di Leonardo Mezzalira
Il mese dei Pride è finito, e in Veneto si è fatto sentire parecchio. Mentre qualche anno fa veniva organizzata un’unica manifestazione su scala regionale (o addirittura di Triveneto), ora i Pride si sono moltiplicati, e la nostra regione è tra quelle che ne organizzano di più a livello nazionale. Una tendenza che testimonia un aumento del numero di persone coinvolte e una maggior forza organizzativa delle varie realtà che si occupano di temi LGBT+, ma che riflette anche una pluralità di approcci e di contenuti su cui può valer la pena fare qualche riflessione.
Per iniziare: a cosa serve un Pride? Innanzitutto si tratta di una manifestazione che lancia un messaggio politico verso l’esterno: questo «esterno» può essere di volta in volta costituito dalle istituzioni, dagli abitanti della città – quelli che non partecipano al corteo – o da realtà della cosiddetta società civile. In secondo luogo svolge una funzione di cura dei/delle partecipanti: serve a far sentire chi partecipa meno solo, a generare empowerment, a promuovere relazioni e a diffondere pratiche di vita e di lotta. E anche, ogni volta, ad accogliere nuove persone che escono da un processo di accettazione di sé e/o da un coming out più o meno faticoso: la «prima volta» a un Pride può essere un passaggio liberatorio importante sul piano esistenziale. Infine è un momento di creazione, negoziazione e consolidamento di rapporti tra realtà cittadine, in cui si definiscono relazioni, rapporti di forza e possibilità di collaborazione e di sorellanza. O si consumano rotture più o meno gravi.
Quest’anno il primo Pride veneto è stato quello di Padova, il 3 giugno. Rispetto al passato qualcosa dev’essere andato storto nel processo partecipativo con le altre realtà cittadine, perché la manifestazione risultava organizzata principalmente da Arcigay Tralaltro, mentre gli altri principali soggetti padovani che si occupano di temi LGBT+ hanno dato vita a una manifestazione alternativa, la Queer Parade del 28 giugno. Buoni sembrano invece i rapporti dell’organizzazione con le realtà produttive e dell’intrattenimento: sul suo profilo Instagram il PadovaPride, che si definisce no sponsor, pubblicizza partnership con un bar che produce brioche arcobaleno, uno studio di tatuaggi e alcuni tra i principali locali che durante l’anno organizzano eventi LGBT+. Infine, «dopo aver marciato carichə di lotta, amore e favolosità» si veniva invitat* ad andare all’Hall di corso Argentina per l’afterparty (biglietti intorno ai 10€).
Il PadovaPride ufficiale di quest’anno si definisce una giornata «di festa e di lotta» ma non sembra aver prodotto un vero e proprio documento politico. Ha però uno slogan, «Chi si cura di te», che – dice la portavoce del Tralaltro – si riferisce alla cura delle persone che escono dai canoni e alla cura del pianeta in preda al cambiamento globale; per la manifestazione, inoltre, è stata annunciata una particolare attenzione alle tematiche dell’accessibilità.
Il 10 giugno è stata la volta del Riviera Pride di Dolo, organizzato dal Collettivo Artemisia nella cittadina della Riviera del Brenta. Lo slogan era «l’orgoglio queer parte dalla provincia», un messaggio essenziale vista la differenza ancora fortissima tra la libertà percepita dalle persone queer in città e nei paesi, dove il potere del «sistema capitalista, patriarcale ed eteronormativo» agisce ancora spesso indisturbato nel dar forma alle coscienze. Alla partenza del corteo è stato chiesto a chi se la sentisse di alzare la mano se partecipava a un Pride per la prima volta, e le mani alzate erano molte. Al corteo hanno partecipato alcune centinaia di persone, e la manifestazione è stata in grado di coinvolgere un’ampia varietà di soggetti, tra cui per esempio alcune drag di Padova e di Venezia, diverse associazioni del paese, una scuola di danza, l’Ordine degli assistenti sociali del Veneto e vari collettivi di Venezia e dei dintorni. Molto bella la festa finale in piazza, con spettacoli di ottima qualità e interventi molto intensi, sotto lo sguardo non sempre amico della cittadinanza.
Frutto di una collaborazione e di una mediazione tra realtà diverse quali Famiglie Arcobaleno, AGEDO, Non Una di Meno e il Coordinamento LGBTE, il Pride di Treviso si è tenuto il 17 giugno, con festa finale al CSO Django a cui ha partecipato l’ormai leggendario collettivo techno queer La Roboterie. Dietro alla manifestazione c’è stato un notevole lavoro politico, che è culminato nella redazione di una «Carta di intenti per l’autodeterminazione e la tutela dei diritti delle persone LGBTQIA+»: uno strumento operativo utilissimo che riporta, divisi per ente responsabile (amministrazione comunale, prefettura, uffici scolastici…), gli interventi pratici ritenuti necessari per «favorire l’autodeterminazione e il riconoscimento socio-politico delle persone LGBTQIA+ in Italia e nella provincia di Treviso». La Carta di intenti è stata proposta all’amministrazione comunale e al posto del tradizionale patrocinio è stata richiesta una sua sottoscrizione; hanno aderito Pd, Coalizione Civica e altre realtà di sinistra della città, ma per il momento non il sindaco.
Agli eventi svoltisi nel mese del Pride può essere accostata anche la manifestazione tenutasi domenica 18 giugno a San Donà di Piave a un anno dalla morte di Cloe Bianco, insegnante trans suicidatasi dopo esser stata allontanata dall’insegnamento in seguito al coming out con gli studenti – una vicenda oggetto di dichiarazioni inaccettabili da parte dell’assessora Elena Donazzan. Organizzato da Stati Genderali, rete nazionale di associazioni collettivi e attivist* LGBTQIAP+, il corteo si è tenuto nel paese in cui Cloe aveva insegnato ed è terminato di fronte alla sua scuola. La sensazione poteva essere quella di una sostanziale estraneità al contesto: l’istituto era chiuso, non c’erano gli studenti di Cloe, non c’erano i colleghi, la manifestazione ha visto la partecipazione di qualche centinaio di persone venute perlopiù da città lontane. Ma ci ha fatto bene denunciare la violenza, fare i nomi dei responsabili, leggere l’elenco delle persone trans uccise nel corso dell’ultimo anno. Abbiamo dimostrato che se la comunità si tiene unita può arrivare ovunque, anche in un paesino della provincia che immaginiamo sostanzialmente ostile alle istanze LGBT+ radicali, e siamo tornate da San Donà più determinate di prima.
Dopo tanti anni, quest’estate è tornato a svolgersi un Pride anche nel centro storico di Venezia. Si tratta del Laguna Pride del 24 giugno, che è partito dalla stazione di S. Lucia ed è terminato alle Zattere con una serie di performance e di interventi in cui, come a San Donà, non ci si è astenute dal fare esplicitamente i nomi di chi porta avanti le politiche che opprimono la comunità – da quello di Elena Donazzan a quelli degli antiabortisti che hanno invitato Adinolfi a Mestre lo scorso febbraio, e che siedono in diverse istituzioni della città di Venezia. La manifestazione si è dichiarata da subito «anticapitalista, antirazzista e transfemminista», collocandosi al polo più radicale nella gamma degli eventi veneti di quest’anno, insieme al Riviera Pride e alla Queer Parade di Padova.
Quest’ultima si è tenuta il 28 giugno, anniversario dei moti di Stonewall del 1969, e, animata dallo slogan senza compromessi «non vogliamo un capitalismo arcobalenoso, vogliamo la rivoluzione frocia!», ha attraversato il centro storico per finire nel quartiere periferico dell’Arcella. È stata organizzata da Non Una di Meno, dal collettivo Kosmos legato ad ASU, da Antéros LGBTI, dal collettivo Squeert legato al CSO Pedro e da Padova Hardcore, e ha ribadito con particolare forza la denuncia della pratica del rainbow washing da parte delle aziende e della politica. Le dichiarazioni programmatiche della manifestazione si possono leggere qui.
Gli ultimi due Pride veneti di quest’anno si sono svolti a Verona, l’8 luglio, e a Belluno, il 15 luglio. Organizzato da Arcigay Verona, Rete degli Studenti Medi, Udu Verona e Yanez con l’adesione di diverse altre realtà tra cui il Circolo Pink, il Verona Pride ha pubblicato un documento programmatico frutto di una mediazione tra istanze più radicali e più istituzionali. Al corteo ha partecipato anche il sindaco Damiano Tommasi, mentre il Pink, portavoce del punto di vista più transfemminista queer, ha attraversato la manifestazione a bordo della tradizionale irriverente Trattora.
Quella di Belluno, dal canto suo, è stata la prima manifestazione del genere in città; anch’essa si è dotata di un manifesto, sintesi moderata di una serie di rivendicazioni della comunità LGBT+ in cui si evidenzia anche un certo intento didascalico rivolto a un territorio percepito come meno abituato di altri a questo tipo di discorsi. Il Belluno Pride appare una manifestazione di stampo istituzionale, con numerosi sponsor, e ha fatto notizia per essere stato il primo Pride esplicitamente appoggiato da Confindustria. Inutile cercare, in questo tipo di manifestazioni, l’espressione di istanze anticapitaliste e transfemministe radicali. Forse però si può dire, senza intenti necessariamente conciliatori, che alcune delle funzioni di un Pride, specie in una città non avvezza ad essere popolata da segni di orgoglio LGBT+, possono essere svolte anche da una manifestazione di questo tipo. Certo nelle località meno centrali tendono ad essere espresse prima le richieste percepite come più accettabili e più facilmente conciliabili con la struttura economica, sociale e relazionale esistente. Con la felice eccezione del Riviera Pride di Dolo, al quale c’è da augurare una lunga vita.