di Filippo Grendene
Nel corso di quest’anno è stato pubblicato da Mimmo Cangiano un libro, Guerre culturali e neoliberismo, che sta facendo molto discutere. Nel libro si parla di come il capitalismo spesso assorba i movimenti che lo contestano, e di come questo possa avvenire per una serie di difetti teorici interni ai movimenti stessi. Siamo andati a Venezia, dove Mimmo vive e lavora, per capirne di più.
Filippo: Leggendo questo libro si intuisce come il primo movimento provenga da un’esperienza personale, cioè quella di un marxista italiano trapiantato negli Stati Uniti. Ricordo che riflettevi sulle nuove forme ideologiche partendo dalla tua esperienza già una decina d’anni fa. Per iniziare la nostra discussione, voglio chiederti qualche esempio di situazioni in cui qualcosa non ti tornava.
Mimmo: Nel libro ho cercato di dare alcuni esempi pubblici, in funzione aneddotica, di quella che si definisce woke: di cose che non tornavano ne sentivo tante, alcune se ne trovano anche nel libro. C’è questo dottorando in antropologia culturale che nel 2010 al tavolo di un bar mi dice: «Devo lavorare di più per far sì che il mio professore si renda conto che sono parte di una minoranza». Un ragazzo vietnamita ma negli Stati Uniti da tre generazioni: per un europeo nel 2010 era sicuramente una situazione strana. Suonava particolare perché in prima battuta c’è il discorso sulle minoranze, però immediatamente dietro si avvertiva una sorta di mercificazione dell’identità: qualcosa di specifico su cui ancora non sapevamo niente, con cui non avevamo fatto i conti.
Oppure: al nostro Marxist Reading Group un collega, dottorando come noi al tempo, ci dice che i nostri discorsi, i discorsi di un gruppo di lettura, sono discorsi che essenzializzano, rivestono di una prospettiva di potere – quella di intellettuali in gran parte bianchi, anche se non tutti – le minoranze, i gruppi subalterni: quindi in qualche modo non dovevamo parlare di quelle cose perché anche il solo parlarne era un sottrarre agency a tali gruppi. In qualche modo stavamo rivestendo loro della nostra soggettività. Se portata all’estremo, vuol dire che Marx non doveva scrivere Il capitale perché facendolo si sta impadronendo della soggettività di gruppi a cui non apparteneva. Nella prospettiva delle guerre culturali Marx diventerebbe una sorta di bourgeois sauveur, se dobbiamo usare la loro terminologia: il borghese che arriva in groppa al cavallo bianco per salvare il gruppo subalterno.
Con un po’ di esperienza noti che una fetta di persone ci crede seriamente; noti anche che altri non ci credono, lo stanno usando esclusivamente in maniera mercificata. All’interno di questi ambienti, infatti, la capacità di saper usare un certo linguaggio, di parlare di determinati temi è diventata una sorta di capitale simbolico. Oggi se non sei in grado di usare il linguaggio in un determinato modo, di rispettare determinate regole o consuetudini, è molto difficile che tu possa accedere a un lavoro di élite all’interno dell’università ma sempre più anche all’interno delle aziende.
F: Mi sembra che il tuo libro possa aiutarci a spiegare come i meccanismi di sussunzione e messa a valore delle lotte funzionano all’interno del capitalismo contemporaneo; e come ciò avvenga per un difetto teorico che sta alla base di molti ragionamenti che noi consideriamo di sinistra oggi.
M: Secondo me è qualcosa che va oltre il contemporaneo. Nel senso che il capitalismo si è sempre appropriato di tutte le lotte e le ha sempre messo a profitto, comprese le lotte marxiste: le magliette di Che Guevara prodotte da aziende capitalistiche non sono una novità dell’ultimo momento.
Il marxismo non ha vissuto fenomeni differenti di appropriazione della lotta rispetto a quello che vivono attualmente le guerre culturali. Il marxismo era perfettamente cosciente di questo meccanismo e per questa ragione il momento di lotta culturale, ideologica, sovrastrutturale – sacrosanta – doveva essere accompagnato da un altro tipo di lotta che puntava a colpire al cuore il meccanismo che produce mercificazione. Oggi invece si è creato qualcosa di differente e non riguarda soltanto le componenti più smaccatamente liberal di queste lotte: le riguarda tutte, anche quelle più radicali. In qualche modo si è iniziato a credere, ed è sicuramente un portato dei tempi in cui viviamo, che se tu identifichi il capitale con una determinata movenza ideologica – e solitamente all’interno della woke delle guerre culturali si tratta di un capitale monologico, universalista, totalizzante, categorizzante – e culturalmente presenti una visione che è radicalmente all’opposto di quello, pensi che tale visione sia immediatamente qualcosa che è al di là del capitalismo e che quindi si pone di per sé come prospettiva alternativa e di lotta.
Io non nego che sia una prospettiva di lotta. Il punto è che non credo che il capitalismo abbia una movenza ideologica precisa, ma anzi sia estremamente multiforme: in questo senso è in grado di appropriarsi di qualsiasi movenza ideologica.
E quindi non basta identificarlo in una scala. E’ necessario un movimento diverso, che vada a colpire al cuore la mercificazione: questo il marxismo lo sapeva. E le guerre culturali invece mi pare non abbiano coscienza di ciò.
Fischer, parlando di alcuni accademici che si riferiscono a queste tematiche, li ha definiti una mercificazione della sofferenza travestita da progressismo. Io sono molto d’accordo con lui: questo tipo di visione che esclude il movimento di prassi, pensa che basti un’attitudine ideologica per essere anticapitalista; è una visione facilmente preda della mercificazione, appunto perché il capitalismo va in tutte le direzioni.
Infatti, il capitalismo non è un monolite: il capitalismo sono i capitalisti. Nel corso delle loro lotte concorrenziali sposano continuamente ideologie differenti che sembrano loro utili. Pensa a Disney, pensa ad Amazon; poi ovviamente per ogni Bezos c’è un Briatore, per ogni capitalismo dal volto umano, tollerante, multiforme e molteplice c’è un capitalismo etnico, identitario, monologico, reazionario vecchio stampo. Ma appunto perché il capitalismo non ha un’ideologia fissa, al di là della necessità di estrazione di plusvalore, non può esistere un’ideologia contraria a una delle forme che assume che di per sé sia anticapitalista.
F: Nel libro identifichi due poli: da una parte il capitalismo monologico, reazionario, identitario; dall’altra il polo della fluidità, del multiforme, del movimento che invece diventa il centro delle guerre culturali. Il centro positivo. Fai notare come ci sia una contraddizione in questa posizione: una posizione simile non potrebbe identificare il positivo in qualcosa, in quanto lo stesso positivo è una categoria fissa. Volevo chiederti come viene giustificata teoricamente questa opposizione.
M: La cornice teorica fondamentale delle guerre culturali è quella del post-strutturalismo francese, e in particolare di Foucault. Il nemico resta appunto un potere/capitale – a volte le due cose sono sovrapposte ma non sempre – che ha sempre i tratti di questa universalizzazione, tassonomizzazione, categorizzazione, assolutizzazione. È un processo che se portato agli estremi – lo vediamo benissimo in alcune figure recenti del post-strutturalismo come Rosi Braidotti – conduce a un pensiero completamente liberale. Che però fa leva proprio su queste tipologie di attacco a quello che sarebbe il potere. Le guerre culturali non spiegano tale fenomeno interno, non riescono neanche a vederlo, appunto perché hanno identificato il capitalismo con una movenza ben specifica. Di conseguenza pensano che fare l’opposto sia immediatamente un opporsi al capitalismo. Non riescono a vedere quella che nel libro chiamo essenzializzazione di ritorno.
Che vuol dire essenzializzazione di ritorno? L’essenzializzazione è uno dei grandi feticci negativi delle guerre culturali. Il potere opera secondo movenze essenzializzanti, ci essenzializza in una classe, in un genere, in una sessualità, in un comportamento, in una razza e così via. Mentre la realtà invece è fluida, dinamica, sempre in divenire, sempre mutevole e così via. Quindi in qualche modo legarsi a quella mutevolezza, a quella fluidità diventa un comportarsi come l’esistenza dovrebbe essere – se non ci fosse un potere a categorizzare e tassonomizzare tutto.
In realtà io faccio notare che tutto ciò nasconde un secondo grado di essenzializzazione che è proprio quello del capitale-potere, visto non come i marxisti vedevano il capitalismo – come qualcosa di aperto a ogni tipo di ideologia – ma come legato per la vita, appunto essenzializzato in una sola ideologia. Questa è l’essenzializzazione di ritorno, che crea i fenomeni che descrivevamo prima e che nel libro chiamo culturalismo, vale a dire l’idea che basti porsi in un’attitudine culturale, sovrastrutturale, diversa da quella del capitale per metterlo in crisi.
Poi, chiariamo anche un po’ le cose: nessuno pensa che gli elementi sovrastrutturali non siano parte integrante della struttura. Nessuno qui pensa, come magari pensavano i marxisti un sessantennio fa, che razzismo, sessismo – per riferirci ai due principali – siano semplicemente epifenomeni del capitalismo. Io penso che il razzismo e il sessismo siano cose che preesistono al capitalismo e che il capitalismo è riuscito a mettere a valore, facendone dei pilastri fondamentali non della sua sovrastruttura ma della sua struttura vera e propria. Quindi la sovrastruttura è assolutamente integrata nella struttura, ma questo tipo di discorso rischia continuamente di far perdere importanza al fatto che la struttura è un sistema che muta continuamente, appunto perché i capitalisti sono in lotta fra di loro, sono in divenire, e quindi mutano continuamente le loro ideologie di riferimento.
Un esempio: dopo la morte di George Floyd, Amazon mette il banner Black Lives Matter in copertina. Le guerre culturali rispondono al solito modo dicendo: «Questo è washing». In realtà è qualcosa di più del washing, perché allo stesso tempo Bezos non solo devolve una marea di soldi a associazioni antirazziste. Ma anzi – ed è il secondo passo: comincia ad aprire nelle sue aziende corsi per un linguaggio inclusivo, per un comportamento inclusivo sul luogo di lavoro, quindi perde soldi, perde profitto in questa direzione, prende una precisa direzione ideologica. Fa una terza cosa: favorisce la formazione di sindacati al suo interno su base identitaria – quindi se tu vuoi fare il sindacato delle donne e dei neri Amazon ti favorisce – ma crasha, come accade in Alabama negli stessi mesi, i tradizionali sindacati su base economica.
Quindi ovviamente il capitale ha una certa capacità di tollerare determinate mutazioni di natura sovrastrutturale. Questo avviene probabilmente in tempi in cui non solo nella società in generale c’è una maggiore coscienza rispetto a determinate tematiche come razzismo e sessismo, e dunque il capitale avverte il bisogno di andare dietro a queste tematiche, ma avviene in un momento in cui: uno, l’occidente diventa effettivamente sempre più multiculturale; due, il lavoro, come dicono alcune femministe come Cristina Morini e Elisa Cuter, si femminilizza. La femminilizzazione non è una cosa negativa, è semplicemente un fatto economico, crea una femminilizzazione dell’intera società che inevitabilmente porta la società stessa a una maggiore considerazione di quello che è il ruolo storico della donna stessa.
Come sempre, queste tematiche sono progressiste; ma non dobbiamo dimenticarci mai che anche la tematica progressista in un mondo dove tutto è formato dal capitalismo è un sintomo del capitalismo stesso. Roberto Finelli, un filosofo romano, lo dice molto bene: il principale agente di formazione delle soggettività nella nostra società resta il capitale. Quindi anche le idee, le ideologie, le sovrastrutture anticapitaliste che noi formiamo sono sicuramente forme di attacco al capitale ma sono sempre anche sintomo del capitale stesso. Questa idea di essere un sintomo del capitale è qualcosa che le guerre culturali non hanno.
F: Secondo te, estremizzando il ragionamento portato avanti appunto dalle cultural war, è possibile pensare a un capitalismo che abbia risolto in senso positivo i problemi di patriarcato, del mercato e del razzismo?
M: No, secondo me no. Questa è una domanda fondamentale: i processi di democratizzazione, quando li fa il mercato, come sta avvenendo nel nostro caso, contengono in se stessi dei processi di antidemocratizzazione. Vale a dire possono cambiare le strutture gerarchiche all’interno di una società capitalista; non può mutare il principio della gerarchia, questo è il punto. È impossibile avere democrazia, o come direbbero loro inclusione, in un sistema che resta basato sullo sfruttamento. Il punto è semplicemente questo: non solo viene mantenuta la lotta per la vita, che è la base di funzionamento della lotta fra capitalisti, ma al secondo livello viene anche mantenuto il principio dello sfruttamento legato al lavoro salariato. E’ possibile che le forme dello sfruttamento si modifichino, che cambi chi sta sopra e chi sta sotto – e non credo si siano modificate attualmente, credo il patriarcato e il razzismo siano ancora molto forti, lo vediamo sui luoghi di lavoro, a un immigrato si paga ancora qualche soldo in meno, a una donna incinta si fa un contratto da precaria, ecc. Non abbiamo ancora superato quelle dinamiche ma, pure se le superassimo, ci troveremo con altre forme di sfruttamento e dunque con altre forme di oppressione.
F: Io faccio parte di un partito, Potere al popolo, che, pur all’interno di una riflessione e di critica alle esperienze del secolo scorso, ritiene la forma partitica di centralizzazione, di decisioni, di organizzazione l’unica dotata di possibilità di efficacia politica oggi. La scelta della forma partitica è però fortemente criticata e avversata da molti movimenti sociali sulla base, spesso, della decostruzione e rinuncia all’identità, della fluidità, del movimento per il movimento, movimento in quanto tale. Puoi aiutarci a capire meglio queste critiche?
M: Quanto hai detto è assolutamente vero. La dinamica della molteplicità, della volontà di non serrarsi all’interno dei principi identitari, collettivi, sovrapersonali, sicuramente ha intaccato il movimento.
Io sono pienamente d’accordo con te, ma poi soprattutto bisogna guardare al dato empirico: abbiamo alle spalle 35 anni di movimentismo, è chiaro che non siamo riusciti a ottenere quasi niente rispetto alle proposte dei movimenti stessi; è chiaro che una politica richiede una forma di centralizzazione, di un’organizzazione forte, strutturata. C’è poi la questione delle elezioni: le elezioni restano tutt’oggi un momento decisivo della lotta politica.
Le tematiche provenienti dal post-strutturalismo hanno inficiato anche il partito: è un fatto tipico della visione post-strutturalista che tende a confondere identità e dialettica.
Il partito è un’identità, certamente, ma è un’identità mobile. Al suo interno ci sono visioni diverse che si confrontano, che si dialettizzano e che mutano continuamente l’anima del partito, altrimenti avremmo ancora il partito comunista. Quindi pensare il partito come un’identità monologica è semplicemente una forma di falsa coscienza, cioè è un modo di attaccare quella che resta, insieme al sindacato, la nostra più forte arma di lotta politica. E questo, secondo me, è proprio uno di quei casi in cui il legame, che non è sempre così chiaro, ma in questo caso appare evidente, tra post-strutturalismo e neoliberismo è particolarmente evidente.
F: Sui movimenti per la Palestina in questi mesi. In tutto il mondo, ancora una volta a partire dagli USA (cioè, dopo che in Usa queste dinamiche hanno avuto un peso politico), si è definito un movimento per la Palestina che sembra fare tesoro proprio di quel tipo di letture e prassi politiche che tu vedi come problematiche: la razza, l’appartenenza o l’identificazione con un popolo colonizzato, ecc.; riattivando con un forte accento sulle identity politics classiche forme di politica anti-coloniale. Che però proprio dai cultural studies si sono nutrite, in quanto fenomeno prettamente accademico. Che ne pensi?
M: Le guerre culturali hanno tanti lati positivi. Sicuramente hanno avvicinato alla politica una generazione per cui parole come socialismo, marxismo, non volevano dire niente. Lo vediamo nei ventenni americani – in questo momento la gioventù americana è all’avanguardia in molte posizioni politiche progressiste. Se ci pensi fa ridere, ma è così. Il libro non è scritto contro di loro, è scritto per mettere in luce i liberali e paraliberali all’interno di questo campo. Sicuramente il discorso postcoloniale e quello sulle identità in questo caso è stato molto importante, anche se non mi sembra sia il discorso centrale all’interno del discorso di lotta pro-Palestina. Mi sembra che centrale sia ancora il discorso ottocentesco sulle possibilità o meno di un popolo di autodeterminarsi. Quindi in questo senso il raggruppamento così forte, la solidarietà attorno alla Palestina, è ancora in qualche modo di derivazione ottocentesca, più che postcoloniale. Poi entrano sicuramente anche degli elementi postcoloniali, li ho visti entrare soprattutto negli ultimi anni.
Certo, c’è sempre però qualche problema: mi chiedo perché le stesse dinamiche non si verifichino per paesi colonizzati prima economicamente, poi anche politicamente. Ad esempio; perché non si verifichino per molti paesi sudamericani? Perché il discorso postcoloniale in parte è pronto a spendersi per la Palestina, mentre così pochi intellettuali postcoloniali si sono schierati a favore ad esempio di Chavez? Non sono mancati, eh, ma sono stati infinitamente di meno.
Ecco, questo mi fa pensare che comunque quando quel discorso decoloniale riprende a muoversi in un’ottica marxista, socialista, tradizionale – definendo e distinguendo l’intellettuale, il politico – l’intellettuale postcolonial statunitense tende a fare un passo indietro.