intervista di Marco De Martin
“Fungo” è il nome dato al luogo che per sei mesi è stato il punto di ritrovo settimanale della comunità padovana di freestyler: ragazzi e ragazze che ogni martedì sera in Stanga scambiano rime improvvisate accompagnati dai quattro quarti. Se nel giro di pochi mesi e in assenza di mezzi si è creato un giro di centinaia di persone interessate a rappare ed ascoltare, sicuramente è perché si sentiva la mancanza di uno spazio di aggregazione dove potersi esprimere liberamente. Ma anche perché le cose sono state “fatte bene”. Ne parliamo con Edoardo, in arte Groomo, e Gianluca, in arte Giandi, della Restraining Stirpe Crew, tra un paio di canne e una bottiglia di grappa.
Come vi siete conosciuti?
Edo: Alla battle a Sherwood del 2021, per caso all’ingresso mentre aspettavamo di entrare.
C’era già l’idea di creare uno spazio per il freestyle come quello che è stato poi il Fungo?
Gian: No, all’inizio eravamo lontanissimi da questa prospettiva. L’idea era trovare qualcuno con cui fare freestyle. Se eravamo in cinque era già tanto. Ci trovavamo a bere qualcosa in qualche bar di quartiere, poi ci imboscavamo sui gradoni del Portello o nel vicolo Santa Maria Inconio e lì facevamo le nostre barre per una o due ore al freddo. Pian piano, in strada, la gente si avvicinava e si aggregava al cerchio. Abbiamo iniziato a chiedere i numeri di telefono e abbiamo creato un gruppo Whatsapp che oggi conta un’ottantina di partecipanti.
Cosa significa per voi fare freestyle? Quali sono i tratti del rap che cercate di portare avanti?
Edo: La roba figa del freestyle è che è un discorso di comunità in un certo senso. I valori sono di totale uguaglianza tra tutti quanti; il fatto che il cerchio abbia un ordine e che quest’ordine vada osservato è una forma di rispetto verso tutte le persone perché, se sono quattro quarti a testa, tutti hanno il loro momento. Anche chi non ti piace. Un’altra roba molto figa che ho visto nel freestyle è che nel momento in cui uno trova il suo stile, indipendentemente che sia forte o scarso, spacca. Vale per tutti. Tutti hanno lo spazio per mostrare la propria personalità.
Il benessere che puoi trarre da questa esperienza, inoltre, riguarda la percezione del sé. Mi spiego meglio: le cose che ti escono mentre stai facendo freestyle, le pensi solo fino a una certa. Magari a volte dici cose che non avresti pensato di esprimere, magari parlando della tua giornata, dei tuoi problemi, e, ascoltandole, trovi un modo diverso di vedere la tua stessa vita. Nel momento in cui si fanno quattro minuti a testa, si è costretti a parlare dei propri cazzi. Non puoi stare lì a fare le battute, a dire le cazzate. Non si tratta di sentire il dovere di impegnarsi, ma di avere modo di mettere sotto una lente diversa sia sè stessi che gli altri. È una lente molto più sana. Nelle situazioni normali, c’è un modo giusto di comportarsi. Nel freestyle no. Per cui tutti possono essere loro stessi, in un certo senso. Il fatto di aver coltivato proprio questo aspetto tra i tanti, di averlo sempre messo al centro delle regole del fare freestyle, ha permesso all’ambiente, agli albori proprio, di formarsi in maniera molto sana: le persone che partecipano lo fanno per sentirsi bene.
Tu vuoi aggiungere qualcosa, Giandi?
Gian: Io ho iniziato ad appassionarmi al freestyle prima di farlo. Prima di conoscere una serie di persone, che poi sono state cruciali su questo fronte, non pensavo di poterlo fare. Avendo la erre moscia, pensavo di esserne automaticamente tagliato fuori. L’incontro con Edo e con il loro modo di intendere il freestyle mi ha aperto gli occhi.
Quel difetto lì, quella partenza con un punto in meno, non la sentivo più, capito? Non mi sentivo in nessun modo svantaggiato rispetto agli altri. Anzi, quando le regole del gioco sono uguali per tutti, puoi giocare su quello che ti rende diverso. Ognuno porta il suo stile, le sue cose. E in un simile contesto ci sta che ognuno dica quello che vuole. Io credo che ci sia un sacco di gente che non avrebbe mai fatto freestyle se non ci fosse stato un ambiente così costruttivo, che è, anche secondo me, la cosa più preziosa di tutto quello che si è costruito: un ambiente davvero safe.
Se posso dire un’altra cosa, io sono un grande sostenitore delle libere associazioni, che è quasi psicodinamica. Il fatto che tu, quando arrivi lì, qualcosa del tuo nucleo lo devi toccare volente o nolente. A me tante volte è capitato di dire cose e poi pensare: “Merda, non ci avevo mai pensato!”. Esce una parte di te.
Torniamo al Fungo, com’è nata questa idea? Sentivate la mancanza della forma freestyle in città? Avete sentito un’influenza da fuori?
Gian: Sicuramente nasce dall’esigenza di uno spazio. In parte era un’esigenza a cui avevamo già sopperito: andavamo a casa di Groomo e facevamo freestyle. A un certo punto si sono aggiunte delle persone: Sinos, Dessi, poi Drag… Man mano questi cerchi si sono allargati. Era il momento giusto, perché noi sentivamo la necessità che questa cosa si aprisse. Il periodo di incubazione tra noi era già durato un anno e mezzo. È stata una cosa detta così in una delle serate in cui eravamo insieme: “Oh, ma troviamo un posto!”. C’era l’opzione di farlo ai gradoni al Portello e, a posteriori, meno male che non l’abbiamo scelto: cioè, veniva giù il Piovego, polizia ogni martedì. Alla fine, siamo andati a fare un sopralluogo dove stiamo adesso io e Groomo. Arriviamo lì, lo guardiamo e ci chiediamo “Come lo chiamiamo?”. ”il Disco”. “No, ma non possiamo chiamarlo Disco”. A un certo punto lui fa: “Va beh, è tipo un fungo”. Quel giorno parlammo anche del fatto che stavamo facendo una cosa storica. Lo sapevamo. Eravamo consapevoli del fatto che il nome dato a quella cosa poi sarebbe rimasto.
Edo: L’esigenza era quella di spostarsi da un luogo privato a un luogo pubblico. E il pubblico poi ha iniziato a esserci. Il periodo è stato particolarmente azzeccato perché, sebbene questa cosa fosse già nell’aria, l’ultimo giro di chiave è stata la riapertura del Muretto a Milano, un luogo storico del freestyle milanese e nazionale. A partire da lì negli ultimi anni la scena è cresciuta molto ed hanno aperto anche altri muretti. Il freestyle è cresciuto come fenomeno e ora ci sono crew in giro per tutta l’Italia. Quindi ci siamo proprio detti che, se non lo avessimo fatto anche noi… Che cazzo! Questa cosa ci ha aiutati molto, perché adesso al Fungo c’è un botto di giro di gente delle Piramidi, che è il muretto di Venezia, e di Rimerie che è il muretto di Vicenza.
Vi siete sentiti accolti da questa città e dai suoi spazi?
Edo: Il fatto di vivere in una città studentesca garantisce un mercato in un certo senso, cioè una clientela enorme. Poi, per carità, noi facciamo le robe bene, ma il fare le robe bene è stata la soluzione che abbiamo trovato di fronte alla risposta dalla città.
Gian: Secondo me noi sottovalutiamo una cosa: gli spazi che abbiamo trovato non ce li ha dati nessuno, quello spazio è stato preso, letteralmente. Quando ci mettevamo a fare freestyle sotto i portici in via Belzoni nessuno ci ha detto “oh sì qui potete farlo”, ci mettevamo lì e se arrivava qualcuno che diceva di andarcene o di spegnere la musica ce ne andavamo.
Secondo me gli spazi per fare queste cose in generale non ci sono. Ciò non toglie che non sia una scusa: gli spazi, se li vuoi, li devi trovare. Se non c’è uno spazio, va creato. Se poi tu intendi gli spazi da un punto di vista di amministrazione, secondo me non è così disponibile la città.
Affrontiamo il rapporto con la volgarità e col politicamente scorretto…
Gian: Bellissima domanda questa, la sognavo. Si ricollega al discorso che facevamo prima, nel senso che, secondo me, il fatto che tu faccia parte di una minoranza o tu abbia una disabilità di qualche tipo, quando entri in un cerchio quella cosa viene totalmente messa da parte. Non esiste più. È un piano completamente scollegato. Nel momento in cui entri con la strumentale, c’è la base, sei uguale alla persona che hai di fronte. Tutto quello che ti rende diverso sarà quello che dirai. È come se uno si indignasse perché in uno spettacolo teatrale c’è un omicidio. Secondo me si può dire tutto, ovviamente le cose devono essere funzionali a un certo tipo di messaggio, non deve essere solo un modo per sfogare una rabbia. Essendo il freestyle un’arte trasparente, se dici una cosa con rabbia si nota e, a quel punto, non piace più così tanto. Le rime che capita di fare con rabbia ti assicuro che vertono su tutt’altre cose, non si formulano mai con volontà discriminatoria. Io banalmente se mi trovo davanti una ragazza utilizzerò comunque delle rime da battaglia, capito? Se c’è qualcosa che fa ridere, glielo dirò, perché, nel momento in cui facciamo freestyle, che tu sia una donna o che tu sia un omosessuale o faccia parte di una qualunque minoranza, non conta più niente. Quando stai rappando non esiste più minoranza sociale, perché non sei svantaggiato: non contano i soldi che prendi, non conta il lavoro che fai, non conta niente. Conta solo quello che dici e su quello che dici non sei svantaggiato.
Ma invece se noi guardiamo alla dimensione pubblica, al rapporto con un pubblico che magari non sta rappando, o che non conosce il Fungo e viene a sapere che vengono dette alcune cose, rispetto a questo cosa pensate?
Edo: tu dici tipo responsabilità sociale?
Sì, diciamo che potrebbe essere un modo per descriverlo, il senso di avere coscienza di come ciò che si dice può avere un effetto su persone che magari non hanno avuto modo di sapere quello che tu ora mi hai detto sul fatto che facendo freestyle si vive un certo stato d’animo.
Edo: Ci sono due modi di vederla. Ce n’è uno che è ben sintetizzato da un pezzo di Ice Cube, “Gangsta rap made me do it”. Fondamentalmente lui fa questo pezzo perché era un periodo in cui il gangsta rap veniva accusato di essere la causa dell’aumento della criminalità delle gang. Lui porta all’assurdo questa cosa. Dice che, se vengono dette certe cose o perseguiti certi stili, o se alcune battute funzionano più di altre, non significa che il tuo usare certe battute sia la causa della presenza di certi stereotipi all’interno della società. È semmai il fatto che quelli siano gli stereotipi a far sì che alcune battute funzionino. Questo è un modo di vedere la cosa. L’altro invece è un pezzo di Guru, uno dei rapper più forti di sempre. In Jazzmatazz 2, nello skit di apertura a “Watch What You Say”, c’è uno stralcio di un’intervista in cui gli chiedono “Cosa pensi del fatto che ci sia una responsabilità sociale?” e lui risponde che ognuno può fare il cazzo che vuole però “io ci sto attento, ma posso sbagliare essendo umano”. Insomma, tu puoi avere questa responsabilità, puoi prenderla ed è nobile prenderla, però non è una cosa che può essere richiesta, non è fra le clausole che tu accetti nel momento in cui vuoi fare l’artista. Secondo me le due citazioni unite possono rappresentare una risposta alla tua domanda.
Però secondo me, a un certo punto, diventa anche una questione stilistica. Se vai a una battle e un numero spropositatamente alto di artisti dice cose che ti fanno fare due domande, come insulti verso le madri o la n-word, capisci che non è solamente una questione che riguarda la società. Nel freestyle queste cose sembrano diventare una questione “stilistica”.
Gian: È grezzo. Il rap in generale, l’hip hop, nasce da un ambiente underground. Di concetto, l’hip hop se ne sbatte di quello che pensano le persone intorno. Hai presente Salmo? In un pezzo dice “questa generazione non crede più ai politici o ai santi, credono soltanto ai cantanti”, ovvero: chi fa le cose seriamente sembra che possa fare qualunque cosa, però tu che fai l’artista devi stare attentissimo. Invece, secondo me, nascendo da una cosa grezza, sporca, non so come spiegarlo, se la pulisci non è più vera, non è più lei nelle sue contraddizioni, nelle sue espressioni multiple. È così come per l’arte. Nel momento in cui scrivi un pezzo ci possono essere scritte delle sconcerie grossissime, perché magari quel pezzo lo hai scritto per un bisogno di sfogarti; e chi sei tu per venire a dire a me, che sto sfogando un’emozione che in quel momento mi pervade in maniera fortissima, “no, non devi esperirla! Non devi dirlo così, perché la gente ti ascolta!”? Io ti rispondo: “Se non vuoi ascoltare, non ascoltare”. Per quanto riguarda le accuse di razzismo, sarebbe meglio che ragionassimo sulla persistenza di un razzismo implicito nella società italiana e in ciascuno: meglio riconoscerlo che censurare le parole fingendo che non sia una condizione persistente dentro e fuori ciascuno di noi.
L’ultima cosa che vi chiedo su questo è se avete mai sentito la pressione o la volontà di censurarvi in alcuni casi? Se vi è mai venuto l’impulso di giustificare o di non legittimare un’espressione che un’altra persona aveva usato in un freestyle?
Edo: Non mi è mai capitato e mai mi permetterei, proprio perché, se qualcuno venisse a provare a correggermi dopo che ho fatto freestyle, posso immaginare come gli risponderei. Mi capita di limitarmi, ma non succede perché non posso dire certe cose, ma perché in quella situazione è per me vantaggioso dirne alcune piuttosto che altre. Io posso dire tutto quello che voglio, poi magari decido di evitare certi discorsi o certi argomenti, dire delle cose di un certo tipo piuttosto che di un altro, ma perché in quel momento la cosa che sto facendo è finalizzata a un obiettivo. Penso sia una caratteristica di base del saper fare freestyle, il fatto che ti moduli in relazione alla situazione, non perché devi ma perché lo sai fare e ti conviene.
Come si gestisce l’eredità del rap come musica di una classe subalterna? Pensate sia più importante quel che dite o quel che fate, è meglio una canzone di protesta o una pratica di protesta?
Edo: Il fatto che il rap sia nato sull’onda di un cambiamento sociale, non so se sia sintomo o causa. Entrambi, è stato… come si dice… un circolo virtuoso! Ciò che rimane, secondo me, è il fatto di avere dei principi, che sono gli stessi che portiamo e che permettono di far brillare il diverso. Quella è l’arma, il fatto di sdoganare certe cose. Vale anche con il femminismo: ci sono state donne nere che hanno fatto della musica della madonna e questo ha avuto degli impatti sociali incredibili. Questa cosa si ricollega anche alla seconda domanda, perché non c’è un meglio o un peggio fra una protesta nei fatti e una protesta in una canzone. Sono due cose diverse che fanno parte di quel circolo virtuoso che può diventare l’evoluzione di una società nel momento in cui va in una data direzione. Sono due ingredienti dello stesso cocktail, poi, magari, l’aspetto musicale nasce dopo l’aspetto sociale. Però, secondo me, sono due cose diverse: non c’è meglio o peggio.
Gian: L’eredità del rap. Secondo me noi facciamo un grande lavoro in questo. Il motto che io tengo come più importante nella mia testa è quello del keep it real. Ok? Sii reale! Sii vero! Secondo me è una cosa che facciamo tutti molto bene. Creare questi cerchi in cui tutti sono uguali è una grossa risposta al fatto che questa è una musica che viene dal basso. Tutti possono entrare e dire quello che vogliono. È estremamente inclusivo. Io credo fermamente ciò: giocare con le parole è una cosa che fai quando non hai nient’altro; la parola è a disposizione di tutti, quindi, non c’è niente di più popolare che giocare con le parole. Cacciare due rime e sparare due cazzate ti dà la possibilità di esprimerti, di metterti in gioco, di sfidare degli aspetti del tuo carattere, di sfidare la società e magari anche di fare la scalata sociale. Meglio un pezzo o un gesto? Meglio tutti e due, nel dubbio. Io ho scritto un pezzo politico con Bomber Citro. Avevo fatto un featuring da Karma, il cui bridge recita: «Se serve sporcare i quadri, li sporcheremo, distruggere il sistema, lo distruggeremo, se serve il modo giusto, lo inventeremo, e se serve appendervi a testa in giù, vi appenderemo». Quindi, secondo me, la canzone di protesta ha grande valore, il gesto alternativo anche. La creazione di una situazione alternativa è già politica… È come il discorso degli spazi che facevamo prima. Gli spazi non ci sono, creali. C’è qualcosa che non va, fai. Crea.
Ringraziamenti
Grazie! a tutte le persone che sono venute al Fungo, a partecipare, a vedere. Grazie a tutti proprio. Questo è uno spazio di tutti, finché rimane così è bellissimo e non esiste senza le persone che ci vengono. O meglio, esiste ma è meno figo.