione in Parlamento. Uno strumento come i LEP pensato principalmente per combattere le disuguaglianze tra Nord e Sud verrà definito quindi dal parere di pochi esperti e da una commissione tecnica per l’individuazione dei fabbisogni standard senza che vi sia alcun tipo di discussione pubblica sull’argomento. E a trapelare sono solo indiscrezioni preoccupanti. Sembra infatti che la definizione dei LEP stia per essere vincolata ai fabbisogni standard attuali, quando – lo si diceva prima – i LEP sono nati con l’intento diametralmente opposto. Saranno insomma «le caratteristiche dei diversi territori, il clima, il costo della vita e gli aspetti sociodemografici della popolazione residente» i criteri utilizzati per la definizione dei LEP, con l’alto rischio di condannare un Sud ormai in preda allo svuotamento demografico ad avere sempre meno servizi essenziali. Altra notizia preoccupante è che a essere individuata come capo della commissione tecnica per l’individuazione dei fabbisogni standard sia Elena d’Orlando, giurista dell’Università di Udine che ha fatto parte della delegazione trattante con lo Stato per la regione Veneto. Quest’ultima ha avuto un ruolo ufficiale di consulenza per l’ottenimento delle migliori condizioni possibili, sia dal punto di vista giuridico ed economico, nelle intese tra governo e regione Veneto. E lo stesso vale per Andrea Giovanardi dell’Università di Trento (autore, non a caso, di un libro che è tutto un programma: Autonomia, differenziazione, responsabilità). Il conflitto di interessi è evidente tranne agli occhi di chi ha promosso e festeggiato questa riforma.
Ma cosa chiede il Veneto?
E allora torniamo al nostro amato Veneto che, tra le regioni richiedenti è quella più ingorda, dato che chiederà funzioni per tutte le ventitré materie (potete leggere qui gli accordi preliminari tra la Regione e il governo Gentiloni del 2018) su cui si può chiedere una o più competenze (ma Zaia ambisce anche alla gestione dei flussi migratori sul territorio regionale; una competenza che tuttavia è prerogativa dello Stato secondo la Costituzione).
Nove materie non oggetto dei LEP sono già state in parte discusse il 3 ottobre, mentre le altre quattordici verranno discusse quando il comitato guidato da Cassese finirà i suoi lavori, come ricordavamo prima. Partiamo dalle prime, dove tuttavia iniziano già a emergere forti resistenze contro l’autonomia. Zaia, infatti, ha richiesto la regionalizzazione del reclutamento dei vigili del fuoco (fortemente criticata dal coordinatore nazionale FP-Cgil-Vigili del fuoco, Florindo Olivieri), la riorganizzazione in chiave regionale della Protezione Civile (e su questa ha messo il veto il ministro Musumeci) e degli uffici demandati alla giustizia di pace, oltreché l’implementazione di poteri per gestire maggiormente export dei prodotti regionali. Oltre a questo, il Veneto sta richiedendo anche competenze in materia di finanza pubblica, con la possibilità di istituire tributi locali e rideterminare aliquote e agevolazioni (chissà a vantaggio di chi?) oltre alla possibilità di trattenere parte del residuo fiscale (ossia la differenza tra le tasse pagate dai cittadini e la spesa pubblica complessiva). Questo gli permetterebbe di aumentare il personale impegnato nei diversi settori dell’amministrazione pubblica e migliorarne il trattamento economico e il trattamento previdenziale. Il Veneto diventerebbe così idealmente un’isola privilegiata dal punto del trattamento salariale, rispetto ad altre regioni di Italia. Ma non tutto è oro quel che luccica. Facciamo un esempio partendo dall’istruzione, una delle materie oggetto dei LEP. Se è vero che gli stipendi degli insegnanti veneti potrebbero idealmente aumentare (ma non diversamente da quanto potrebbe accadere ora, se ci fosse la volontà politica di farlo) è altrettanto vero che il corpo docente potrebbe dover fare i conti con degli interlocutori che negli ultimi anni, almeno in Veneto, hanno già ampliamente cercato di influire sulla libertà d’insegnamento (vedi, ad esempio, il trattamento in chiave nazionalista delle foibe da parte dell’ex-assessora Donazzan). La regione infatti sta spingendo per chiedere la regionalizzazione del rapporto di lavoro degli insegnanti (diventerebbero così dei dipendenti regionali a tutti gli effetti), per avere voce in capitolo sulla definizione delle attività didattiche e sulla formazione dei docenti. Ma punta anche all’adattamento dei programmi scolastici alle esigenze del territorio, «tenendo conto delle particolarità economiche e sociali che caratterizzano la regione»: più che cittadini consapevoli, si lavora alla creazione di lavoratori adeguatamente ammaestrati e disciplinati. Manodopera fresca e pronta: un bel piano per il futuro. Se non bastasse l’asservimento totale della scuola alle esigenze produttive (ed ideologiche?) della regione, ad esso si aggiunge l’incentivazione per le scuole private (non è un caso che venga rivendicata anche la competenza in tema di parità scolastica, cioè la possibilità di rendere equiparabili a livello giuridico le scuole private a quelle pubbliche). Dico tutto questo solo per parlare dei problemi “interni”. Ma c’è da chiedersi dove finirebbe l’idea stessa di istruzione nazionale? Se programmi didattici e curricoli potranno essere cambiati a seconda delle esigenze regionali, le differenze tra ciò che si insegnerà in una scuola veneta e in una calabrese saranno enormi.
E questo varrà per moltissime altre materie, come abbiamo visto. Per quanto riguarda le politiche d’intervento sul mercato del lavoro e di sicurezza sui luoghi di lavoro si va nella stessa direzione (da una parte si chiede la gestione diretta dei centri per l’impiego e la possibilità di offrire incentivi ad hoc per rispondere alle esigenze produttive; dall’altra l’integrazione di attività ora in carico all’Ispettorato del lavoro in merito alla sicurezza). Lo stesso vale per la tutela dell’ambiente, dove l’insieme delle competenze potenzialmente richiedibili potrebbe portare le singole regioni a ridefinire in maniera meno restrittiva i vincoli ambientali ad oggi presenti (attraverso la redazione e approvazione, in via esclusiva, del piano paesaggistico regionale; o ancora acquisendo funzioni e risorse delle soprintendenze, tradizionale spina nel fianco dei cementificatori di tutta Italia).
Criticità e margini di manovra
I problemi sono molti e, per ognuno di essi, andrebbero discussi i pro e i contro. Guardando soltanto alla riforma generale però già si possono vedere le criticità maggiori: diseguaglianze territoriali tra regioni ricche (Veneto, Lombardia ed Emilia-Romagna in primis) e regioni povere (soprattutto a Sud); debolezza dello Stato centrale nella garanzia dei servizi fondamentali del cittadino e impossibilità di riforme sociali, economiche, culturali ed ambientali di respiro nazionale; difficoltà di coordinamento e confusione nella gestione delle diverse competenze tra livello regionale, nazionale ed europeo; rischio di fenomeni duplicazione degli apparati statali e conseguente spreco di denaro pubblico (dal momento che alcune regioni possono richiedere delle competenze, mentre altre sono libere di non farlo, questo significa che nella capitale dovranno comunque rimanere gli apparati istituzionali necessari per svolgere le funzioni non richieste da alcune regioni); incremento di inutili meccanismi competitivi tra le regioni in un mondo pienamente globalizzato.
Allo stato attuale, questo è quello che potenzialmente si prospetta all’orizzonte (l’avverbio è d’obbligo dal momento che le richieste delle singole regioni devono comunque fare i conti con la concessione delle competenze da parte del Governo). La possibilità di un referendum abrogativo è per ora remota, nonostante gli sforzi per raccogliere le firme per le proposta di referendum fatti questa estate abbiano avuto successo. Allo stato attuale la Corte Costituzionale sta valutando l’ammissibilità del quesito referendario, dal momento che la riforma è legata alla legge di bilancio (referendum su leggi tributarie e di bilancio sono, in teoria, inammissibili). Se si farà, sarà fissato tra il 15 aprile e il 15 giugno 2025. Se non si farà, non ci resterà che prestare ancora più attenzione alla politica di una regione come il Veneto in cui il solo blocco leghista, alla meglio, potrebbe prendere alle prossime elezioni regionali all’incirca il 35%, mentre il duo Fratelli di Italia e Forza Italia il 16%; alla peggio, con una ipotetica possibilità di ridiscesa in campo di Zaia (supportato da Lega, Lista Zaia e Lista Sindaci), quest’ultimo potrebbe addirittura prendere il 68,4% (fonte Quaeris-Italy Post).