di Cecilia Beretta
Questa settimana abbiamo deciso di sospendere la nostra rassegna stampa settimanale (Seize the week) per dare spazio a questo articolo culturale sul film di Garrone “Io capitano” in sala dal 7 settembre e candidato all’Oscar. Proprio questo film commenta a un livello superiore quelle che sono le notizie più calde che hanno interessato la regione e l’intero Paese nel corso delle ultime due settimane: le migrazioni; le passerelle di Meloni e Von der Leyen a Lampedusa; lo sbraitare di Salvini sulla difesa delle frontiere; l’impotente balbettio del PD sull’accoglienza diffusa; i Consigli dei Ministri che pianificano la costruzione di CPR per espellere tutti coloro che calpestano il suolo italiano senza diritto. Se restringiamo il fuoco a livello locale, vediamo nel mirino l’aeroporto Allegri di Padova, dove sono stati trasferiti i migranti prima “accolti” nelle palestre che dovevano essere sgomberate per l’inizio delle scuole e dove si andrà a creare un centro per minori. Vediamo anche operazioni di polizia che sgomberano l’ennesima piazza, perché il disagio non ci piace, quindi lo risolviamo spostando il problema, esattamente come era stato fatto con piazzetta Gasparotto. Chissà cosa si inventeranno per piazza Salvemini, ora: un’altra stazione di polizia? Intanto, c’è chi continua a dormire per strada, cercando l’angolo più buio per non essere trovato.
Il film di Matteo Garrone è una fiaba senza lieto fine. Come tutte le fiabe procede per semplificazioni, simboli e metonimie. C’è il cugino trickster, il briccone divino del folklore, Moussa che convince Seydou a lasciare la vita in Senegal per andare in Europa a inseguire un sogno musicale, il sogno di firmare autografi ai bianchi. Ci sono gli antagonisti sotto le mentite spoglie di aiutanti, il tesoro sepolto, le banconote per affrontare il viaggio: il denaro che corrisponde a sei mesi di lavoro duro, svolto rigorosamente di nascosto dalle famiglie, che sarà comunque rubato dalla polizia libica alla fine di una mortifera, devastante, infinita camminata nel deserto. Ci sono i veri aiutanti che, come chiavi di volta della storia, svoltano il percorso del protagonista, lo riportano sulla retta via, leniscono le sue ferite, lo fanno levitare. Anche se solo in sogno perché, anche nelle fiabe, non tutto è possibile.
Tutto inizia con l’allontanamento, in seguito al divieto e all’avvertimento ignorato, in Senegal, a non partire. Non andare nel bosco, non toccare l’arcolaio, non affrontare un viaggio sul cui cammino troverai sangue, cadaveri abbandonati, sabbia, sete, tortura e violenza.
Tuttavia, Seydou e Moussa partiranno perché come nelle fiabe, non hanno davvero scelta. Io Capitano è una storia di formazione in cui i ragazzi diventano uomini al prezzo del sacrificio di una gamba forse, della giovinezza sicuramente. Non a caso la traversata viene chiamata IL viaggio, vissuto quasi come un rito di iniziazione, inaugurato da un rituale in un cimitero, una delle scene più forti del film, che è proprio ciò che lo permette e che sancisce l’abbandono di una felicità che, per quanto “esotizzata”, non si può non rimpiangere.
Ci sono tante menzogne, bugie che, diversamente da quanto accadeva in Pinocchio, il precedente film di Garrone, non hanno le gambe corte e non fanno crescere il naso : da chi fa i passaporti falsi a chi promette costosissimi passaggi fino a Tripoli e poi abbandona i suoi passeggeri nel deserto, in un deserto del Sahara che sembra uno sfondo di Windows 99.
Ostacoli che punteggiano un viaggio assurdo fatto non solo di morte e violenza ma anche di amicizia, pietà, fontane a mosaico nel mezzo del deserto, il miracolo dell’acqua che sgorga e libera, che in realtà un miracolo non è, ma è il frutto di un lavoro estenuante di due esseri umani comprati come schiavi da uno sceicco.
Come in ogni fiaba bisogna sospendere l’incredulità, come forse al cinema dovrebbe accadere sempre, ma ormai ci hanno abituato al più vero del vero e non vogliamo più essere affabulati. Anche quando è un racconto frutto dell’incontro e della consulenza di chi ha affrontato il viaggio in prima persona su un barcone fatiscente che si è spezzato e che ha perso tre compagni nel naufragio. Anche questo, per alcuni, non è sufficiente, non giustifica la volontà di girare un film su qualcosa che accade a qualcuno che non è il regista.
A chi critica questo film prima di averlo visto vorrei dire di andarlo a vedere. Troverà tanta pietà, ma nessuna consolazione. Troverà la lotta, la sedicesima funzione individuata da Propp in Morfologia della fiaba, ma anche la marchiatura che la violenza lascia sui corpi dei protagonisti. Non sappiamo se ci sarà un ritorno a casa dell’eroe, nemmeno sotto mentite spoglie. Rinchiuso in una prigione libica, assetato, ferito e delirante, potrà soltanto spiare la madre che dorme in sogno e che sorride quando Malaika, una sorta di spirito benefico, le sussurra che Seydou è vivo.
Il sogno può salvare solo nell’immaginazione, ma si dischiude tutto all’interno della finzione e ancora una volta non consola, crea una dimensione ulteriore e parallela al reale. Come nei miti ci sono delle regole, un monito: Seydou potrà vedere la madre e inviarle un messaggio, ma lei non potrà sentirlo.
Le prove si susseguono e gli antagonisti sono sempre più riconoscibili, non devono più essere smascherati: la mafia libica, la polizia libica, il ricco sceicco, i reclutatori di schiavi, i medici libici che si rifiutano di toccare i neri, gli scafisti, le autorità maltesi. Qui la fiaba finisce. Senza punizione per i nemici.
Qui inizia l’epica, il viaggio di Seydou che si fa uomo e Capitano, trasfigurandosi.
Un’epica anti-hollywoodiana, in cui non accade sempre ciò che dovrebbe accadere, in cui non si piange quando si deve piangere, in cui ci sono commozione e delicatezza che non offuscano il giudizio. Non stiamo guardando Amistad.
Sul finale il rumore assordante delle pale di un elicottero, più minaccioso che salvifico, assorbe la voce di chi sta gridando. La voce, un urlo non vittorioso ma liberatorio, subito dopo l’incoronazione di Seydou a capitano, scompare in prossimità delle coste italiane. Quasi a ricordarci che ogni presa di parola per conto di qualcun altro è sempre una violenza. Anche nel caso di questo film. Come in ogni film.
Io Capitano è un film crudo ma soffice, inverosimile e duro al tempo stesso, eppure per alcuni non abbastanza, troppo digeribile. Ma non è un film di denuncia, non è un documentario, non vuole responsabilizzare, dare da pensare. Vuole raccontare una storia che è già una denuncia e una chiamata a provare ad essere più coraggiosi. A sfidare il lupo, a riconoscerlo, perché purtroppo, popola il nostro governo e il nostro paese. Se Seydou e Moussa non fossero partiti (il giambrunesco “se eviti di ubriacarti…”) non avrebbero incontrato tutto questo dolore, ma la questione dovrebbe essere capovolta.
Perché i confini sono chiusi per coloro che vorrebbero semplicemente un futuro migliore per se stessi e le proprie famiglie? Perché per alcuni è necessario sfidare il mare, la tortura, la sete, il sangue, con una pagella scolastica cucita nei vestiti, per dimostrare di meritare un futuro migliore e invece ad altri basta prenotare un volo online e un appuntamento per rinnovare il passaporto o richiedere un visto?
Il film non dà risposte in merito ma rende evidente che, anche se il ritrovamento dei personaggi è fiaba, il peschereccio e la traversata sono una fiaba, non c’è incantesimo che possa far sputare fuori dalla pancia del Mediterraneo i corpi che il mare ha inghiottito.
I personaggi, come le persone, non sono eroi, sono umani in tutta la straordinarietà che l’essere umano rappresenta. Sono dei sopravvissuti che devono essere richiamati a ritrovare la loro umanità, a non diventare lupi gli uni per gli altri, a rispondere all’appello del “siate uomini” rivolto, in realtà, più agli spettatori che alle comparse del film.
Io Capitano non è una fiaba edulcorata per il semplice fatto che nessuna fiaba può per sua natura essere edulcorata. È una fiaba.
Intanto nel mondo vero il governo italiano, Matteo Salvini in testa, lancia proclami magniloquenti alternando un lessico militaristico — “è un atto di guerra” — ad un linguaggio complottistico — “c’è una regia dietro questo esodo” — per descrivere quanto sta succedendo a Lampedusa.
Contemporaneamente qui a Padova, le stesse persone che forse si commuovono nel buio della sala cinematografica, sgomberano Piazza Salvemini, un ex centro direzionale diventato luogo dello spaccio e rifugio di alcuni disperati.
Nella luce tardo estiva della Pianura Padana, persone, non personaggi, vestite con le stesse magliette delle squadre europee che si vedono nel film di Matteo Garrone, raccolgono qualche libro, uno spazzolino, del sapone, scarpe e abiti in delle buste di carta. Dormivano in nove in una tenda. Lavoratori regolari a cui i proprietari non affittano le case in quanto neri.
I protagonisti del film si stupiscono quando un personaggio li avverte di non partire per l’Europa perché vedranno gente povera, poverissima che dorme per strada. Non li avevano avvertiti che non è permesso neanche più questo, perché verranno sgomberati, rinchiusi in qualche CPR in zone a bassa densità abitativa: carceri ulteriori, sorelle europeizzate di quelle libiche.