Di Emanuele Caon e Jacopo De Rosa
Quando ci si interroga sulle condizioni di vita in carcere si finisce con l’imbattersi nel tema del suicidio. Abbiamo deciso di parlarne con Jessica Lorenzon, psicologa e criminologa critica. Nonché attivista con l’associazione Antigone e osservatrice nazionale delle condizioni di detenzione negli istituti di pena per minori e adulti.
Ti sembra corretto sostenere che il carcere in quanto tale infligge dolore?
La detenzione in carcere ha una componente afflittiva e quindi di sofferenza già prevista nell’idea stessa di pena. La pena infatti ha tre funzioni principali: quella retributiva, quindi afflittiva nel senso di pena commisurata al danno sociale che l’agente (persona o gruppo) ha provocato; ha poi una funzione di prevenzione generale; e per finire di prevenzione speciale. Per prevenzione generale si intende che la pena con il suo carattere afflittivo e disturbante dovrebbe invitare la società a non commettere reati. La prevenzione speciale fa invece riferimento al fatto che la punizione dovrebbe convincere la persona a non commettere più l’atto deviante per cui è in carcere, proprio perché teme di ricevere una nuova punizione. Quindi è chiaro che la detenzione in sé provoca sofferenza psicologica, sociale, ma anche fisica, perché i corpi non sono abituati e stare in gabbia e in situazioni di buio e umidità prolungate. Ci sono proprio tutta una serie di malattie e c.d. “sindromi da carcere” che troviamo nella letteratura di settore.
Ma funziona?
Da decenni la ricerca ha confermato la non efficacia del carcere in termini di prevenzione, basta vedere i dati sui numeri delle persone detenute che hanno avuto più di una precedente condanna. Oggi si discute molto sulla “risocializzazione”, spesso citando l’art. 27 della Costituzione, ma una volta finita la pena questa risocializzazione molto spesso non avviene: chi finisce in carcere fatica a reinserirsi veramente in società. Tornando alla dimensione del dolore. La pena afflittiva è a profusione, non impatta quindi solo sui detenuti, ma anche sugli operatori e sui familiari. Ho lavorato sulle lettere di detenuti e parenti legate all’attuale tema del “rischio suicidario”, da queste lettere si vede chiaramente che spesso capita anche ai parenti stessi delle persone detenute di pensare al suicidio. Aggiungiamo che la dimensione afflittiva ha un impatto anche sugli operatori, non a caso il tasso di suicidio è alto anche tra la polizia penitenziaria rispetto alla società civile nel suo complesso.
Quindi possiamo interpretare il suicidio in carcere come l’apice di una sofferenza diffusa?
Il suicidio è un fenomeno complesso che purtroppo spesso si interseca con la dimensione della detenzione, il fenomeno è strutturale anche se spesso viene definito emergenziale. I due elementi (strutturale ed emergenziale) non sono per forza in contrapposizione. Il 2022, con 85 suicidi, ha segnato il record di suicidi negli ultimi trent’anni; probabilmente il 2024 supererà quel record, quindi siamo in un momento emergenziale all’interno di un fenomeno strutturale. Rispetto alla strutturalità del fenomeno i dati sono chiari: in carcere ci si suicida dalle 18 alle 20 volte in più che non nel mondo esterno. In modo provocatorio, ma sorretti da dati empirici, possiamo dire che la prima causa del suicidio in carcere è proprio il carcere nella sua materialità quotidiana. Possiamo certo considerare anche variabili legate alle singole biografie come la sofferenza mentale, l’uso abituale di sostanze psicoattive e la povertà; dimensioni che sono insieme individuali e politiche e quindi nuovamente di pertinenza dello Stato.
Eppure il suicidio in carcere viene spesso recepito come l’esito tragico di una sofferenza individuale.
Sì, spesso viene recepito così. E spesso dai decisori ultimi che sono chiamati a rispondere del loro operato; rispetto al fenomeno suicidario i decisori tendono ad attribuire la responsabilità del suicidio all’individuo, patologizzandolo o facendo ricorso alla biografia del detenuto. Questa però è una strategia di disimpegno morale. Ricordo bene una dirigente di sanità penitenziaria territoriale che parlando di suicidi in carcere sosteneva che davanti alla malattia mentale non c’è nulla da fare, se non ricorrere allo psichiatra. Peccato che se si vanno a vedere i numeri non si trova nessuna correlazione tra la malattia psichiatrica e la scelta suicidaria.
Quindi è sbagliato pensare che a suicidarsi in carcere siano soprattutto persone con malattie mentali o soggette a tossicodipendenza?
Mi verrebbe da dire che se facessimo dei colloqui clinici a tutta la popolazione detenuta emergerebbe una sofferenza psicologica diffusa e generalizzata. Tra l’altro questa ipotesi è dimostrata dall’amplissimo uso di psicofarmaci, ad oggi oltre la metà delle persone detenute assume psicofarmaci, con tutta una serie di rischi. Questi poi sono spesso assunti come modalità di contenimento, non solo per trattamento medico. Noi abbiamo parlato di popolazione detenuta in generale, ma si potrebbe entrare nelle divisioni per genere, il 4.2% è donna. Oppure si potrebbe considerare la popolazione straniera che in carcere è poco oltre il 30%, ma ha tassi di suicidio molto più alti rispetto alla popolazione italiana. Qualsiasi discorso e riflessione sul tema andrebbe a mio avviso strutturato in un’ottica intersezionale.
Facciamo un esempio
Pensate agli stranieri in carcere, se ci sono malattie psicologiche la persona straniera fatica a relazionarsi con il personale medico, non solo perché questo è carente in carcere, ma anche perché mancano i mediatori linguistici e culturali. Normale che si faccia ampiamente ricorso a psicofarmaci, pensate poi allo straniero proveniente da rotta migratoria estrema, magari senza documenti: se esce dal carcere dipendente dagli psicofarmaci, come farà poi a farseli prescrivere o a cercare una cura?
Ma allora il suicidio giunge del tutto inaspettato?
Su questo è interessante riprendere l’analisi dei dati fatta dall’ufficio dell’ex garante nazionale Mauro Parma. Dall’analisi prodotta sui dati del 2022 usciva che l’unica correlazione significativa con la scelta suicidaria fossero gli eventi critici, non malattie mentali o tossicodipendenze. L’80% delle morti per suicidio aveva uno o più eventi critici segnalati, cioè episodi di autolesionismo o eterolesionismo, tentativi di suicidio, protesta, rivolta. Questo è contro-intuitivo, cioè non si tratta di dire “ovvio allora che si sono suicidati, stavano male”. Si tratta di vedere che dietro questo dato si cela una dimensione generale, perché autolesionismo, aggressione, rivolta, etc., sono tipiche del contesto detentivo. Ma questi eventi critici vanno interpretati come tentativi di essere visti. Prima del suicidio c’è spesso un atto dimostrativo che è una richiesta di aiuto, è come se la persona dicesse “guardami, ho bisogno di essere salvato”.
Dai dati pubblicati da Antigone emergono degli aspetti che ci hanno spiazzato. La maggior parte dei suicidi riguarda persone appena entrate in carcere, addirittura in attesa del primo grado di giudizio, oppure persone che stanno per uscire dal carcere. Puoi aiutarci a capire questi dati?
I dati sull’andamento dei suicidi presentano dei picchi, come appunto le prime fasi di ingresso in carcere, addirittura le prime ore, e le ultime fasi prima della scarcerazione. Ci sono poi altri momenti in cui si registrano picchi. Durante la detenzione ci sono eventi che pongono la persona più a rischio di scelta suicidaria. Per esempio il cambiamento di posizione giuridica (peggiorativa) o quando arriva un aumento della pena. Ci sono poi le festività, non tanto e non solo perché sono un momento religioso o simbolico, ma perché sono momenti in cui c’è meno personale e quindi i detenuti sono isolati. Questi sono solo alcuni dei momenti temporali che l’esperienza ci ha insegnato essere “ad alto rischio”, e che talvolta coincidono anche con i momenti in cui in istituto viene meno la presenza di operatori e volontari.
Quindi dicembre ed agosto …
Qui c’è anche il problema del caldo che in carcere può essere insopportabile, pensate che ci sono situazioni in cui in cella non c’è nemmeno lo spazio per alzarsi dalla branda. Resta che i due momenti con i picchi più alti sono i periodi vicino all’inizio e alla fine dell’esperienza carceraria. Nel caso dell’uscita si usa il concetto gate anxiety. Sappiamo che l’uscita è vissuta come qualcosa di lungamente atteso ed emozionante, ma spesso in termini irrealistici. Ma più ci si avvicina all’uscita e più la realtà si visualizza meglio, e quindi si capisce che mancano capitali, lavoro, strumenti, vestiti. Pensa a una persona che esce dopo 20 anni di carcere, si trova in mano un telefono e non sa neanche come usarlo; in genere si realizza che il mondo è cambiato finché tu stavi in carcere. E, ancora, pensate alla sfera relazionale distrutta. Questa ansia di scarcerazione spaventa a tal punto di scegliere di togliersi la vita prima di uscire. Non è nella mia intenzione offrire formule o facili soluzioni, ogni storia è a sé e ogni scelta esistenziale va rispettata a priori, credo però che sia importante mettere in luce quelli che possono essere considerati degli elementi in comune, o strutturali.
E per chi entra?
È la stessa cosa, c’è sempre quell’ansia. La nostra società comunica un’immagine così terribile del carcere che chi ci entra ha una paura folle; personalmente non ho risposte soddisfacenti da darvi, ma credo che sia riconosciuta la traumaticità della dimensione di ingresso in carcere.
Ti lanciamo una provocazione: spesso si dice che il carcere funziona male, non è che invece funziona benissimo perché svolge esattamente il suo compito?
Non funziona rispetto al mandato formale che gli è attribuito. Possiamo interrogarci sul perché resista ancora, chiedendoci quali sono allora le funzioni informali che persegue. Di certo il carcere è uno strumento di contenimento delle fasce sociali più marginali della società. Eppure, paradossalmente, il carcere è anche l’ultimo baluardo di welfare che resiste in Italia.
In che senso?
Pensa che stranieri senza documenti accedono alle prime visite mediche in carcere. Alcuni stranieri detenuti ragionavano con me sul fatto che durante l’inverno aumentano i detenuti anche in risposta all’emergenza freddo. Questo mette in dubbio la stessa funzione deterrente del carcere. Il carcere dovrebbe essere peggio della peggior situazione sociale esterna, cioè andare in carcere non dovrebbe essere auspicabile. Ovviamente non sto dicendo che il carcere deve essere duro, ma che per alcune persone la condizione sociale è così difficile che persino il carcere diventa un’opzione. Si tratta sempre di una questione da relativizzare, il carcere del Nord Europa è migliore del nostro, ma rispetto alle condizioni sociali di quei Paesi è comunque peggiorativo. Pensate alle ondate migratorie, se ci sono persone costrette a mettere in atto scelte di sopravvivenza estreme anche il carcere diventa una possibilità. Che cosa spinge una persona a stare anni a lavorare nei campi per quattordici ore al giorno in cambio di pochi euro? Meglio lavorare sotto i caporali o spacciare un po’ di sostanze e farsi, eventualmente, qualche mese di carcere? Si tratta di scelte individuali, ma il contesto economico-sociale in cui si vive ne favorisce alcune rispetto ad altre.
Torniamo al tema suicidi. In Veneto è ospitata il 4.3% della popolazione carceraria, eppure negli ultimi anni è stata tra le prime regioni per numero di suicidi avvenuti in carcere; tra le carceri del Veneto spicca Verona. Sai spiegarcene i motivi? Ci sono situazioni particolari nelle carceri del Veneto?
Anche in questo caso non abbiamo una risposta chiara dai dati. Però possiamo fare qualche ipotesi, per esempio nei numeri del Veneto pesa tanto il dato che ci arriva dal carcere di Verona. Si tratta di un istituto in difficoltà, in una fase generale segnata dalle criticità, è tra i primi 10 carceri in Italia per affollamento, è stratificato perché ha una componente femminile relativamente ampia, una articolazione specifica per la salute mentale e un’alta popolazione di origine straniera. Si tratta poi di un carcere altamente attenzionato dalla stampa e da gruppi informali. La mia ipotesi è che le informazioni sulle morti in carceri si diffondano più facilmente quando un istituto di pena è particolarmente attenzionato, sappiamo infatti che non di rado suicidi o morti avvenute in contesti poco chiari vengono silenziate o si tenta di non renderle troppo pubbliche. Non si tratta di fare dietrologie, ma possiamo a ragion veduta ipotizzare che taluni atti suicidari o morti “sospette” vengano dichiarate come casi di overdose o non comunicate pubblicamente come nel caso, ad esempio, di chi muore in contesto ospedaliero dopo un tentativo di suicidio in cella e non appare nel conteggio delle morti in carcere.
Quindi secondo te Verona non ha delle particolarità?
Credo che sia un carcere in difficoltà all’interno di un arcipelago carcere frastagliato. E credo che maggiore attenzione verso un istituto porti a maggiore diffusione dei dati. Poi, è vero che il Veneto ha pochi detenuti rispetto ad altre regioni, ma ha anche un’alta percentuale di stranieri e noi sappiamo che tra gli stranieri la percentuale di suicidio è più alta. Nelle carceri del Veneto le persone straniere sono 1361 su 2675, mentre le detenute sono 138.