La Biennale è un’eccellenza italiana. Un’eccellenza veneziana, che ha saputo trasformarsi nel corso degli anni in un’azienda, economicamente sana, a cui si prospetta un florido avvenire anche grazie al Ministero della Cultura che ne è il principale contribuente.
Nonostante questo la Fondazione rappresenta un’eccellenza, non purtroppo un’eccezione, anche sul piano dello sfruttamento del lavoro culturale. Sottopagato, privo di tutele, permessi, ferie.
Durante la formazione dei mediatori culturali viene esplicitato che da contratto avrebbero diritto alle ferie, ma che, in ogni caso, non saranno concesse.
Tra pochi giorni inaugurerà la Biennale di Architettura e, per capirne qualcosa di più, è necessario proiettarsi lì, in una di quelle mattine che si avvicinano sempre più.
Poco prima dell’orario di apertura, l’ingresso unico delle due sedi espositive, i Giardini e l’Arsenale, è affollato: lo scenario richiama l’immagine di un grande stabilimento industriale. Un’unica entrata, due aree chiuse, un cancello. Al di là, il lungo viale che porta al Padiglione Centrale, sul quale torreggia il nome della “ditta” Biennale. Verso le 10 di mattina si può avvistare qualche gruppo di lavoratori in attesa di entrare, quasi come se per tutti iniziasse un unico turno.
Ma la differenza cruciale con la fabbrica (ma non con tutte le fabbriche, come il caso di un’altra eccellenza veneziana, Fincantieri, ci ricorda) è che qui ogni lavoratore presta servizio in condizioni contrattuali e retributive estremamente diverse. La maggior parte è assunta tramite svariate agenzie e cooperative.
La Fondazione La Biennale di Venezia impiega direttamente solo qualche decina dei lavoratori che ogni giorno varcano questo cancello. Gli altri, centinaia, sono ingaggiati da soggetti terzi. Davanti ai cancelli dei “Giardini” non troviamo quindi un gruppo, potenzialmente coeso, di individui con problemi e difficoltà in comune, ma una massa informe di lavoratori precari e malpagati. Molti di loro lavoreranno in questi luoghi solo di passaggio, anche semplicemente per alcune settimane, prima di passare ad altro: la possibilità di un’azione collettiva o di semplice solidarietà è chiaramente compromessa.
La Fondazione è un attore di primo piano per la sua evidente capacità di modellare il presente e il futuro della città di Venezia, per sei mesi all’anno, ogni anno.
Ha un’enorme influenza sia sul tessuto urbanistico e architettonico che su alcuni aspetti della vita dei residenti del centro storico. In primo luogo, le mostre prodotte dalla Fondazione attirano ogni anno centinaia di migliaia di visitatori nella città lagunare. Ciascuna di queste persone invaderà il sestiere di Castello, una zona in cui, il resto dell’anno, resiste una autenticità, una venezianità fatta di panni stesi, bar da ombre e circoli, che altrove è maggiormente minacciata.
Le due sedi espositive principali necessitano di una schiera di personale di servizio imponente: dai mediatori culturali, atti a dare delucidazioni su alcune delle opere esposte, alle guide che effettuano dei veri e propri percorsi guidati tra le due sedi, fino al personale di servizio dei bookshop e delle caffetterie, al personale di vigilanza e a quello addetto alle pulizie, nonché lo staff impiegato nella vendita dei biglietti e nella sorveglianza degli accessi.
La Biennale, tuttavia, non si arresta alla Biennale.
Ai padiglioni nazionali interni alle sedi espositive e istituiti nel corso degli anni su commissione dei singoli stati nazionali, infatti, si aggiungono i Padiglioni esterni. Lo status di ‘Padiglione nazionale’, nel corso degli anni è stato esteso anche a tutte quelle esposizioni, ospitate all’Arsenale o disseminate per la città, che sono prodotte dal Ministero della Cultura di un dato Stato in seguito ad un accordo con la Fondazione La Biennale di Venezia, ma a cui non corrisponde un edificio fisso. In molti di questi casi, un palazzo veneziano o una parte di esso verrà affittato per la durata dell’esposizione internazionale ai rappresentanti di un dato ministero. Il quale, inevitabilmente, a sua volta si affiderà ad una cooperativa locale per dotare la propria sede espositiva di servizi quali il catering, le pulizie, la sorveglianza e la mediazione culturale.
La stessa dinamica investe anche i lavoratori all’interno di Giardini e Arsenale: il bookshop, per esempio, è gestito da Mondadori, che recluta il proprio personale sul posto stipulando brevi contratti a tempo determinato. Ogni anno viene indetta la gara per assegnare i servizi di pulizia e di sicurezza ad una cooperativa locale. Tra il personale di servizio nelle sedi espositive di Biennale, soprattutto nell’ambito della mediazione culturale, non manca chi presta servizio addirittura a titolo gratuito. È il caso di diversi studenti universitari che vengono cooptati tramite la procedura dello stage curriculare, a volte senza neanche un misero rimborso spese.
Completano il quadro i volontari: è il caso proprio del Padiglione Italia, che si avvale del supporto di pensionati per svolgere mansioni molto vicine alla semplice guardiania.
Le condizioni lavorative, specialmente nell’ambito della sicurezza e in quello della mediazione culturale, sono spesso così instabili e svantaggiose che, dopo solo qualche settimana nell’ambiente, è possibile notare un velocissimo turnover, nonostante si qualifichi come un lavoro dalla durata poco più che semestrale. Questo avviene anche nel caso di alcuni dei lavoratori più qualificati e impiegati nella mediazione culturale, spesso studenti internazionali che prestano servizio in Biennale con accordi della durata di poche settimane.
Da più di vent’anni La Biennale di Venezia è in espansione a livello spaziale e temporale. Già da molto tempo non è più letteralmente a cadenza biennale, ma si tiene ogni anno grazie all’alternanza delle esposizioni di Arte contemporanea e di Architettura. A questi due eventi principali si aggiungono altri eventi satelliti più o meno recenti: è il caso di Biennale Cinema, Musica, Teatro e Danza.
L’insieme di queste attività ha abbracciato porzioni di calendario veneziano sempre crescenti. Se fino al 2012 un’edizione della Mostra Internazionale di Architettura di Venezia apriva in tarda estate per chiudere a fine novembre, già da diversi anni ciascuna delle esposizioni principali apre i battenti in primavera e chiude solo poche settimane prima di Natale.
La presenza “fisica” di Biennale si è espansa nel corso degli anni non solo a livello di metratura, ma anche di ingerenza urbana. Per buona parte della sua storia, lo spazio espositivo si limitava all’area dei Giardini, ma dagli anni ’80 è cominciato il restauro dell’Arsenale, che è diventata la seconda sede espositiva nonché la maggiore per estensione.
La Biennale, soprattutto dal 2008 al 2020 si è estesa nello spazio urbano veneziano attraverso l’aumento di Eventi collaterali e Partecipazioni nazionali dislocate a tappeto nel centro storico.
Basta dare uno sguardo veloce alla mappa di Venezia inclusa in ogni brochure per rendersi conto che La Biennale non è più, e da tempo, un evento che attrae grandi masse di visitatori solamente a Castello, il sestiere più distante dai principali riferimenti del turista medio, ma al contrario dà vita ad una vera e propria colonizzazione da parte di centinaia di migliaia di professionisti e appassionati che si riversano ogni anno nelle calli della città, intasando i ponti e i vaporetti.
A che prezzo?
La città di Venezia vive, a singhiozzi, un assedio, limitato ad alcune zone e ad alcune precise settimane. In questo caso l’assedio trova le sue fondamenta nello sfruttamento dei lavoratori della cultura, come ha evidenziato Mi Riconosci, affamati con contratti del Ccnl Fiduciari da 5 euro l’ora.
Che tipo di eventi vogliamo immaginare in futuro? Ѐ possibile immaginare il lavoro in ambito artistico-culturale come un lavoro normale e non una macchina da sfruttamento? Ѐ possibile farlo a Venezia?
I grandi eventi culturali sono operazioni controverse che possono comportare, oltre ad evidenti svantaggi per la popolazione locale, anche alcune istanze molto positive come la diminuzione della disoccupazione, o l’aumento dell’occupazione femminile. Una componente fondamentale di queste operazioni è il momento di analisi post evento che va a verificare la portata dell’operazione a livello di ricaduta sul territorio, sulla popolazione, di inclusività e sostenibilità.
Lo stesso non si può dire di Biennale che si limita a modificare il volto di alcune zone di Venezia per alcuni mesi all’anno tra pannelli, manifesti, brochure e fermate di vaporetto dedicate, ma che ha mostrato con evidenza l’incapacità progettuale di fare cultura per aumentare la felicità e il benessere delle persone: non solo dei suoi fruitori, stufi di pagare 25 euro di biglietto e svenarsi per l’acquisto di un panino, ma anche e soprattutto di chi di questo evento rappresenta l’energia, l’anima e il corpo.
Quanto lontano ci si può spingere nell’esternalizzazione?
Lo stesso Sole 24 ore, non esattamente un giornale di rivoluzionari, auspicava, nell’articolo di rito post chiusura di Biennale Arte, che la maggior affluenza e, quindi, l’aumento delle entrate rendesse la gestione sempre meno dipendente dal contributo di terzi.
Purtroppo pare non sia stato così.
Potremo mai perdonare la Fondazione La Biennale per averci messo d’accordo con il Sole 24 ore?