Intervista a Bruno Anastasia sulla salute del mercato del lavoro veneto
di Emanuele Caon
I dati sul Veneto parlano di occupazione in crescita, tanto che in tantissimi settori le imprese lamentano mancanza di personale. Stando così le cose dovrebbe aumentare il potere contrattuale delle lavoratrici e dei lavoratori: forse per questo stanno aumentando i contratti a tempo indeterminato? Eppure, i salari restano ancora bassi. Perché? Abbiamo intervistato Bruno Anastasia per cercare di capire che cosa si nasconde dietro ai numeri.
Bruno Anastasia si occupa di analisi del mercato del lavoro. Fino al 2019 è stato responsabile dell’Osservatorio sul mercato del lavoro regionale di Veneto Lavoro. È stato presidente del Coses di Venezia e presidente dell’Ires Veneto. Ha partecipato all’attività della Commissione di Indagine sul lavoro di iniziativa interistituzionale Cnel-Camera dei Deputati-Senato. Attualmente è membro della redazione di Economia e società regionale e collabora con Lavoce.info.
Credi che sia possibile discutere di una specificità veneta per quanto riguarda l’economia e il lavoro?
Sì e no. In Italia le differenze regionali esistono, quindi c’è una differenza veneta. Ma sotto il profilo congiunturale quello che succede in Veneto è una variazione di ciò che succede in Italia, non c’è possibilità che il Veneto abbia un ciclo economico originale: siamo legati agli andamenti nazionali ed europei. Aggiungici che i dati regionali, rispetto a quelli nazionali, sono meno abbondanti, spesso meno tempestivi e di conseguenza le analisi delle differenze tra regioni per quanto riguarda gli andamenti congiunturali non sono esattamente agevoli. Certo è più facile leggere le differenze strutturali tra le macroaree: tra il Nord e il Sud, nel caso italiano. Se poi vogliamo concentrarci su aspetti specifici, troviamo che la scala regionale a volte non è quella adatta: se vuoi veramente capire fenomeni locali (distretti industriali, formazioni sociali specifiche, dinamiche metropolitane, etc.) bisogna andare proprio sulla dimensione territoriale specifica.
Guardando i numeri dall’alto si vedono alcune contraddizioni. Per esempio: Veneto terzo Pil d’Italia, ma allo stesso tempo con retribuzioni più basse della media delle regioni del centro Nord. Come te lo spieghi?
Se paragoni il Veneto al Lazio e alla Lombardia noti subito dei salari medi più bassi, ma in questo caso la spiegazione è abbastanza semplice. Il Lazio concentra per motivi storici (Roma capitale) tantissima dirigenza del lavoro pubblico e comunque un lavoro pubblico molto consistente. La Lombardia ha al centro Milano, con una presenza rilevante di ruoli dirigenziali: anche in questo caso troviamo stipendi medi più alti. Il Veneto storicamente non ha sviluppato molto il lavoro pubblico e, data la prevalenza di piccole imprese, non ha certo sovrabbondanza di stipendi da quadri e dirigenti. Le retribuzioni medie venete sono quindi condizionate da alcune caratteristiche strutturali di lungo periodo: minore presenza di centri decisionali, carenza di attività terziarie sofisticate; un peso rilevante di piccole imprese che tendono ad avere gerarchie manageriali corte e quindi pochi dirigenti, ma anche una maggior esternalizzazione di funzioni tecniche e professionali.
Forse così puoi spiegare un’altra contraddizione particolare. Sempre a guardare i dati si vede che sì, in Veneto si guadagna meno rispetto ad altre regioni del centro-nord, ma la nostra sembra essere la regione con meno disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.
Se entri un po’ nel dettaglio, per esempio esplorando gli Osservatori Inps, noti che le retribuzioni in Veneto hanno una tendenza: chi è inquadrato come operaio tende a guadagnare qualcosa in più rispetto alla media nazionale, chi invece è inquadrato come impiegato percepisce un po’ meno delle medie nazionali, con differenze che vanno ad aumentare proprio per le figure di quadri e dirigenti. In generale però tutta Italia si mostra, a livello di retribuzioni, meno diseguale di altri stati europei, perché al crescere delle mansioni gli stipendi salgono poco. In Francia e Germania – oltre al fatto che i ruoli dirigenziali sono numericamente maggiori che in Italia – le differenze tra gli stipendi dei quadri e degli operai sono più alte. Ne deriva che sono paesi più diseguali del nostro, almeno con riferimento alla distribuzione salariale. Inoltre, bisogna ragionare bene sugli obiettivi. Livelli bassi di disuguaglianza con stipendi diffusamente bassi ci fanno contenti? Senza contare che il tema della disuguaglianza non investe solo le retribuzioni, ci sono tanti altri fattori da tenere in considerazione (redditi complessivi e intrecci di redditi nella famiglia; patrimonializzazione; proprietà della casa, etc.).
Sul mercato del lavoro cosa puoi dirmi? In Italia la disoccupazione sembra ai minimi storici, ma questo come sta insieme con la percezione di un paese in profonda crisi?
Proviamo a partire dai fatti certi, perché poi si tratta sempre di interpretare i numeri e le statistiche ti aiutano se le interroghi avendo chiari i tuoi obiettivi e rispettando il modo in cui esse sono costruite, altrimenti è facile andare fuori strada. I fatti sono questi. Nel periodo post Covid la disoccupazione è scesa ed è aumentato il lavoro dipendente a tempo indeterminato. Questi sono fatti consistenti perché la crescita degli impieghi a tempo indeterminato confligge con la narrazione sulla precarizzazione continua e crescente. Strutturalmente crescono più gli addetti nel terziario che nell’industria, ma questo è un trend di lungo periodo.
Il fatto che aumenti il lavoro dipendente è automaticamente crescita dell’occupazione?
Le aziende stanno espandendo il ricorso a manodopera direttamente dipendente e quindi vediamo la crescita delle assunzioni. Certo, c’è anche un travaso (nelle statistiche) dal lavoro autonomo al lavoro dipendente. C’è un andamento storico per il quale in questo secolo il lavoro indipendente sta diminuendo con riferimento soprattutto alla componente italiana (gli stranieri danno un contributo ad arginare il declino). Va specificato che l’Italia – come il Veneto – veniva da una situazione anomala nel panorama dei paesi capitalistici: il nostro paese aveva una quantità molto più alta di lavoro autonomo (imprenditori, artigiani e commercianti, collaboratori familiari, professioni ordinistiche e non, parasubordinati) rispetto al resto dell’Europa. Il declino del lavoro autonomo si deve anche al fatto che si sono ridotte tante posizioni marginali perché la soglia d’ingresso (e di mantenimento della posizione) – in termini di adempimenti burocratici, competenze, etc. – si è innalzata… Occorre ricordare, inoltre, che dentro la crescita del lavoro dipendente c’è la crescita del part-time, del lavoro somministrato, degli stagionali. In alcuni casi c’è stata regolarizzazione di lavoro nero, negli anni Settanta-Ottanta ancor più diffuso di oggi: in tal caso c’è crescita dell’occupazione regolare, non dell’occupazione totale. Infine, c’è una dinamica demografica che ormai si fa sentire, la popolazione in età attiva in Italia e in Veneto diminuisce dal 2014, quindi l’andamento del tasso di occupazione ne risulta agevolato, perché un incremento del valore assoluto degli occupati genera un effetto ancora maggiore sul tasso di occupazione.
Insisto, tutto questo però come sta insieme con la percezione di un lavoro povero diffuso? Gli indicatori macro-economici ci dicono che quando sale l’occupazione dovrebbe aumentare la forza contrattuale di lavoratrici e lavoratori, perché allora gli stipendi non migliorano?
Negli ultimi vent’anni è aumentato sì il lavoro dipendente, ma soprattutto il part-time e il lavoro a bassa continuità (cioè per un numero limitato di mesi all’anno). L’effetto è che, dopo la grande crisi 2008-2013, l’occupazione si è allargata ma la dinamica modestissima (tendente a zero) del salario medio reale effettivo riflette la crescita di occupazioni con bassi salari effettivi, condizionati dalla bassa partecipazione (impieghi a part time e/o discontinui). Per fare un esempio, se l’anno scorso lavoravamo in due a full time a 30.000 euro lordi (media 30.000 euro) e quest’anno invece lavoriamo in quattro, due a full time a 30.000 euro e due a part-time a 20.000 euro (media 25.000) mi trovo a registrare che sono raddoppiati gli occupati ma è diminuito il salario medio effettivo pro capite, essendo passati da 30.000 a 25.000. Se mi dimentico che è aumentata l’occupazione, leggo solo il dato negativo dell’abbassamento del salario medio.
Sai dare una spiegazione all’aumento del lavoro part-time e a bassa continuità?
Si tratta di fenomeni di lunga durata legati soprattutto al superamento del fordismo, all’aumento della varietà della produzione e dei consumi, alla maggior articolazione dei bisogni sociali. Tutta la società, grazie anche alle tecnologie, è andata strutturandosi in modi meno massificati. In passato la quota di lavoro nero probabilmente (non ci sono sul tema statistiche sicure) era più alta di oggi (lo vediamo comunque nei buchi contributivi delle generazioni che sono andate in pensione) e c’era tutta una quota di flessibilità lavorativa che stava fuori dai rapporti di lavoro regolari. Se guardiamo le statistiche degli anni Settanta e Ottanta vediamo che pochissimi maschi tra i cinquanta e i sessant’anni lavoravano: e viene automatico un retro pensiero: che facevano? Non lavoravano? Difficile crederlo. Tante attività un tempo marginali sono entrate nell’ambito del lavoro dipendente, anche se certo mica il lavoro nero è stato cancellato. Inoltre in passato molte posizioni si configuravano come “collaborazioni familiari” (nell’artigianato, nell’agricoltura, nel commercio), oggi sono sostituite soprattutto da impieghi regolari di dipendenti. Certo, a volte con posizioni discontinue, come nel caso tipico dei lavori stagionali che aumentano quanto più il turismo “tira”. Bisogna essere consapevoli che nel sistema esistono di fatto posizioni di lavoro a termine che non riflettono sempre ed esclusivamente le necessità per le imprese di indebolire il fronte sindacale, ma derivano dall’articolazione della struttura produttiva e della domanda dei consumatori. Abolire le fattispecie contrattuali che generano il lavoro a termine può sembrare la “via maestra” per superare la precarietà. Ma questa, scacciata dalla porta, può benissimo rientrare dalla finestra sotto forma di lavoro nero. E non sarebbe un gran risultato.
Quindi secondo te una delle cause del lavoro povero è da ricercare nella bassa intensità del lavoro? Poche ore o poche settimane di lavoro…
È uscito un articolo utile di Francesco Armilleri e Ivan Lagrosa su Lavoce.info. Gli autori stimano che il 29% di chi lavora sia sotto la soglia di povertà lavorativa, ma mostrano che se si va ad agire solo sulla paga oraria il miglioramento è piccolo perché la povertà lavorativa è causata soprattutto dalla scarsa partecipazione. Quindi bene che si discuta di salario minimo, ma il problema non finisce lì. Se anche tu fissi un salario minimo ma poi una quota consistente di lavoro resta part-time o stagionale non hai risolto il problema del lavoro povero. Gli autori fanno i conti: con un salario minimo a 9 euro l’ora il numero di persone in povertà lavorativa scende dal 29% al 27,5%: pochissimo!
Faccio un passo indietro. Abbiamo parlato della quota consistente di lavoro part-time e stagionale, ma all’inizio mi hai detto che sta crescendo l’indeterminato…
Ovviamente il lavoro indeterminato può essere part-time, quindi non c’è necessariamente contraddizione. Ma guardiamo meglio gli andamenti recenti. A partire dal 2014 si entra in una fase di ripresa economica, di recupero dopo le perdite determinate dalla crisi innescata negli Stati Uniti nel 2007-2008. In Italia, contestualmente al Jobs Act (2015), vengono introdotti incentivi inediti e molto consistenti per le assunzioni a tempo indeterminato (fino a 24.000 euro in tre anni). Ciò determina a partire dalla fine del 2015 un aumento assolutamente consistente del lavoro a tempo indeterminato, mentre si riduce quello a tempo determinato. Ciò satura il mercato (le imprese hanno anticipato al 2015 assunzioni a tempo indeterminato che altrimenti avrebbero fatto successivamente) e negli anni successivi il lavoro a tempo indeterminato si stabilizza mentre riprende a crescere quello a tempo determinato (spinto poi anche dalla chiusura nel 2017 dei voucher). Nel 2018-2019 il decreto dignità voluto dai Cinque Stelle, che irrigidisce la normativa sul tempo determinato, induce le imprese ad accelerare le trasformazioni dal tempo determinato all’indeterminato. Quando arriva il Covid a saltare sono i rapporti di lavoro a tempo determinato, mentre il tempo indeterminato resta congelato (attraverso la cassa integrazione e il divieto straordinario di licenziamento). Dopo il Covid ci si poteva attendere soprattutto il ritorno del tempo determinato, come normale dopo le crisi e nelle fasi iniziali di ripresa, quando i primi contratti di solito sono a tempo determinato. Paradossalmente, invece, è cresciuto soprattutto il tempo indeterminato.
Perché?
L’ipotesi che si può fare è che le imprese hanno bisogno, in un contesto di occupazione crescente e di demografia calante, di fidelizzare i lavoratori: allora si assume più spesso a tempo indeterminato. E ciò anche a causa del problema ben noto del mismatch tra domanda e offerta: la richiesta di figure professionali non si sta incontrando facilmente con le aspettative o le qualifiche di chi si candida a lavorare. Non ci si meraviglia se in questo contesto vi è un aumento di offerta di contratti a tempo indeterminato. C’è da chiedersi perché questa necessità abbia scarse ricadute sui salari. Ovviamente non è solo il salario a dare la soddisfazione per il proprio lavoro, ma indubbiamente è una componente centrale. Qui il tema riguarda strettamente anche l’azione sindacale.
Ti sottopongo un ragionamento che ti chiedo di commentare. La mia impressione è che il Veneto più che un caso particolare, sia un caso emblematico del sistema Italia. Un’economia in cui manca un ruolo di coreografia dello stato, che infatti promuove scarsi o nulli interventi di politica industriale e quindi si mostra poco capace sia di direzionare e coordinare il sistema produttivo, sia di favorire ricerca e sviluppo. La nostra sembra al limite una politica industriale fatta di aiuti e sgravi fiscali. Il tutto in un modello Italia che si orienta sempre più sul turismo e sui servizi a basso costo, rinunciando ad avere una manifattura che fa da traino. Mentre se un paese vuole essere economicamente solido deve avere una manifattura capace di posizionarsi in alto nelle catene di produzione del valore.
La politica industriale italiana non è certo una storia di successi. Ma occorre anche problematizzare il giudizio che hai formulato. Nonostante tutto la manifattura italiana è la seconda in Europa per dimensioni. Inoltre, l’export italiano funziona ancora, la bilancia commerciale infatti è in positivo, sia per il Veneto che per l’Italia. Però ci raccontiamo che da trent’anni la crescita non c’è e i salari reali sono bloccati, se non addirittura diminuiti Ma la domanda è: perché non siamo ancora collassati?
C’è una questione di qualità, non solo di quantità rispetto all’industria. Per esempio, non conta solo quanta gente lavora e per quante ore, ma anche quanto rende un’ora di lavoro in Italia rispetto ad altri contesti. Questa azienda che mi paga poco è senza margini e mi devo accontentare o siamo dentro la mitologia e invece i profitti ci sono e posso chiedere di più? La questione può essere vista anche da un’altra prospettiva, le aziende italiane sanno stare sul mercato solo comprimendo i costi della forza lavoro? Stanno veramente così male?
Lo stato di salute delle imprese è un interrogativo importante. Le aziende italiane hanno affrontato una dura selezione nella fase 2008-2013: quelle che l’hanno superata hanno evidenziato maggiori capacità di affrontare anche le congiunture negative. Poi la manifattura è uscita bene dal Covid, anche per gli aiuti cospicui ricevuti dallo stato. Ciò, come possiamo osservare, non è sufficiente a favorire la crescita dei salari reali. Certo c’è un problema di azione sindacale, di determinazione a ottenere risultati. Ma più in generale come funziona la relazione tra la situazione oggettiva di come le imprese fanno i conti (in particolare sui profitti) e le richieste salariali dei lavoratori? Quando si discute di stipendi si tende, da parte delle imprese, a sorvolare sul passato, sui risultati incamerati, e a centrare il discorso sul futuro, sostenendo (sempre) che la situazione di mercato è critica, che il futuro è incerto, che i profitti vanno tutti reinvestiti, etc. Resta comunque l’interrogativo: se l’occupazione aumenta, la disoccupazione cala e i lavoratori hanno maggior potere contrattuale, tanto che stanno crescendo i contratti a tempo indeterminato e aumentano le difficoltà a reperire manodopera, come mai ciò non retroagisce sui livelli retributivi?