con Laila Awad e Cecilia Dalla Negra
Quest’intervista è frutto dell’omonimo incontro nel quale Laila Awad di Giovani Palestinesi e la giornalista indipendente Cecilia Dalla Negra hanno trattato dell’apparente contraddizione tra la lotta di liberazione della Palestina e il femminismo, una contraddizione solamente apparente e strumentale, poiché “non esiste liberazione senza liberazione delle donne”. Buona lettura.
La Giornata internazionale della donna, in Palestina, ha avuto una sua caratterizzazione specifica, in base al contesto politico culturale in cui le donne palestinesi si trovano. A Cecilia chiedo di dare una panoramica su quello che è stato e che è l’otto marzo per le donne palestinesi in Palestina e nel mondo, e a Laila se vuole darci una restituzione personale di quello che è stato questo l(’)otto marzo dal punto di vista mobilitativo e più militante.
Cecilia: Come giornalista indipendente, mi occupo di Palestina da una ventina di anni e, da femminista, mi è venuto automatico appassionarmi della storia del movimento femminista palestinese. Per prepararmi alla chiacchierata di oggi stavo riguardando dei manifesti in un archivio che si chiama Palestine Poster Project. C’è una sezione dedicata alla lotta delle donne e all’otto marzo, attraverso la quale si vede come, anche in Palestina, sia sempre stata una giornata di lotta, una giornata che molto spesso le donne palestinesi hanno utilizzato anche come espediente, come momento catartico, per lanciare delle iniziative molto importanti.
Sono dei frammenti di storia che ci restituiscono la testimonianza del percorso dei movimenti femminili e femministi palestinesi che ha origine alla fine dell’Ottocento e che accompagnerà tutta la storia del Novecento.
Le donne palestinesi hanno un ruolo fondamentale nel guidare la resistenza e nell’influenzare il movimento di liberazione nazionale con le proprie istanze durante tutto questo periodo. L’otto marzo del 1978 nascono i comitati di lavoro delle donne, che gettano le basi per quelli che saranno i comitati di resistenza popolare della prima Intifada. Sono dei gruppi di lavoro femminili e femministi, animati da una generazione che riprende la genealogia delle donne che l’ha preceduta, ma che sviluppa un approccio intersezionale e che inizia a elaborare la lettura della duplice oppressione e dell’intersezione che esiste tra il colonialismo d’insediamento e l’oppressione patriarcale, sviluppando lo slogan divenuto fondamentale nel corso della storia recente: Non esiste liberazione della patria senza liberazione delle donne. Negli anni Sessanta le donne palestinesi prendono parte attiva alla resistenza armata ed emergono figure importantissime come Maryam Abu Daqqa e Leila Khaled, figure iconiche che faranno la storia; ci sono però centinaia di donne che prendono parte alla resistenza, anche armata, e che finiranno nelle carceri. L’otto marzo del 1984 viene posto fine al lunghissimo sciopero della fame lanciato dalle prigioniere politiche palestinesi nelle carceri israeliane, durato oltre un anno, in cui, oltre a lottare per vivere in delle condizioni più umane, porteranno all’interno delle carceri israeliane la lotta per smarcarsi definitivamente dall’idea che le donne abbiano bisogno di protezione da parte degli uomini. L’otto marzo del 1988, nel pieno della prima Intifada, nella Giornata internazionale della donna verranno organizzate oltre cento manifestazioni femminili in tutta la Palestina storica, che getteranno le basi per la creazione dei comitati di resistenza popolare della prima Intifada. Tutte le analisi femministe palestinesi riconoscono che, oltre ad essere stata una pagina importante nella storia della resistenza palestinese, è stata anche una pagina di soggettivazione femminista per le donne. I comitati di donne della resistenza popolare svolgeranno un lavoro fondamentale nei villaggi assediati, in un’ottica sia di resistenza che di mutualismo sociale, di mutualismo conflittuale, e allo stesso tempo porteranno avanti un importantissimo lavoro di autodeterminazione e di formazione. Vedono la luce tanto cooperative femminili che hanno come obiettivo, oltre a quello di sfidare l’occupante, quello di formare le donne e renderle indipendenti.
É molto importante la molteplicità dei piani d’azione che le donne palestinesi hanno sempre tenuto presente: la dimensione di lotta più strettamente politico militante, di resistenza attiva, anche di partecipazione alla lotta armata, si intreccia con la dimensione sociale, apparentemente meno politica; non possono essere scisse in quanto facce della medesima visione. Uno delle degli aspetti più importanti è il mantenimento dell’identità di fronte al tentativo di oppressione, quello che viene chiamato Sumud, la capacità di rimanere uniti, di mantenere insieme un’identità collettiva di fronte al tentativo di annientamento portato avanti dal colonialismo di insediamento israeliano, di cui le donne saranno assolute protagoniste, politicizzando anche il focolare domestico. Nelle immagini, nei poster, c’è tutta una simbologia che ha a che fare con la lettura interna che riconosce alla donna un ruolo fondamentale; non soltanto quello della donna militante che imbraccia il fucile con la kufiya in testa, ma anche della donna in una dimensione più intima, più privata, ma non per questo meno politica.
Laila: I poster di cui parlava Cecilia sono immagini che ci danno uno spaccato sulla lotta femminista palestinese. Prima dell’otto marzo mi è capitato di vedere un poster che ritraeva il movimento armato delle donne etiopi e la scritta principale che riportava era Liberation through struggle, liberazione attraverso la lotta. Questa è un’ottima sintesi di quello che significa l’esperienza femminista palestinese e di quello che ha significato nel tempo. La lotta delle donne palestinesi ci può dare degli strumenti utili; l’insegnamento politico che ci da questa storia è quello di capire il legame inscindibile che esiste tra l’imperialismo e il patriarcato, tra l’imperialismo e l’oppressione di genere. Le femministe palestinesi hanno individuato in questa contraddizione il nucleo fondante della loro lotta e hanno capito attraverso la lotta che il movimento di liberazione nazionale è il passo necessario per l’emancipazione sociale e, di conseguenza, per il superamento delle disuguaglianze di genere. Patriarcato, violenza di genere e disuguaglianza di genere sono uno strumento dell’imperialismo.
Ci sono numerosi modi in cui il colonialismo esercita un controllo ferreo sulle donne palestinesi. Il diritto di muoversi non esiste per le donne palestinesi, come il diritto alla vita e alla salute, a Gaza e nel resto della Palestina: se una donna palestinese si trova in Cisgiordania, ha bisogno di cure mediche e non può avere accesso a queste dove si trova, deve necessariamente spostarsi attraverso i checkpoint israeliani, disseminati in tutto il territorio palestinese; il suo movimento viene impedito e molto spesso i checkpoint sono luoghi non solo di violenza, ma di morte. Per avvicinarci all’otto marzo, il fatto che le donne palestinesi abbiano individuato come contraddizione principale quella tra colonizzatore e colonizzato per noi deve essere fondamentale, perché ci permette di arricchire la lotta femminista in Italia; diventa evidente se proviamo a pensare alle differenze che ci sono tra il femminismo palestinese e un femminismo di tipo liberale.
L’otto marzo di quest’anno, come Giovani Palestinesi, abbiamo individuato la necessità di accogliere l’appello delle nostre compagne palestinesi, che ci hanno chiesto di agire concretamente per fermare il genocidio, e abbiamo visto nell’Otto marzo l’opportunità migliore per farlo, con, ad esempio, dei blocchi diretti alle fabbriche di armi come la Leonardo. Questo per noi è stato sia un punto fondamentale, parte di un percorso, che ci ha permesso di accogliere l’appello fatto dalle nostre compagne, sia un esempio della portata, di quale estensione può avere la nostra azione, che non deve essere solo momento formativo ma momento di piazza e di azione concreta, diretta, che può comportare un certo grado di repressione. Nella costruzione di questo momento ci siamo dovute scontrare con alcuni muri, come la seguente questione posta da una compagna nella costruzione del blocco alla Leonardo: “Questa iniziativa potrebbe presentarsi come una competizione alla piazza dell’otto marzo organizzata da Nonunadimeno (di cui la compagna non fa parte)?”. No, Non è una competizione, possono coesistere momenti diversi.
Il problema di questo tipo di opposizioni deriva da una assenza di politica in alcuni settori del cosiddetto femminismo mainstream. Bell Hooks scriveva che la cosa peggiore che può capitare al femminismo è che venga tolta la politica dal femminismo. Quando analizziamo la condizione materiale del nostro popolo e la condizione in cui noi ci inseriamo nella lotta di liberazione, capiamo che il nostro ruolo l’Otto marzo era precisamente quello. Il problema del femminismo liberale è più ampio. L’assenza di politica e di un’analisi materiale si manifesta non solo in un’attitudine razzista e islamofobica verso le donne arabe e le donne musulmane, ma ci riduce a un nichilismo o un’analisi che diventa accademica, individualista. Quello che invece ci insegna il movimento delle donne è che la liberazione può essere raggiunta e viene raggiunta attraverso la lotta, che non è individualista ma collettiva, e alla quale prendiamo parte analizzando il nostro ruolo nella società, combattendo l’immobilismo in cui siamo immersi. Utilizziamo l’analisi e il portato storico come una bussola, facciamo sempre anche autocritica nei nostri stessi movimenti.
Forse, un fattore alleato nell’operazione genocida che sta compiendo Israele è proprio la narrazione della donna come “donna universale” che ha permesso di effettuare paragoni tra l’esperienza della donna colonizzata e l’esperienza della donna parte del sistema che colonizza e che sopprime. L’accusa nelle inchieste sugli stupri compiuti da Hamas nei confronti delle donne israeliane è stata strumentalizzata politicamente e questo ha permesso di mettere sullo stesso piano la donna israeliana e la donna palestinese, come se l’appartenenza di genere fosse un fattore escludente qualsiasi altra differenza di identità, di diritti, di momento, di luogo e di contesto politico in cui si sta vivendo. Vi chiedo di approfondire sia come è stata percepita questa relazione sia il tema dell’inchiesta effettuata dal New York Times a riguardo.
Laila: Un esempio del funzionamento della propaganda sionista e imperialista è stata l’eclatante questione dei quaranta bambini decapitati. Pur non avendo alcuna conferma, la storia è stata diffusa da tutte le principali testate occidentali con una rapidità e una mancanza di sfumature clamorose. Notizie come queste sono efficaci, perché non hanno bisogno di prove per diffondersi, per fornire un supporto all’azione genocidaria che Israele sta portando avanti. Si fondano sulla prova, che esiste già prima della notizia, nella mente collettiva occidentale, sulla consapevolezza profonda che effettivamente gli uomini arabi sono dei barbari, che effettivamente l’Islam è una religione oppressiva, violenta; non c’è uno scarto tra la nostra consapevolezza interiorizzata e la notizia ci viene riportata.
L’inchiesta del New York Times presenta fin dall’inizio molte lacune. Innanzitutto, la persona incaricata come reporter, Anat Schwartz, non ha esperienze precedenti con reportage d’inchiesta. In secondo luogo, la linea di pensiero della reporter viaggia sullo stesso piano di chi in questi mesi ha scritto “dovete trasformare Gaza in un mattatoio”, “questi palestinesi sono animali umani”. Affidarle quest’inchiesta non è stata una disattenzione, ma una scelta degli alti ranghi. Successivamente, in un podcast israeliano, la reporter afferma di non aver mai trovato prove del fatto che Hamas avrebbe usato lo stupro come arma di guerra sistematica il 7 ottobre, se non la testimonianza (anonima) di un operatore dell’unità medica 669 israeliana, che sosteneva di aver ritrovato i corpi di due ragazzi morti, con evidenti segni di violenza sessuale, in un kibbutz specifico. Schwartz non riesce a individuare il kibbutz in questione né le prove di altri dettagli riferiti dal testimone. Ciononostante, questa testimonianza ha fornito a Schwartz la prova della sua tesi.
Questa inchiesta è stata strumentalizzata e usata come arma in modo esplicito; parla di un uso sistematico da parte di Hamas dello stupro come arma di guerra ed è stata utilizzata per rispondere ad Hamas, uccidendo e continuando a uccidere più di 32.000 persone. Noi ci siamo dovute scontrare e continuiamo a scontrarci con questo, sempre per la questione che questo tipo di dichiarazioni nella mente collettiva occidentale hanno già una prova. Ci viene ciclicamente riproposto di confutare qualcosa di falso per provare che il nostro popolo ha diritto a vivere.
Cecilia: È evidente che dal 7 ottobre in poi, non ci troviamo davanti al giornalismo ma a propaganda di guerra. Il giornalismo ha un’enorme responsabilità. Il meccanismo di misinformation, informazione parziale, distorta, non verificata, attraversata da bias culturali, fino a vere e proprie fake news, è strumentale a rendere più accettabile il massacro e lo sterminio di una popolazione. È un meccanismo di retorica demonizzante nei confronti dei popoli. L ‘uso continuo del framework del terrorismo relativamente al soggetto di Hamas, ai miliziani e di conseguenza alla popolazione palestinese, è problematico da un punto di vista giornalistico, perché è una categoria di valutazione morale, estremamente politica, che non rende i contesti leggibili con lucidità, ma rende più accettabili alcune cose. Se noi evochiamo la cornice del colonialismo e l’insediamento israeliano e non del conflitto, è del tutto pacifico leggere Hamas e le fazioni della resistenza palestinese come soggetti politici che stanno portando avanti la lotta di liberazione nazionale.
L’inchiesta sugli stupri è stata funzionale perché è stato un tentativo di imbavagliarci, di schiacciarci in un angolo, di porci in una posizione di difesa delle nostre posizioni, e con “ci” intendo noi donne bianche occidentali. Il messaggio era chiaro: “Scendi in piazza, dici – Sorella, io ti credo -, e poi di fronte agli stupri, usati come strumento sistematico di guerra da Hamas, non alzi la voce”. Non escludo che ci siano stati degli stupri, perché lo stupro di guerra viene utilizzato in tutti i conflitti, ma questo non implica porre sullo stesso piano soggettività colonizzate e soggettività che agiscono la colonizzazione, quando spesso sono donne quelle che agiscono violenza su altre donne; i checkpoint di cui parlava Laila, nell’analisi femminista teorica palestinese, sono luoghi di violenza patriarcale e violenza coloniale, e spesso sono donne israeliane in armi che usano queste violenze verso le donne palestinesi oppresse. Non siamo tutte uguali perché siamo donne. C’è un problema di posizionamento, di come siamo situate. Questo ci spiega perché per le donne palestinesi sia stato più facile creare alleanze con altre donne razzializzate, con donne nere, afrodiscendenti, con tutti i movimenti del Sud del mondo globale. All’interno delle Black Panthers si è sviluppata la stessa dinamica quando negli Stati Uniti inizia ad essere diffuso il mito dello stupratore nero, e le donne nere hanno dovuto lottare per un proprio spazio di soggettivazione all’interno di movimenti che erano basati sull’immaginario maschili. Questo vale anche per la lotta di liberazione palestinese. I compagni maschi hanno chiesto alle donne palestinesi di fare un passo indietro, perché la liberazione nazionale era prioritaria rispetto a quella di genere. È lì il gesto rivoluzionario, rifiutare questa gerarchia delle priorità, dire che non esiste una lotta che prima dell’altra. Sono state anche capaci di non cadere nella strumentalizzazione politica che si faceva nell’accusa ai loro uomini. Dopo la diffusione di questi report, i collettivi femministi hanno subito preso le difese dei loro fratelli, dei loro padri, dei loro compagni di lotta, hanno assunto un posizionamento che noi persone occidentali non siamo state capaci di leggere da subito. Qui si dimostrano fondamentali le relazioni con le amiche, con le compagne palestinesi, basate sulla fiducia, che sono state spazio di confronto e di affidamento in questa rottura. Si parla di decolonizzazione, decolonizzare lo sguardo, le pratiche. Vuol dire proprio questo, essere consapevoli del proprio privilegio, capire che fuori dal trauma coloniale certe nostre letture saranno deviate, e quindi affidarci alla voce di chi abita quel margine. Come direbbe Bell Hooks, deve essere chi porta sulla propria pelle la ferita del piano coloniale a prendere parola, a dettarci la linea e a dettarci le pratiche.
Laila: La formula citata da Cecilia, “Sorella, io ti credo”, è una pratica della lotta femminista nel momento in cui una compagna, una sorella, denuncia una violenza, perché non c’è bisogno di aspettare l’opinione della persona che avrebbe esercitato la violenza. Questo principio ha un senso perché si basa sul fatto che nel nostro contesto c’è ancora una grande differenza tra l’eco che ha una voce maschile e quella di una persona non maschile. Quando guardiamo il contesto palestinese dobbiamo chiederci dove sta la differenza di eco, la differenza di spazio, che queste voci, la voce della persona colonizzata e quella della persona colonizzatrice, possono raggiungere. Spesso in Occidente la causa palestinese viene interpretata come una causa umanitaria. Non si può ridurre la causa palestinese a un sentimento, non c’è bisogno di una lettura moralistica della causa palestinese o del mondo arabo, ma di analizzare la realtà, le condizioni materiali e la necessità della liberazione.
Un altro aspetto che può connettere, ma soprattutto mettere a confronto la lotta transfemminista che stiamo vivendo in Italia, in Veneto, a Padova, con quella delle donne palestinesi, è quello della dimensione domestica. In Italia, parlando di femminicidio, di violenza di genere, si pensa alla violenza domestica. Per noi il patriarcato ha la sua manifestazione prima proprio nella casa. Sembra invece che per le donne palestinesi il rapporto tra lo spazio pubblico e il contesto intimo casalingo sia molto differente: in uno spazio pubblico la pericolosità è alle stelle, mentre il focolare domestico rappresenta un luogo di intimità, di memoria, di resistenza. Partendo da Cecilia, proviamo ad approfondire questo aspetto.
Cecilia: C’è una vastissima militarizzazione dello spazio pubblico, che ha un effetto diretto sullo spazio privato. Alcuni studi parlando di come la normalizzazione della violenza nello spazio pubblico crei un ambiente autorizzante per il perpetrarsi della violenza in tutti gli altri spazi. Nelle analisi femministe-palestinesi viene chiamata genderizzazione della violenza coloniale, ovvero come la violenza coloniale conquisti tutte e tutti in Palestina, ma abbia degli effetti soprattutto sulle donne. Laddove lo spazio pubblico non è uno spazio libero, sicuro, la casa diventa lo spazio in cui si torna umani e i corpi non sono più esposti alla violenza.
Questo è un elemento che inizia a emergere soprattutto nel 1948, in seguito alla Nakba, con una frammentazione della società palestinese; la casa è il luogo in cui si tenta di ricomporre un’identità che viene negata, l’identità di una comunità completamente frammentata, alla quale è negata la stessa esistenza. La casa diventa, per dirla come Bell Hooks, sito di resistenza, e non è un caso che questa politicizzazione dello spazio domestico (agita principalmente dalle donne) sia un tipo di analisi che si ritrova nel femminismo nero, nel femminismo di matrice indiana, nelle nostre società e nelle nostre città per quanto riguarda le persone razzializzate, che nello spazio pubblico sono percepite come minaccia e soltanto quando rientrano in un ambiente privato e domestico possono tornare ad essere umane.
Guardiamo alle altre pratiche di soggettivazione in maniera spesso distorta, perché applichiamo le nostre categorie, ma quando ci rapportiamo con esperienze diverse dalla nostra, dobbiamo farlo con uno sguardo decolonializzato.
Questa prospettiva sembra cozzare con il concetto di empowerment, un concetto nato nel femminismo nero con un’ottica politica e collettiva, ma poi passato nel femminismo bianco liberale, diventando qualcosa che rifiuta la dimensione della casa e viene condotto a livello individualistico nel mondo del lavoro.
Cecilia: Il concetto di empowerment in realtà è un prodotto occidentale. È un termine, un concetto malato, che è tipico del mondo delle ONG e della cooperazione internazionale, che in Palestina hanno creato danni inenarrabili. Dopo la tragedia degli accordi di Oslo, si ha l’ingresso delle ONG internazionali in Palestina e questo provoca lo slittamento molto forte dei movimenti sociali, politici, anche femministi, perché avviene un processo di depoliticizzazione, di deradicalizzazione delle istanze e dei movimenti, in quelli femministi in particolare; si sviluppa l’idea che per ottenere un sostegno e finanziamenti internazionali sia necessario adeguarsi alle agende internazionali, che di certo non inneggiano a una rivolta femminista popolare. C’è uno snaturamento di tutto quello che era stato il patrimonio politico collettivo costruito. È stata analizzata la portata di questo processo, che oggi viene rifiutato, soprattutto alla luce del fatto che per casa non si intendono solo le quattro mura domestiche, ma il villaggio, la comunità e tutto ciò che vi ruota intorno, come la pratica della home economy, dell’economia domestica, una pratica che le donne hanno utilizzato in un’ottica di mutualismo conflittuale. Queste pratiche di mutualismo conflittuale sono state molto spesso agite dalle donne, e nei villaggi assediati, si sono sviluppate sia nell’ottica di sopravvivere, che in quella di sfidare la potenza occupante, di boicottare l’economia occupante, tenendo sempre insieme la doppia direzione di lotta e di emancipazione autodeterminata. Attraverso la partecipazione attiva e la lotta impongo la mia presenza, il mio ruolo nello spazio pubblico, nella lotta di liberazione.
Laila: Per rispondere possiamo opporre anche delle parole chiave. Quando si parla di empowerment in senso liberale, si parla di un’impostazione essenzialmente individualista, quando si parla di quello che accade grazie alle donne e il movimento femminista in Palestina, si parla di qualcosa di collettivo; quando si parla di empowerment in senso liberale si parla di qualcosa che non sfida in alcun modo lo status quo, quando si parla delle pratiche femministe palestinesi si parla di una pratica rivoluzionaria.
Tutte le immagini sono state recuperate dall’archivio Palestine Poster Project.