di Matilde Moro
Grafica Veneta è il nome di un complesso tipografico a Trebaseleghe, in provincia di Padova. Sul sito della compagnia si legge “Sempre all’Altezza delle Aspettative”. È un ottimo slogan.
O lo sarebbe, se non fosse che la notte del 25 maggio 2020 un lavoratore pakistano di Grafica Veneta è stato ritrovato in aperta campagna, legato e con evidenti segni di lesioni. Lui e altri dieci suoi colleghi si sono rivolti lo stesso giorno alle caserme dei carabinieri o ad ospedali per denunciare di essere stati percossi, privati dei documenti e averi personali e poi abbandonati. Gli undici erano impiegati dalla cooperativa BM service per conto di GV.
Un anno di indagini da parte dei carabinieri di Padova ha condotto a 11 arresti: tra questi figurano i dirigenti di Grafica Veneta Giorgio Bertan e Giampaolo Pinton. Si parla di turni di dodici ore sette giorni su sette, maltrattamenti e sfruttamento del lavoro in nero. Non è la prima volta che quest’anno si parla del modello 12×7: sta facendo discutere il caso di Texprint, un’azienda nel distretto del tessile di Prato, organizzata dal Si Cobas. Con una differenza: là si tratta di un’impresa cinese e non di una rinomata azienda veneta, il cui proprietario è in ottimi rapporti con Zaia.
L’episodio del 25 maggio ha una ragione chiara: gli undici lavoratori si sono recati da un sindacato per denunciare la propria situazione. Una volta tornati nella casa dove vivevano – in affitto a BM service – sarebbero stati picchiati, privati dei documenti, caricati su delle macchine e poi lasciati, con le mani legate dietro la schiena, sparsi in mezzo alla campagna veneta tra Padova e Mestre.
Mentre i pakistani che gestivano la cooperativa attendono la loro sentenza in carcere, per i due dirigenti accusati di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro (art.603bis) è stato raggiunto un prevedibile patteggiamento: la pena detentiva di sei mesi è stata convertita in una sanzione pecuniaria di circa 45.000 euro, cui vanno aggiunti tra i 200 e i 220 mila a titolo di risarcimento per i lavoratori. La tesi della difesa: “non sapevamo nulla”.
Una volta tornati nella casa dove vivevano – in affitto a BM service – sarebbero stati picchiati, privati dei documenti, caricati su delle macchine e poi lasciati, con le mani legate dietro la schiena, sparsi in mezzo alla campagna veneta tra Padova e Mestre
Difficile, tuttavia, credere che Pinton e Bertan, rispettivamente responsabile della sicurezza e amministratore delegato, fossero realmente all’oscuro di quanto accadeva nel loro stabilimento. Ancora più difficile ora, dopo che il 21 settembre sono stati sequestrati i tabulati delle timbrature, che confermano i turni da 12 ore; e dopo la scoperta del fatto che venissero utilizzati cartellini non nominali, spesso scambiati fra i lavoratori. Nel frattempo anche l’ultima restrizione nei confronti dei dirigenti – l’obbligo di dimora nei rispettivi comuni – è stata rimossa.
Secondo Stefano Pieretti, sindacalista di Adl Cobas che sta seguendo il caso “[Bertan e Pinton] dovevano sapere per forza”. Per quanto il lavoro di fascettatura dei libri, a cui si dedicavano i lavoratori pakistani, fosse appaltato a BM service, avveniva negli stessi locali dove lavoravano tutti gli altri dipendenti, e gli impiegati della cooperativa disponevano degli stessi metodi di timbratura. Per far luce sul coinvolgimento dei due si fa leva soprattutto sulla questione del lavoro nero: “questa è la cosa che viene contestata direttamente a Grafica Veneta: non potevano non sapere che c’erano delle persone che lavoravano in nero”. Il meccanismo era semplice: “alcuni lavoratori non avevano nemmeno il contratto. Lavoravano in nero entrando con il badge di quelli che avevano il contratto: dopo venti minuti che questi erano entrati potevano passare il badge ad un altro e quindi entravano tranquillamente”. Entrate e uscite erano monitorate attentamente: “tieni presente che i lavoratori di GV entrano con l’impronta digitale: sono più che controllati. Non puoi dire ‘non sapevo chi entrasse’. I badge li forniva l’azienda: se hai fornito dieci badge non puoi avere venti persone che lavorano.” Lo sfruttamento sarebbe quindi “imputabile alla cooperativa, ma non solo: se sai che paghi lo stipendio per dieci persone, come mai ce ne son venti che lavorano?”
se sai che paghi lo stipendio per dieci persone, come mai ce ne son venti che lavorano?
Parlano chiaro in questo senso anche alcuni verbali che stanno girando: “Dai verbali di cui siamo entrati in possesso – ma che ormai conoscono praticamente tutti – si evince in maniera molto chiara che loro sapevano.” Sono presenti le intercettazioni della mattina in cui i carabinieri sono entrati per la prima volta in azienda: “Nelle telefonate stesse dicono al lavoratore che si occupa della parte informatica di cancellare tutti i dati: ‘cancella tutti i dati relativi agli orari’. E lui risponde: ‘l’ho fatto solo in parte perché il carabiniere che è qui se n’è accorto e ha preso tutti i dati’”. A quel punto, ci racconta Pieretti, arriva l’emblematica risposta di Pinton: “Ci siamo inculati da soli…” e poi: “Ci voleva un sistema…”.
È durante il primo incontro con l’Adl Cobas nella casa di Trebaseleghe che sono emerse le testimonianze dei lavoratori sulle condizioni del loro impiego: “Ci hanno spiegato che lavoravano 12 ore al giorno e i soldi che gli retribuivano erano quattro euro e mezzo l’ora, anche se le buste paga figuravano più alte. Chi aveva il bancomat o il conto corrente doveva prelevare e dare la parte dei soldi in eccedenza secondo quanto stabilito dai caporali e restituirli. Oltre a questo, trattenevano anche tra i cento e i centocinquanta euro per l’affitto della casa dove vivevano. Quindi alla fine i lavoratori si trovavano con sette o ottocento euro [lavorando dodici ore al giorno, ndr] sette giorni alla settimana”. Sono queste le condizioni che avrebbero portato undici di loro a cercare di mettersi in contatto con un sindacato scatenando le reazioni dello scorso maggio.
Al di là dei singoli episodi – che pure restano eclatanti – quello che emerge con forza dal caso di Grafica Veneta è il ritratto di una cultura che non solo tollera, ma che ha normalizzato il caporalato come parte inevitabile del sistema produttivo: ogni mezzo è lecito per generare profitto. Lo scrittore padovano Massimo Carlotto parla di “un sistema Nordest”, ricordando che “il Nordest è stato considerato la locomotiva d’Italia e veniva additato come un modello da riprodurre e riproporre in tutto il territorio nazionale”. Normalizzazione appunto: “Il fatto di avvalersi di cooperative e che queste cooperative si comportino in modo orribile nei confronti dei lavoratori è dato per normale”. Di qui l’assenza di eclatanti reazioni e il generale silenzio. Le ragioni sono sia sociali che meramente commerciali: “Questo tipo di notizie restano a livello locale e non vengono divulgate sul piano nazionale – secondo me anche per un problema pubblicitario – se le grandi aziende iniziano a togliere le pubblicità ai giornali, come è già successo, diventa un problema. Quindi meno se ne parla e meglio è.” Nonostante l’evidenza della gravità della situazione infatti il racconto della vicenda si è fermato a livello strettamente locale: “Non c’è nessun interesse a far diventare queste notizie nazionali e ad estendere il dibattito sul piano nazionale – meglio se rimangono confinate”.
Il silenzio diventa silenzio-assenso
Il silenzio diventa silenzio-assenso. Agli occhi del cittadino attento il disgusto aumenta se si pensa che questi fatti avvenivano in una delle più affermate tipografie del paese. Basti pensare che in Grafica Veneta arrivano ordini da clienti del calibro di GEDI e Mondadori. Vengono stampati best-seller e quotidiani. Quando si comprende la scala del fenomeno la quiete si fa inquietante e un po’ di rumore sarebbe d’obbligo. Secondo Carlotto “oggi il mondo della cultura deve ricominciare a considerare il mondo del lavoro” e questa sarebbe un’ottima occasione. Sarebbe “necessario costruire una relazione più precisa con il mondo del lavoro, che significa schierarsi anche contro il caporalato che è una piaga del nostro tessuto economico”. Il caso Grafica Veneta ha – o avrebbe – il potere di aprirci gli occhi su un sistema che sotto la superficie è decisamente più complesso e contorto di come appare: “una volta si parlava di caporalato solo rispetto al mondo agricolo, invece adesso abbiamo le prove che non è solo lì”. Bisognerebbe quindi prestare attenzione alle dinamiche retrostanti il lavoro in veneto in generale: “C’è anche l’urgenza di ricominciare ad analizzare il territorio e a prendere posizioni,” a tutti i livelli e sul territorio tutto. In aula si tornerà il 9 ottobre, con le testimonianze dei lavoratori e l’esame degli ultimi documenti raccolti.
1 thought on “Il caporalato è radicato nella norma sociale: il caso di Grafica Veneta”
Comments are closed.