di Caterina De Filippis
Il dibattito sui cambiamenti climatici si è sviluppato a partire da alcuni termini che descrivono l’epoca in cui stiamo vivendo; tali parole condensano al loro interno teorie ecologiche, economiche e sociali e ognuna di esse tende a concentrarsi su una prospettiva, su un taglio in particolare. All’interno di questo panorama, si possono citare la categoria del Piantagionocene, con il quale si focalizza l’attenzione sui danni causati all’ecosistema dalle monoculture, specie nei paesi in via di sviluppo; o quella del Chthulucene di Donna Haraway, ovvero l’era delle connessioni fitte, invisibili, sotterranee in cui l’uomo non è l’unico protagonista ma la piccola parte di un insieme di più soggetti, umani e non. In questo articolo ci si soffermerà però su una dicotomia in particolare: l’Antropocene e il Capitalocene. Questo taglio permette di osservare in maniera critica le due prospettive, così da analizzarle e confrontarle, mettendo in luce ciò che a una prima lettura può sfuggire.
Il mio messaggio è che vi terremo d’occhio. È tutto sbagliato. Non dovrei essere qui, dovrei essere a scuola, dall’altro lato dell’Oceano. Eppure venite a chiedere la speranza a noi giovani? Come osate? [how dare you?] Avete rubato i miei sogni e la mia infanzia con le vostre parole vuote, e io sono tra i più fortunati. Le persone stanno soffrendo, stanno morendo. Interi ecosistemi stanno collassando. Siamo all’inizio di un’estinzione di massa. E tutto ciò di cui parlate sono soldi e favole di eterna crescita economica? Come osate? Come osate continuare a guardare dall’altra parte e venire qui dicendo che state facendo abbastanza, quando le politiche e le soluzioni necessarie non si vedono ancora. Gli occhi di tutte le generazioni future sono su di voi, e se sceglierete di fallire non vi perdoneremo mai. Proprio qui, proprio ora, noi tracciamo la strada. Il mondo si sta svegliando e il cambiamento sta arrivando, che vi piaccia o no.
Questo è stato il primo celebre intervento dell’attivista Greta Thunberg del 23 settembre 2019 al Climate Action Summit di New York, il vertice globale sull’azione per il clima. Il discorso, pronunciato con una voce tremolante e al limite delle lacrime, ha suscitato un grande applauso del pubblico che lo ascoltava; proprio questo entusiasmo pone un problema importante: perché appoggiare Greta, invitarla a parlare, se poi si continua ad assecondare lo stesso sistema malato e autodistruttivo che lei critica?
La Thunberg ha fatto della lotta per l’ambiente la sua ragione di vita e con gli anni è diventata una figura parlante, il simbolo dei movimenti ambientalisti internazionali. A partire da Greta si può pensare a tutti i giovani che da lei in poi fanno dell’ambientalismo il perno di una lotta politico-sociale, in primis il movimento Fridays for Future che durante il primo sciopero globale per il clima del 15 marzo 2019 ha portato in piazza oltre un milione di persone. Non c’è azione o scelta nella quotidianità della Thunberg che non indossi la causa ecologica; ad esempio, il mezzo che l’ha portata al summit delle Nazioni Unite di New York: il diciotto metri a emissione zero di Pierre Casiraghi, un’imbarcazione che le ha permesso di arrivare dall’altra parte del mondo senza immettere nell’atmosfera CO2.
Il punto nevralgico dell’intervento è quel «how dare you?», quasi un’invettiva contro i potenti del mondo che continuano a guardare dall’altra parte, predicando un falso impegno sul fronte ambientale. Greta parla a nome di tutte le nuove generazioni che si stanno svegliando e che desiderano davvero assumersi le proprie responsabilità. Non è ancora possibile capire se tutto questo potrà bastare, se questa generale presa di coscienza individuale darà la spinta per un nuovo inizio, oppure, se diventerà un qualsiasi altro strumento del sistema stesso.
L’attivista punta il dito contro i potenti del mondo, ma non basta fermarsi qui, la colpa va ricercata anche nel modo in cui la specie si organizza: il sistema capitalistico. Solitamente, quando si parla di crisi climatica, si evoca anche il termine Antropocene per riferirsi all’era nella quale l’attività antropica è la causa diretta dei fenomeni di cambiamento ambientale. In questo modo, è l’umanità tutta a dover prendere coscienza della sostanziale responsabilità derivante dal proprio potere tecnologico e porsi, di conseguenza, a guardia della Terra. Così, la totale responsabilità è nelle mani dell’uomo nonostante non sia l’umanità in quanto tale a essere colpevole del disastro ambientale, ma il modo in cui la specie si organizza e le mascherate dinamiche di potere. L’Antropocene decontestualizza sia l’uomo che la Terra, li astrae dal sistema nel quale sono immessi e li fa comunicare direttamente, escludendo le relazioni di classe e di potere.
La falla di questo concetto si palesa nella negazione della disuguaglianza e della violenza multi-specie del capitalismo, dal momento che nega la dimensione geo-storica del cambiamento climatico e ignora quanto questo sia il risultato di un sistema di accumulazione basato su una struttura globale di rapporti di potere, razzista e sessista fin dalla sua origine. In tal modo le colpe del sistema capitalistico si riversano sull’uomo.
Quindi, come suggerisce lo storico dell’ambiente Jason Moore, si dovrebbe parlare di Capitalocene per descrivere al meglio la situazione presente. Infatti, il cambiamento climatico non è il risultato dell’azione umana in astratto bensì la conseguenza più evidente di secoli di dominio del capitale. Il cambiamento climatico è capitalogenico, e non antropogenico. Il Capitalocene funziona, quindi è utile, se smaschera la retorica capitalistica di Antropocene, un sistema che di per sé non cerca il benessere sociale, figuriamoci se ci prova con quello ambientale. Il Capitalocene si mostra utile per osservare le problematiche che con la prospettiva antropogenica rimangono irrisolte, proprio perché astratta dal sistema e manchevole di quella dimensione storica nella quale è invece immessa. Quindi, l’Antropocene è una categoria insufficiente a spiegare la presente crisi ecologica perchè allontana il pensiero e l’uomo dai rapporti storici che hanno portato – e stanno portando – il pianeta al baratro. Così, il Capitalocene è un tentativo di pensare la crisi ecologica nel suo insieme, ovvero come una crisi ambientale, sociale e politica.
La recente attenzione portata all’emergenza climatica ha smascherato il gioco del capitale che, da sempre, era visto come un produttore infinito di benessere globale. In più sono emerse da una parte, la sua crescita infinita che nasconde lo sfruttamento del lavoratore e della Terra; dall’altra, le disuguaglianze sociali, insite al suo interno. Pertanto, alla luce dei fenomeni di devastazione climatica che stiamo vivendo – dall’acqua alta a Venezia nel 2020 prima dello scoppio della pandemia, ai mesi di siccità in Veneto e alle alluvioni in Emilia – si devono sollevare questi interrogativi e contraddizioni a chi queste lotte le fa e, agendo, viene anche indagato per associazione a delinquere. Questo è il caso dei dodici attivisti di Ultima generazione – il gruppo di disobbedienza civile nonviolenta che lotta sul fronte della crisi climatica ed ecologica – che attraverso blocchi stradali e monumenti imbrattati chiedono al governo di smettere di investire in combustibili fossili. L’urgenza è di darsi totalmente alla causa ambientale perchè il problema è troppo ingente e importante, anche se ciò che si ottiene è di essere indagati.
La consapevolezza da avere nella lotta per il clima è che si debba elaborare un piano di azione su scala globale che dia priorità non solo alla questione ambientale, ma a tutte le disuguaglianze sociali ed economiche che sembrano essere passate in secondo piano. Proprio per questo, è necessario che si articoli una prospettiva che tenga conto della dimensione politica, senza la quale si vede solo metà faccia del problema ambientale: ovvero il suo aspetto prettamente scientifico. In questo modo, l’emergenza climatica è da ripensare come problema politico così da rendere evidente che è causata da un sistema specifico di oppressione su tutti i fronti, il gioco del capitale.
Se la lotta per la crisi climatica diventa elitaria, assumendo quasi le fattezze di un privilegio di classe, allora si può dire: salviamo il pianeta sì, ma solo chi può permetterselo.