di Laura Ferro
Pochi giorni fa, 40 docenti dell’«Alvise Cornaro», Liceo Statale di Padova, si esprimono sulla recente proposta governativa in materia di istruzione, in cui viene istituita la figura del tutor. Definiscono il metodo ministeriale «umiliante e irrispettoso» e ne sottolineano la nebulosità, il disegno approssimativo.
«Vogliamo avere il tempo di studiare, correggere i nostri 40-50 pacchi di compiti, preparare le lezioni, aggiornarci»: un elenco delle fondamentali mansioni di un insegnante, con quel tipico ritmo frenetico. A chi indirizzano queste parole 32 insegnanti del Liceo Scientifico Statale «Ippolito Nievo», sempre di Padova? Evidentemente a chi quel tempo intende occuparlo con qualcos’altro, rinegoziarlo.
All’Istituto Viola Marchesini di Rovigo, un giorno dello scorso ottobre, l’insegnante di Scienze Maria Cristina Finatti viene colpita da alcuni pallini. Atterrita e spaventata, guarda la classe mentre si tocca la testa. Il fornitore della pistola ad aria compressa, il cecchino, chi riprendeva la scena e chi incitava sono promossi con voti di condotta tra l’8 e il 9.
Sono tre storie prossime, non solo geograficamente. Parlano di una scuola offesa, in tanti modi diversi. Parlano, sottotraccia, della risposta che arriva dal Ministero dell’Istruzione e del Merito. Un nome, insomma, in filigrana: Giuseppe Valditara.
Andiamo per ordine.
Una risposta che solleva domande: tutor contro l’abbandono scolastico
A provocare la reazione dei docenti è il decreto firmato dal Ministero lo scorso 5 aprile che, per ora, sembra coinvolgerà solamente l’ultimo triennio delle scuole superiori. A dire di Valditara si tratterebbe di un «percorso virtuoso di personalizzazione della didattica e dell’orientamento». Per didattica personalizzata si intende un metodo atto a valorizzare il talento di ciascun giovane. Lo scopo? Ridurre la dispersione scolastica, l’insuccesso, «vincere il profondo senso di sfiducia che spingerebbe gli studenti ad abbandonare». Destinatari di questa ventata motivazionale sarebbero i due gruppi identificati come i più critici: gli svogliati e i precoci, quelli che si annoiano a seguire il ritmo della classe.
Concretamente, la didattica si personalizza organizzando attività soprattutto extracurricolari, tenute dai docenti delle singole materie. Per l’orientamento, invece, è prevista un’integrazione della normale attività curricolare. Valditara si premura di non lasciare i docenti soli e disorientati e introduce la figura del (super) tutor. Saranno proprio i docenti tutor a controllare che le novità del Ministero trovino opportuna attuazione e a coordinare gli altri docenti. Sì, perché quella di diventare tutor è una libera scelta, con la promessa di un giusto premio economico. «Pagati bene», spot ministeriale.
È proprio così? A fare i conti, in realtà, ci si mette poco e quel «bene», a connotare il pagamento delle ore extra-lavorative, diventa una cifra: 7,34€ all’ora. Ciò che preoccupa, però, è anche l’obbligo di dare spazio all’orientamento durante l’orario curricolare, togliendolo alla didattica. La preoccupazione è che gli studenti, così, sin da giovanissimi legittimino la cultura unicamente come tramite per un contesto economico, aziendale, perché a rappresentarla in questo modo è la scuola stessa: questo sostengono i prof del Cornaro, sottolineando il ruolo orientante che, di per sé, dovrebbe già avere lo studio delle diverse materie. Infine, sempre ammesso che i tutor riescano a prepararsi nelle 20 ore previste di formazione, non è chiaro come queste figure dovrebbero interagire con i singoli docenti.
Docenti sottopagati, aziendalizzazione della scuola, confusione dei ruoli. Ma il Ministero non si ferma qui.
Una risposta che dimentica la domanda: le misure per risolvere il bullismo
Pallini sparati in testa alla professoressa Finatti, dicevamo. L’insegnante, indignata, non si limita a denunciare i colpevoli ma querela l’intera classe, ritenuta complice dell’avvenuto. L’istituto rodigino comunque promuove gli studenti colpevoli con voti di condotta buoni o ottimi. Forse per questo, tra le tante storie di aggressioni fisiche ad insegnanti, anche peggiori, Valditara punta gli occhi proprio su questa. È l’ennesimo smacco ad una scuola a cui sembra piaccia farsi prendere in giro.
Ne nasce una riflessione che non riguarda tanto le cause profonde di episodi del genere, quanto più gli strumenti per evitare che possano verificarsi. Strumenti adatti a contingentare e, se necessario, punire. Di qui le nuove misure proposte dal ministro nelle ultime settimane. Innanzitutto, stop alle sospensioni scolastiche, perché «quando un bullo si comporta da bullo ci vuole più scuola, non meno scuola». Si tratta di un disegno in cui questa scuola addizionale interseca la dimensione comunitaria e i bulli scontano la punizione attraverso i lavori socialmente utili. L’implicito è che il bullo non lo si faccia, lo si sia, essenzialmente. È qualcosa che ha a che fare con l’essere, meglio con il non essere un buon cittadino. La solidarietà, dunque, là fuori per poi ottenere la disciplina, qui dentro. Ma il vero indicatore della disciplina per Valditara è il cosiddetto voto di condotta, a cui sarà attribuito un valore nettamente maggiore, nonostante le modalità ancora non siano chiare. Non solo, sembra, peserà di più nella media finale, ma terrà conto del comportamento avuto l’intero anno, non solo nell’ultimo periodo.
Più che di scuola severa, al ministro piace parlare di «una scuola che mette al centro la persona», rappresentazione del «senso del merito che è nel nome del ministero». Come a dire che la buona scuola te la devi meritare. Irrigidimento del trattamento scolastico e valorizzazione della responsabilità individuale, però, non vanno esattamente a braccetto, prima di tutto concettualmente. Il discorso, allora, necessita di un passo in più.
La domanda che rimane
Quello di comportamento è un indice che va forse problematizzato.
Si inizia a parlare di valutazione della condotta e a definirne i connotati nel 1924, con il Regio decreto del 24 giugno, il primo della riforma Gentile. L’articolo 82 prevede che uno studente sia promosso solamente con un voto di condotta superiore ad 8. Il requisito minimo, dunque, è un comportamento che va dal buono all’eccellente, non di meno. Passando poi per la legge 517 del 1977 in cui sparisce il voto di condotta per le scuole elementari e medie, si arriva all’avvento dell’autonomia scolastica. Diverse norme di legge sono abrogate. Dall’anno scolastico 2000-2001 il voto di condotta non condiziona più in modo tanto stringente la promozione. Basta la sufficienza e così fino ad oggi.
Nel lessico scolastico «comportamento» e «condotta» sono utilizzati come sinonimi, più o meno equivalenti. Se però adottiamo il primo termine in tanti altri contesti, il secondo richiama un preciso immaginario. Si potrebbe definire la condotta come la messa in atto di un atteggiamento che, in qualche modo, è sottoposto al filtro di un insieme di norme, si deve conformare ad una postura, non una qualunque. È un preciso comportamento che ha impressa su di sé la forma della scuola, la quale lo esige ma al contempo educa allo stesso. Non solo educa ma controlla. Perché la condotta ha a che fare anche con una sfera legale: ci sono leggi che la regolano e indicatori per valutarla. Il punto, il più importante, è che tutto ciò non rimane chiuso nella sfera dell’istruzione, ma, all’esterno, diventa materia viva, azione. Ecco che la formazione dello studente avrebbe un’ineliminabile ricaduta extrascolastica. Ecco che fenomeni come il bullismo si potrebbero prevenire, partendo proprio dai banchi di scuola. Se, invece, la stretta alla valutazione arriva come deterrente agli episodi di violenza, come soluzione ex post, allora in questo rovesciamento si rischia tanto. Per esempio perché, così facendo, non si fa altro che aumentare la distanza tra studenti e insegnanti. Tra professori-poliziotti e rigido controllo del comportamento si pensa davvero di poter combattere il bullismo?
Questo per quanto riguarda il versante civico. Sul comportamento, tuttavia, agisce un’altra importante componente, spesso tralasciata: la classe sociale. La condotta tenuta da un alunno a scuola dipende prima di tutto dalle interazioni che il ragazzo può intrecciare in famiglia e tra pari. Che queste interazioni ricreino un modello comportamentale vicino a quello richiesto dalla scuola è un privilegio di cui però non tutti possono godere. Non si capisce allora perché un Ministero si impegni ad elaborare un piano di punizione senza interrogarsi sul modo in cui tutti possano accedere ad un certo tipo di condotta.
Forse per questo l’idea di punire, disciplinare, irrigidire è comoda: è una risposta che elimina tutte le domande. «Più scuola, non meno scuola», dice Valditara. Più scuola, appunto.