di Noemi Belluzzo e Caterina De Filippis
Il 26 aprile 2021 al tribunale di Vicenza è iniziato uno dei più grandi processi per crimini ambientali della storia d’Italia. Gli imputati al disastro ambientale sono i 15 ex dirigenti della Miteni, il colosso con sede a Trissino – provincia vicentina – che produceva i famosi Pfas. 318 è il numero delle parti civili che si schiera contro l’azienda e il capo di accusa è la grave contaminazione di acque e terreni proveniente dagli scarti di lavorazione della Miteni. Questa, dagli anni Sessanta fino al 2013 – anno di chiusura per fallimento –, ha riversato liberamente nell’ambiente le sostanze chimiche tossiche proveniente dagli scarti di produzione, ovvero i Pfas. Qualche dato alla mano per comprendere la portata di questo disastro: 200 km quadrati di territorio inquinato, 350.000 persone colpite e un tasso di mortalità (pre covid-19) più alto del 2% rispetto al resto del Veneto. Questa rovina ambientale è considerata il terzo più grande evento di inquinamento idrico a livello europeo. Ma è necessario fare qualche passo indietro per comprendere come si è arrivati fin qui, come si è giunti al processo e a questo irreversibile disastro ambientale.
Le sostanze tossiche Pfoa e Pfos appartengono alla famiglia delle sostanze organiche Pfas, definite dai chimici come forever chemicals perché sono sostanze estremamente resistenti ai processi di degradazione, così da persistere nell’ambiente – aria, suolo e acqua – e nel corpo umano. I Pfas sono stati inventati e prodotti per specifiche caratteristiche, come l’impermeabilità all’acqua e ai grassi, adatte alla produzione industriale di beni di largo consumo – ad esempio, sono fondamentali per le pentole da cucina antiaderenti e per gli indumenti impermeabili. Queste sostanze furono brevettate nel 1947 dalla multinazionale 3M negli Stati uniti e successivamente comprate nel 1951 dalla multinazionale americana Dupont per sfruttarle nella produzione di Teflon. Interessante notare che la Dupont verrà poi incriminata e condannata nel 1999 per l’avvelenamento delle acque da Pfas delle comunità residenti nella contea di Wood in Ohio. Quindi, la storia dei Pfas veneti ha un precedente, quello dei Pfas americani seppur questi ultimi costituiscano un fenomeno di proporzioni nettamente minori – in tema di disastro ambientale.
In Italia, i Pfas comparirono solo negli anni Sessanta e furono subito inseriti nella produzione tessile; tra le prime aziende italiane a sfruttarli vi fu la rinomata Manifatture Marzotto, che nel 1965 decise di aprire a Trissino un centro di ricerca su sostanze per impermeabilizzare i tessuti. Fu proprio questa azienda a generare la Miteni spa, quando nel 1988 cedette lo stabilimento ad un consorzio tra le multinazionali Mitsubishi e Enichem, da cui originò il nuovo nome dell’azienda. Miteni a Trissino diventò leader in Europa per la produzione di Pfas, accumulando grandi interessi economici e perseguendo una spietata logica di profitto fino alla sua chiusura definitiva, avvenuta nel 2018 per dichiarato fallimento.
Solo nel luglio 2013 ARPAV (l’Agenzia regionale per la protezione ambientale del Veneto) svolse ulteriori indagini, individuando come fonte principale del rilascio di Pfas lo stabilimento Miteni, allacciato all’impianto di depurazione di Trissino, con un contributo all’apporto totale di Pfas pari al 96,989%. Tuttavia, dopo tale scoperta non furono diffuse informazioni sufficienti, mancò l’avvio di indagini epidemiologiche immediate e provvedimenti per la regolamentazione delle emissioni e per la bonifica della falda acquifera, denotando una colpevole inerzia istituzionale. Ma ciò che fa maggiormente riflettere – e alterare – è che la salute dei dipendenti della Miteni veniva annualmente monitorata con apposite analisi del sangue, i cui risultati non venivano mai condivisi con i diretti interessati. Pertanto, l’azienda era perfettamente consapevole dei perenni danni alla salute che stava creando non solo ai suoi dipendenti ma a tutti gli abitanti della zona. Il braccio sanitario che si occupava di tutto questo era il professor Costa, medico aziendale di Miteni, che aveva per anni negato un effetto tossico dei Pfas sugli esseri umani e che comunicava le sue certezze all’autorità sanitaria preposta SPISAL (Servizio di Prevenzione, Igiene e Sicurezza negli ambienti di lavoro), la quale assunse un ruolo attivo di controllo sulla sicurezza dei lavoratori, ignorando anche le informazioni che giungevano dallo scandalo Dupont negli USA.
Prima dello scandalo scoppiato nel 2013, la popolazione residente nell’area più colpita, definita attualmente “Zona Rossa”, ha bevuto, senza saperlo, per oltre cinquant’anni, acqua avvelenata dallo sversamento intenzionale di Pfas. Dalle analisi alle acque potabili del territorio, pubblicate poi nel 2013, emersero alte concentrazioni di Pfoa e Pfos. La scoperta da parte delle famiglie e della comunità stessa di essere stata avvelenata nel silenzio generale scatenò le prime proteste. Queste portarono alla nascita nel 2017 di un gruppo organizzato di genitori che ormai da un decennio lotta soprattutto per la salute dei propri figli: le Mamme No Pfas. La percezione di tutti i cittadini delle province interessate – Verona, Vicenza e Padova – è di essere stati traditi da chi era incaricato di proteggerli, tutelarli e supportarli.
Dopo la bancarotta della Miteni nel 2018 il terreno e la falda restano impregnati di Pfas, che continuano a fluire in grandi quantità in corsi d’acqua non ancora bonificati, inquinando i campi, irrigati con le acque di pozzi pubblici contaminati, in quanto spesso non censiti o non sottoposti ad alcun controllo ufficiale.
Bisogna aspettare il 2020 per il riconoscimento da parte dell’INAIL delle prime malattie professionali, inducendo la regione Veneto ad installare filtri ai pozzi pubblici e a costruire nuovi acquedotti. Nonostante ciò, i depuratori installati raccolgono tutti gli scarti industriali del distretto conciario vicentino che continua a sfruttare i Pfas nelle sue produzioni: questi si accumulano nel collettore Arica, dove l’acqua di scarto è diluita con l’acqua pulita dell’Adige e prosegue poi verso l’irrigazione dei campi destinati all’agricoltura.
Nel 2017 l’ARPAV ha sancito che l’area dove sorgeva l’azienda Miteni non avrebbe dovuto ospitare un polo industriale di tali dimensioni, riconoscendo la vulnerabilità di tale territorio dal punto di vista ambientale, dato il suo posizionamento appena sopra la zona di ricarica della seconda falda acquifera più grande d’Europa. A questo si aggiunge l’evidente compito che il Nord-est ha nel territorio italiano, ovvero quello di traino dell’economia di tutta la penisola. Per questo non dovrebbe stupire se l’area ovest del vicentino, protagonista della vicenda Pfas, costituisce l’1% del Pil nazionale grazie al grande distretto conciario che ospita. Da non trascurare anche il fatto che, viste le sue dimensioni e la sua importanza, questa zona garantisce lavoro a quasi 10.000 persone. In tale modo, grazie al buco normativo regionale e all’impianto neoliberista della zona, il territorio si dipinge come il bacino perfetto per accogliere un tale disastro ambientale.
I vuoti lasciati dalla normativa regionale vennero colmati nel novembre del 2015, una volta che lo scandalo era già scoppiato da due anni. Così si provvide a rivedere e pubblicare un nuovo piano regionale per la tutela delle acque, nonostante il quale permaneva l’assenza di una direttiva più generale a livello europeo e dunque di una tutela e prevenzione efficaci. Tre anni dopo, il 20 giugno 2018, il gruppo di attivisti Mamme No Pfas giunge al Parlamento a Bruxelles con una precisa richiesta per l’Europa: imporre la soglia zero per i Pfas nelle acque e nei cibi. Ma la legge sui limiti agli scarichi non è mai arrivata in parlamento. Bisogna aspettare il 2020 quando l’Europa emana una direttiva sulle acque potabili ma non sulle acque di scarico, che restano senza regole.
Nel 2019 le Mamme No Pfas si trovano a Roma, in udienza da Papa Francesco. Sventolano tra la folla le loro magliette su ognuna delle quali è scritto il nome del proprio figlio e il rispettivo livello di Pfas nel sangue. Tutta Italia li vede e il Papa stesso intona una pregheria per loro e per i cittadini delle zone colpite. Fuori dalla parentesi romana e dalla gioia del gruppo di avere sempre più impatto a livello nazionale rimane un grosso interrogativo: ma quali sono i cittadini più a rischio? Solo quelli della rinomata Zona Rossa? A nessuno è dato saperlo e le Mamme No Pfas lottano anche per ricevere delle risposte su questo fronte.
Infatti, ad oggi non risulta ancora effettuata nessuna bonifica o intervento risolutivo né del bacino all’origine della contaminazione Fratta-Gorzone né del sito inquinante, nonostante l’azienda Miteni abbia cessato la sua attività nel 2018. La barriera idraulica installata risulta inefficace e l’inquinamento continua a scendere nell’acquifero sottostante inquinando la falda e costituendo quindi un rischio per il terreno disposto alle coltivazioni e agli allevamenti.
Il disastro è iniziato negli anni Sessanta, il processo solo nel 2021. La popolazione è in attesa di giustizia, di provvedimenti politici e sanitari e soprattutto di risposte, che mirino non solo a diffondere un’adeguata informazione rispetto alla contaminazione tutt’ora in corso, ma anche ad ampliare lo sguardo scientifico al problema; indagando tramite studi epidemiologici la connessione tra le patologie insorte nella popolazione e i “forever chemicals”. Ma il caso Veneto non è l’unico: stessa cosa è quello che è successo e succede in Piemonte alla Solvay di Spinetta Marengo. Nel 2021 la procura di Alessandria ha aperto un’inchiesta a carico della Solvay per disastro ambientale e omessa bonifica. Ancora una volta, chi ci va di mezzo sono i cittadini, i lavoratori di queste zone massimamente industrializzate che per anni – e ancora oggi – hanno bevuto e mangiato dalle stesse fonti che poi li avrebbero portati alla morte.