La diffusione del lupo in Italia, i conflitti con gli allevatori e le novità al vaglio in Europa.
di Leonardo Mezzalira e Livia Pinzoni
«Non è l’uomo che si deve adeguare alla presenza del lupo, ma è il lupo che deve imparare a convivere con l’uomo». In che senso? Se non altro per la violenta semplificazione, potrebbe sembrare un discorso da bar. Invece l’ha detto la presidente della Commissione europea in persona, Ursula von der Leyen, in un video trasmesso durante il congresso del Südtiroler Volkspartei tenutosi a Merano lo scorso sabato 4 maggio 2024.
Della convivenza tra esseri umani e grandi carnivori – da noi principalmente orso e lupo – si parla spesso e da molti anni: per quanto riguarda il caso dell’orso ce ne siamo occupati di recente in un altro articolo. A proposito del lupo e della gestione dei suoi conflitti con la popolazione umana, però, negli ultimi mesi si stanno profilando alcune novità, ed è in questo contesto che si inserisce l’intervento di von der Leyen davanti ai rappresentanti del partito altoatesino recentemente alleatosi con Fratelli d’Italia.
Storicamente presente sulla nostra penisola, cinquant’anni fa il lupo sopravviveva in poche centinaia di esemplari appartenenti alla sottospecie Canis lupus italicus, relegati in ristrette zone dell’appennino centrale. Tra le cause della sua riduzione, culminata all’inizio degli anni Settanta, la caccia (che beneficiava anche di incentivi economici) e lo scarseggiare di prede a causa della frammentazione degli habitat naturali in una montagna all’epoca più densamente popolata. A partire dagli anni Settanta, invece, la popolazione del carnivoro è tornata ad aumentare a seguito del divieto della caccia e al progressivo abbandono delle aree montane, che ha portato alla ricolonizzazione di molte zone da parte del bosco e degli ungulati selvatici come i cinghiali, principali prede del lupo. Attualmente è diffuso sia sugli Appennini che sulle Alpi, e proprio in Veneto qualche anno fa l’areale della sottospecie italiana – che ricolonizzava la catena montuosa da ovest – è arrivato a toccare quello del lupo comune in espansione dalla Slovenia: è del 2012 la notizia della nascita del primo branco misto, formato da Slavc, un lupo dinarico, e Giulietta, una lupa della sottospecie italica insediatisi sui monti della Lessinia.
Parallelamente alla ricolonizzazione del territorio italiano da parte del lupo, come prevedibile, sono aumentate le tensioni sociali e politiche, dovute soprattutto ai danni che il lupo può causare agli animali da allevamento. Un fenomeno così diffuso che ha dato origine a specifiche organizzazioni antilupo e anche alla diffusione di fake news, come quella secondo cui la specie sarebbe stata reintrodotta artificialmente in Italia (non è mai successo, a differenza di quanto avvenuto per l’orso). Sono nate perfino teorie del complotto come quella portata avanti sul sito ruralpini.it, secondo cui esisterebbe una lobby internazionale «lupista» responsabile di «lanci» illegali di lupi in varie parti d’Europa e della manipolazione dell’opinione pubblica nei confronti di questo e altri predatori, con l’obiettivo di sfruttare le risorse naturali di quei territori aggirando le richieste (e le spese) delle comunità locali.
Prescindendo da queste ipotesi fantasiose, il dibattito in atto tra popolazione, gruppi di interesse, politici e enti gestori – prima di tutto l’ISPRA, Istituto nazionale per la protezione e la ricerca ambientale, cui è demandata la gestione delle specie protette – si concentra principalmente sulla possibilità o meno di ricorrere ad abbattimenti più o meno estesi per contenere la popolazione di lupo e ridurre i danni. A livello legale, però, al momento è difficile attuare piani di abbattimento su larga scala: il lupo risulta «rigorosamente protetto» sia per la storica Convenzione di Berna (1979), sia soprattutto per la Direttiva habitat (43/92) che è il principale riferimento europeo per la gestione delle aree e delle specie protette. Ciò significa che l’uccisione di un lupo è severamente vietata, salvo specifiche deroghe valutate caso per caso direttamente dal Ministero dell’ambiente.
A giudicare dalle ultime notizie, l’ISPRA si sta muovendo nella direzione di utilizzare di più la possibilità di simili deroghe per effettuare un controllo mirato del predatore. Ma negli ultimi mesi si sta facendo strada una novità più rilevante, di cui si è iniziato a discutere lo scorso autunno in seno agli organi dell’Unione Europea. Si tratterebbe di «declassare» lo stato di protezione del lupo inserendo la specie tra quelle di cui è permesso il prelievo venatorio, sia pur entro certi limiti che ne garantiscano la conservazione. Per farlo è necessario modificare sia la Convenzione di Berna che la Direttiva Habitat, il che richiede un iter piuttosto lungo in sede comunitaria, ma una volta approvate le nuove norme ogni Paese potrebbe stabilire una quota di abbattimenti consentita e quindi potenzialmente un «tetto» alla presenza di lupi sul proprio territorio.
Per analizzare la proposta, partiamo da alcuni punti fermi. La dieta del lupo è composta principalmente da ungulati selvatici come cinghiale, cervo e camoscio. Da questo punto di vista il lupo svolge un ruolo ecologico importantissimo, che prima della sua nuova espansione era rimasto praticamente vacante. A seguito dell’abbandono delle zone montane, da decenni le prede del lupo sono in forte espansione tanto da rappresentare, in alcune zone, un grave fattore di disturbo sia dei sistemi naturali sia delle attività dell’uomo: per la nostra regione basta pensare al cinghiale sui colli Euganei o al cervo nella foresta del Cansiglio, entrambe popolazioni di cui si sono resi necessari costosi interventi di controllo. Oltre al ruolo ecologico il lupo, come l’orso, svolge il ruolo di «specie bandiera», per non citare la sua importanza nell’immaginario collettivo.
Una volta che la specie si è reinsediata in un territorio, anche in assenza di misure di controllo il numero di lupi non aumenta esponenzialmente: in costanza di prede tende a raggiungere un suo punto di equilibrio, anche grazie al meccanismo della territorialità. Il lupo, a differenza dell’orso, è una specie organizzata in branchi ciascuno dei quali controlla un territorio ben preciso. Questo significa che una volta che un branco si è insediato in un territorio la popolazione, a livello locale, si stabilizza. La popolazione si può espandere solo per colonizzazione di nuovi territori dove siano presenti habitat favorevoli e prede.
La pericolosità del lupo è legata quasi esclusivamente ai danni che causa all’allevamento. L’uomo non è una preda del lupo, che anzi tende a evitare ogni incontro con noi, ma in assenza di adeguate protezioni il predatore si può cibare di animali d’allevamento, di resti alimentari e di carcasse. Le protezioni più efficaci contro i danni da lupo sono i cani da guardiania, le recinzioni (anche elettrificate) e la presenza del pastore nelle vicinanze: misure tradizionali, senz’altro costose e impegnative in termini di organizzazione. A queste si aggiungono, in ordine sparso, dissuasori acustici, barriere di altro tipo, e naturalmente l’indennizzo dei danni da parte dello stato.
Proprio su una più sistematica applicazione delle misure di prevenzione dei danni puntano le organizzazioni contrarie al «declassamento» del lupo, tra cui si contano associazioni dedite specificamente alla ricerca e alla protezione della specie (come Io non ho paura del lupo) e associazioni ambientaliste come WWF, Legambiente e LAV. Nei loro comunicati, queste associazioni sottolineano da un lato che non ci sono dati scientifici a supporto del fatto che un maggior numero di abbattimenti sia destinato a ridurre la pressione del lupo sulle attività economiche, a meno che naturalmente non si tratti dell’uccisione generalizzata di interi branchi, incompatibile con il ruolo ecologico del lupo; dall’altro esprimono la preoccupazione che il calo del livello di protezione possa riportare in vigore una concezione del lupo come specie nociva, modificando l’indirizzo dell’attuale opinione pubblica (che anche nelle aree rurali attualmente è favorevole ad una protezione rigorosa) e incoraggiando il già fiorente fenomeno del bracconaggio.
Nei testi delle associazioni si legge inoltre che l’endorsement dato da von der Leyen al «declassamento» potrebbe essere una scelta elettorale in vista delle prossime elezioni europee, dettata dalla volontà di «strumentalizzare il lupo come capro espiatorio dei problemi socio-economici delle comunità rurali e del settore zootecnico» (Isabella Pratesi, WWF). Di certo scientificamente infondata e opportunista è la dichiarazione del nostro ministro Lollobrigida, secondo cui il cambiamento dello status di protezione del lupo «è auspicabile e doveroso per garantire la sopravvivenza di altre specie messe a rischio dalla eccessiva proliferazione di questo animale». Viene da chiedersi quali siano queste altre specie in estinzione: forse le pecore, che in Italia sono oltre sei milioni a fronte di una popolazione di forse 3500 lupi?
Non molto tempo fa ha fatto notizia uno studio che ha quantificato la biomassa relativa dei mammiferi sulla Terra. Della quantità totale, il 62% è composto da animali da allevamento; il 34% da esseri umani e il 4% da animali selvatici. Ammesso che, come afferma Coldiretti, vadano tutelati i «tanti giovani che faticosamente sono tornati per ripristinare la biodiversità perduta con il recupero delle storiche razze italiane di mucche, capre e pecore», sul piano ecologico globale scrivere che una volta salvato il lupo «ora bisogna salvare le migliaia di pecore e capre sbranate, mucche sgozzate e asinelli uccisi lungo tutta la Penisola» è decisamente fuorviante. In definitiva, resta da chiedersi a chi dovrebbe giovare un «declassamento» del lupo. Non certo alla specie stessa, né alle comunità rurali, né tantomeno ai delicati equilibri ecologici di ecosistemi che risentono, in primis, della spesso sconsiderata presenza umana. Se è vero che la presenza del lupo si è dimostrata dannosa per determinate attività economiche, è anche vero che abbiamo in mano numerosi strumenti, diversi da una caccia su larga scala, per mitigare tali danni. E che l’attuale normativa contempla già tutte le misure necessarie per la gestione del lupo e delle tensioni sociali che possono sorgere, anche senza ricorrere a cambi di rotta affrettati. È certo che a guidare questo tipo di gestione può essere solo la consapevolezza che siamo noi a dover «imparare a convivere» con questa specie. Sperare in un adattamento contrario, pena l’abbattimento, rischia solo di intensificare le tensioni e minare ulteriormente gli equilibri ecosistemici.