di Leonardo Mezzalira
La mattina dello scorso giovedì 6 aprile Andrea Papi, un giovane di 26 anni che praticava la corsa in montagna, è stato trovato senza vita nei boschi di Caldes, in Trentino. Le indagini hanno rilevato che nella sua morte è stata coinvolta un’orsa, nome in codice Jj4, già segnalata in precedenza per alcuni comportamenti aggressivi. Da quando l’orso è stato reintrodotto nella zona è la prima volta che uno scontro con un plantigrado ha come esito la morte di una persona. Il presidente della provincia di Trento, Maurizio Fugatti, non si è limitato a firmare un’ordinanza per l’abbattimento dell’orsa: ha ripetutamente affermato che la popolazione di orsi in Trentino (circa 120 animali) è assolutamente eccessiva, e che è necessario «abbattere o trasferire» almeno 70 esemplari.
Facciamo un passo indietro. Che ci fanno 120 orsi in Trentino? Alla fine del Novecento, nella regione, l’orso era prossimo all’estinzione, proprio a causa dei conflitti con l’uomo. È stato reintrodotto a partire dalla zona delle dolomiti di Brenta tra il 1999 e il 2002 con il rilascio di dieci esemplari sloveni; il progetto, finanziato con fondi europei, si chiamava Life Ursus e ha previsto un ampio piano di informazione e condivisione con la popolazione, che da parte sua era favorevole con percentuali intorno al 70-80% al ritorno della specie sul territorio.
In seguito, almeno nella percezione pubblica, le cose sono cambiate. Dai dieci orsi iniziali la popolazione si è ingrandita, come auspicato dal progetto, e ha raggiunto la dimensione «stabile e vitale» di 40-50 esemplari. E poi l’ha superata, complice il fatto che ha un ritmo di dispersione piuttosto lento. Allo stesso tempo hanno iniziato a manifestarsi una serie di contrarietà della popolazione, basate soprattutto sui danni che gli orsi provocano all’allevamento, all’agricoltura, all’apicoltura. E su alcuni contatti ravvicinati: si ricorda in particolare il caso dell’orsa Daniza, che nel 2015 ha diviso l’opinione pubblica perché – «condannata» per aver ferito un cercatore di funghi – è morta in seguito alla sedazione in fase di cattura. Fino all’episodio di Andrea Papi, che rappresenta un precedente ancora inesplorato.
Nei giorni successivi alla morte del giovane il TAR di Trento, accogliendo un ricorso della LAV (Lega Anti Vivisezione), ha sospeso l’ordinanza di abbattimento, lasciando in vigore solo l’ordine di captivazione. L’orsa Jj4 è stata catturata la sera del 18 aprile e portata al centro faunistico Casteller, dove risulta ora, in un certo senso, detenuta in attesa di processo: la prossima udienza al TAR è fissata per il prossimo 11 maggio. Se la faccenda non fosse così seria verrebbe voglia di ricordare il «processo» andato in scena nel 2014 a Canove di Roana, che sulla scorta di una tradizione medievale contestava all’orso Genè il reato di aver ucciso una trentina di animali d’allevamento – garantendogli però il diritto a una voce e a un avvocato difensore: un processo-show gremito di spettatori, documentato anche da un film, che si è concluso con un’assoluzione in grande stile.
La storia dei processi agli orsi, anche se non può costituire un modello da seguire, ci aiuta però a mettere a fuoco un semplice fatto: nella realtà con questi grandi animali non possiamo ragionare. Non possiamo far leva sul loro senso di responsabilità. Possiamo pensare di porci in competizione con loro, come abbiamo fatto per millenni: una strada che, in un territorio densamente antropizzato, conduce alla loro estinzione locale, proprio com’era successo prima del progetto Life. Possiamo pensare di rendere impossibile ogni contatto, cercando di confinarli in aree da cui non possano uscire e in cui gli umani non possano entrare. Possiamo, al contrario, considerare «sacra» la libertà dell’orso e lasciare il territorio a sua disposizione, accettando i rischi per le attività economiche e la possibilità che (sia pure molto raramente) sia messa a repentaglio l’incolumità delle persone. Possiamo, infine, integrarlo nell’ambiente – il nostro ambiente, dal momento che dalle nostre parti non esistono zone immuni dall’influenza umana – gestendo la loro presenza, sulla base di criteri posti – unilateralmente – da noi.
La prima strada, quella degli abbattimenti generalizzati, in Trentino ormai non risulta più praticabile. L’orso è protetto da numerose normative nazionali e internazionali (“particolarmente protetto” dalla legge quadro faunistico-venatoria 157/92, “strettamente protetto” dalla Convenzione di Berna, soggetto a “protezione rigorosa” per la Direttiva Habitat), e ogni singolo abbattimento richiede una specifica deroga da Roma. Le proposte di Fugatti non reggeranno molto. Soprattutto, poi, la sua presenza sul territorio è desiderabile perché ha un elevato valore ecologico e culturale. Da un lato contribuisce al mantenimento della funzionalità degli ecosistemi naturali: l’orso infatti è una «specie ombrello», richiede ampi spazi e un ambiente diversificato e per questo motivo proteggendo lui si proteggono automaticamente ampie aree di territorio e si salvaguardano le esigenze ecologiche di moltissime altre specie. Dall’altro è una specie identitaria o «specie bandiera»: lo stesso simbolo del Parco Nazionale Adamello Brenta, quello dov’è stata fatta la reintroduzione, contiene un orso, e così i loghi di moltissimi altri enti, aziende, istituzioni trentine. A dire il vero si tratta di una costante nel caso dei «grandi predatori», specie apicali nella catena alimentare: non si contano gli stemmi, le bandiere e i loghi che li utilizzano, dall’orso bruno al panda, al leone, all’aquila, al falco, alla tigre… sono i nostri archetipi, tra le specie animali più necessarie al nostro immaginario.
Anche l’isolamento geografico non è una vera opzione, e per validi motivi. L’orso ha bisogno di moltissimo spazio. La porzione di territorio di cui ha bisogno un singolo animale per le sue attività di ricerca di cibo, di aree idonee per l’ibernazione invernale e per le attività di riproduzione può arrivare a centinaia di chilometri quadrati. Anche ammessa la possibilità di individuare una simile area priva di insediamenti (e di ottenere i fondi necessari), isolare, ad esempio con una rete elettrificata, una zona così ampia provoca inevitabilmente effetti inaccettabili sulla mobilità delle altre specie. Si andrebbe a violare uno dei principi fondamentali per la conservazione dell’ambiente e della biodiversità: quello del mantenimento o del ripristino della «rete ecologica», ossia dell’insieme di corridoi e di internodi che favorisce – nel complesso – la funzionalità dei processi ecologici anche in un territorio tutto fortemente «interrotto» da attività umane.
Per quanto possa sembrare a molti la strada migliore, anche lasciare all’orso completa libertà non è veramente praticabile. Obbligare dall’alto una popolazione umana alla convivenza non gestita con una specie selvatica che danneggia le attività economiche, e da cui le persone si sentono fisicamente minacciate, è una strada sicura verso l’aumento delle tensioni sociali; e si traduce quasi automaticamente in un aumento del bracconaggio (e della connivenza con i bracconieri). L’uccisione illegale di specie protette, ma percepite come dannose o pericolose, è un fatto particolarmente evidente se si considera il caso del lupo, e basta una semplice ricerca per rendersene conto: ogni anno in Italia decine o centinaia di lupi vengono uccisi da bracconieri, e non certo per divertimento o per mangiarne la carne. È, sostanzialmente, perché uccidono le pecore. Fatta la scelta – politica – di proteggere la specie, una tutela indiscriminata rischia però di essere molto più dannosa, per la specie che si vuole proteggere, di una gestione che punti a mitigare il conflitto con la popolazione umana.
Un piano di gestione della presenza dell’orso nelle Alpi orientali c’è, è stato redatto contestualmente alla reintroduzione ed è fatto abbastanza bene. Si basa naturalmente in primis sul monitoraggio, poi sulla gestione dei danni alle attività di allevamento, agricoltura e apicoltura, con misure di dissuasione e di difesa delle attività economiche dai possibili danni (in ultima anche con lo strumento dell’indennizzo ex post). Per quanto riguarda l’incolumità delle persone, il discorso è diverso e arriva fino alla possibilità dell’abbattimento dei singoli orsi «problematici». L’uomo non è una preda dell’orso, anzi l’orso è molto schivo e tende ad evitare ogni contatto con noi, ma alcuni esemplari (una minoranza) sono più confidenti di altri; e quando ci si trova vicino a loro si può creare una delle circostanze (percezione di pericolo della prole, mancanza di vie di fuga, timore di attacco da parte dell’uomo) che portano l’orso a poter ferire. Nelle zone del mondo in cui l’uomo convive con i grandi carnivori la gestione riguarda proprio questi individui particolarmente confidenti; su questi si concentrano i provvedimenti di captivazione o eventuale abbattimento. Provvedimenti che quindi, alla luce del ragionamento fatto, non devono essere considerati tabù.
Come segnalato da varie parti ci saranno state sicuramente delle difficoltà, ad esempio in termini di fondi, nella piena applicazione di questo piano. Però, a giudicare dalla polarizzazione ed estremizzazione del dibattito pubblico, a rendere problematica la gestione deve aver contribuito anche un altro fattore. Ed è il fatto che, come esseri umani, non abbiamo ancora ben chiaro – collettivamente – il nostro ruolo negli ecosistemi naturali. Ad oggi siamo noi il principale fattore ecologico; sta a noi, con un processo politico, attribuire o meno diritti alle altre specie, dal momento che queste non riescono a difendersi davvero nel «processo all’orso». Ed è sull’attribuzione o meno di questi diritti che si gioca la vera battaglia politica.
Di fronte a noi c’è, di nuovo, una scelta. Possiamo decidere di schivare del tutto la questione dei diritti delle altre specie, e dei complessi viventi di categoria superiore, come gli ecosistemi. Alla fine i diritti sono qualcosa che ci si conquista – no? – e queste entità oggi non sono in grado di conquistarseli. Quindi possiamo prendere in considerazione solo le nostre necessità, valutate per esempio da un punto di vista economico. Nella reintroduzione degli orsi in Trentino, questo elemento sarà sicuramente stato preso in considerazione: quanto porta l’orso in termini di turismo? Quanto giova al brand «Trentino» la presenza di veri orsi, vivi e selvatici, potenzialmente pericolosi (ma, salvo incontri ravvicinati, tutto sommato dolci e carini) nella regione? Questo guadagno è superiore o inferiore ai danni economici, alla stima economica dei disagi per la popolazione che la loro presenza può provocare?
Oppure possiamo decidere di attribuire dei diritti di esistenza alle altre specie, a prescindere dal nostro tornaconto materiale. In questo caso staremmo riconoscendo all’orso dei diritti d’uso su un territorio dal quale l’abbiamo estromesso, e che contemporaneamente abbiamo modificato radicalmente fino a renderlo solo in parte compatibile con la sua presenza. Questa linea di pensiero porta anche, probabilmente, a conclusioni del tipo di quelle proposte, provocatoriamente, dallo zoologo Luigi Boitani, secondo cui «coesistenza implica anche il controllo numerico di qualche specie, a cominciare dall’uomo. Non dimentichiamo che, a fronte di 100 orsi, l’Italia ha 60 milioni di dannosissimi umani: prevenire la loro prolificazione sarebbe un passo utile verso la coesistenza».
È chiaro che nella valutazione devono entrare anche altri aspetti, come la considerazione di quanto vale per noi culturalmente la presenza dell’orso sui nostri territori – una specie che non vogliamo incontrare, ma che permea così radicalmente il nostro immaginario –; di quanto può valere dal punto di vista ecologico, ovvero per la stabilità dell’ambiente in cui viviamo; di quanto è necessario, per noi, considerare «sicuro» ogni angolo del nostro territorio – in altri termini, di quanto vogliamo continuare ad esserne gli unici padroni. Si tratta di una valutazione politica. E nel farla dobbiamo, prima di tutto, renderci conto che inevitabilmente con la nostra potenza d’intervento abbiamo fatto della «natura» il nostro giardino. E se vogliamo che questo sopravviva, dobbiamo essere dei bravi giardinieri, e prendercene cura.
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