di Cecilia Beretta
Tante donne si avvicendano all’ombra della montagna, figure emblematiche ma mai didascaliche delle stagioni della vita. Sentiamo il trascorrere del tempo tra le dita, vediamo il riflesso del suo passaggio nei prati, nelle feste, nelle foglie che cadono e nella neve che si scioglie, nei bambini che nascono e in quelli che muoiono.
Inverno, primavera, estate, autunno e ancora inverno.
Maura Delpero, dopo il grande apprezzamento della critica internazionale per il suo esordio, Maternal, diventa inaspettatamente la regista italiana candidata agli Oscar 2025, con un film in dialetto solandro, dai ritmi lenti, ricercato e (molto) poco rassicurante.
Nella famiglia Graziadei ci sono due genitori, un padre maestro elementare e una madre che ha partorito nove figli, due dei quali morti piccoli di malattia. Gli altri, come constatiamo dalla prima inquadratura, si mettono in fila ogni mattina davanti ad un pentolone per ricevere una tazza di latte fumante. Il film ondeggia tra rigore e licenza, armonia dolorosa e luminosa leggerezza grazie ai buffi bambini, magistralmente diretti, che lo popolano e ci regalano sprazzi comici, quasi a commento della vita del paese, ricostruita tanto bene da farci sentire parte di essa.
Le donne di Vermiglio incarnano quattro differenti stadi della vita, Flavia, o la fine dell’infanzia, Ada che interpreta invece l’adolescenza e la scoperta della sessualità, Lucia la maturità e la volontà di amare, la madre Adele la vecchiaia e l’eterno materno. Il film può anche essere letto come un’interrogazione sul diventare donne in un luogo in cui anche il ruolo delle donne inizia a non essere più lo stesso, in primis grazie all’accesso all’istruzione.
Se vi aspettate la visione di un film documentaristico sulle belle tradizioni rurali della montagna, vi sbagliate. La guerra sta finendo ma non è ancora finita, i figli non ci sono, quelli che sono tornati sono inadeguati al loro ruolo e inservibili agli occhi delle donne. I vecchi, anche i vecchi illuminati, sono duri e sordi, mentre i giovani che hanno fatto ritorno, dilaniati dalla guerra, hanno guadagnato una maggiore sensibilità, ma sono diventati muti e freddi.
Che comunità si può costruire su queste macerie?
All’interno della pellicola non troviamo nessun inno al pauperismo, nessuna nostalgia nei confronti del caro passato e nessun vagheggiamento nei confronti del futuro. Eppure, non viene espresso nessun giudizio, la macchina da presa di Delpero diventa discreta spettatrice di questo processo, lo osserva e ce lo offre con delicatezza, ma senza sconti.
L’educazione, da potenziale collante portatore di progresso, si trasforma in un muro che divide uomini e donne, mariti e mogli, fratelli e sorelle della stessa famiglia. La cultura è un vezzo che toglie il pane di bocca, come quando il padre della famiglia Graziadei, cerca di far apprezzare un vinile, “roba fina”, appena arrivato da Milano alla moglie, contadina costantemente gravida, che lo guarda con occhi spenti e lo richiama ai sacrifici che è costretta a fare per dare da mangiare ai figli. La risposta del padre e il suo fare riferimento ad un altro tipo di nutrimento per l’anima, suonano quasi come una presa in giro.
Adele Graziadei è stata madre nove volte e sembra essere stata prosciugata da questa sua funzione generatrice, l’unica a cui poteva e doveva avere accesso all’interno della famiglia.
La maternità non sembra dare senso alla sua esistenza ma viene vissuta come una coazione a ripetere, frutto mai di una scelta, ma costante e inevitabile conseguenza della vita coniugale.
In questo contesto si inserisce un elemento alieno, Pietro, disertore siciliano che ha salvato la vita al cugino di Lucia, portandolo in spalla fino al suo villaggio, Vermiglio. Parla poco e il suo sguardo è vacuo, ma Lucia, dopo essere rimasta incinta, decide che sarà suo marito e lui, sposo triste, si lascia scegliere. La madre scoprirà la gravidanza mentre le aggiusta l’abito in vista della cerimonia e custodirà il segreto, fortificando il filo rosso di complicità che lega il ramo femminile della famiglia.
La vocazione religiosa, sentita, sofferta, viene rappresentata in maniera ironica e tragica al contempo attraverso le tribolazioni dell’adolescente Ada, che inizia a imporsi penitenze sempre più umilianti dopo l’incontro con un libro licenzioso e la conturbante Virginia, ragazza libera e ribelle che va in bicicletta sul ghiaccio, balla con gli uomini, fuma le sigarette e purtroppo si trasferirà in Sud America.
Ada troverà nella vita religiosa l’unica via di fuga all’esistenza che la sua condizione sociale aveva in serbo per lei. Infatti, in quanto meno dotata agli occhi del padre, non avrebbe avuto accesso ad un grado di educazione più alto che la figlia minore, che vedremo diventare donna nel corso del film, aveva invece saputo meritare.
Ma anche nella scelta religiosa possiamo individuare i semi del crollo del mondo granitico che i genitori speravano di consegnare ai loro figli. Ada si fa suora ma invece di esserci mostrata in preghiera, la vediamo fumare di nascosto alla finestra. Delpero ci dona così uno scorcio, uno spazio di libertà e l’ennesima sfumatura che definisce ulteriormente la psicologia di questo personaggio, tratteggiato finemente come ognuno dei protagonisti.
L’autrice fornisce, con uno sguardo sempre carezzevole nei confronti dei suoi personaggi, molti dei quali attori non professionisti, differenti prospettive sul tema della maternità, sulla quale si era già interrogata ampiamente nel suo esordio, nel personaggio di Lucia. Infatti, Lucia, incinta prima del matrimonio, si troverà impossibilitata ad amare incondizionatamente il bambino che ha partorito, sottraendosi al ruolo che per lei era stato scritto e nel quale era stata felice di calarsi, in seguito ad una tragedia che minerà la sua fiducia nei rapporti e nell’amore, anche l’amore apparentemente più scontato come quello di una madre nei confronti del figlio.
Se ci sarà un mutamento e una riconciliazione di Lucia con il suo ruolo di madre e nel rapporto con il neonato, non cambierà l’esito, la madre e il figlio saranno comunque separati, Lucia andrà a lavorare in città spezzando un modo di vita che le era stato tramandato e che sentiva come proprio, ma non c’è luce in questo saluto al nuovo.
Il nuovo è possibile solo come trauma? La regista non ci fornisce una risposta ma ci racconta che i figli delle montagne vengono partoriti con dolore, nelle lacrime, con estenuazione e i padri non sono in grado di portare in dono neanche un mazzo di fiori colti in giardino, né di accettare che qualcosa di diverso possa accadere. I bambini con naturalezza muoiono e i bambini vivi lasciano i loro pochi giocattoli adagiati sulle loro tombe, ma senza alcun sensazionalismo, con naturalezza perché la morte è fredda come il gelo della Val di Sole, né più, né meno e ognuno, soprattutto in guerra, la conosce molto bene.
Il piccolo mondo moderno di Vermiglio, antico e perfetto nella ricostruzione eppure vicino ai noi più di quanto saremmo disposti ad ammettere, sta dolorosamente cancellando le tracce del suo passato, in un lento girotondo, lento come una lettera che tarda ad arrivare, di carne, penitenza, vita, morte, nascite, preghiere che non consolano, bambini che dividono i letti, lacrime silenziose e pianti lancinanti per il racconto di un microcosmo che solo le sovvenzioni statali alla produzione hanno permesso di venire alla luce.
Fa sorridere amaramente che l’ormai ex ministro della cultura Sangiuliano abbia rivendicato nella sua lettera di dimissioni gli imponenti tagli ai finanziamenti per il cinema, dopo che la stessa regista altoatesina durante la premiazione per il Leone d’Argento e ora portabandiera tricolore agli Oscar, abbia sottolineato l’importanza dei contributi pubblici per pellicole indipendenti come la sua, fortemente debitrice alle sovvenzioni ministeriali.
Vermiglio è un paese della Val di Sole di cui era originario il padre della regista, ora venuto a mancare. Forse il film è un modo di fare i conti anche con le radici recise dei nostri segreti passati, rosse vive, vermiglie e pulsanti da cui non siamo in grado di separarci. Ci auguriamo che film del genere possano continuare a essere girati, prodotti e candidati, nonostante gli impedimenti che si presenteranno sul loro cammino.
Vermiglio è il materno e le sue donne sono già nel futuro