di Cecilia Beretta
Che cosa giustifica l’inferno se non l’esistenza del paradiso?
Il quarto film del regista britannico Jonathan Glazer racconta la storia dell’ufficiale Rudolf Höss, direttore del campo di sterminio di Auschwitz in Polonia e della sua famiglia, inseguendo soprattutto i pensieri della moglie Hedwig, una formidabile Sandra Hüller.
La pellicola, presentata l’anno scorso a Cannes, si interroga sulla incredibile capacità umana di organizzare un pool party con il fumo grigio delle ciminiere di Auschwitz sullo sfondo, o un tè di gossip succulenti con le amiche mentre imperversano le urla degli internati, o ancora un picnic estivo in riva al fiume nero delle ceneri dei deportati in cui galleggiano le loro ossa.
Al giorno d’oggi, forse, avrebbero organizzato un rave e ballato a ridosso dei suoi cancelli.
Questa descrizione potrebbe farlo apparire un classico prodotto culturale sulla banalità del male, un concetto forse troppo novecentesco per essere utile a spiegare nella sua totalità il magnetismo nauseante de La Zona d’interesse.
Il film, infatti, descrive solo parzialmente la normalissima esistenza di un padre di famiglia esemplare che fa colazione a casa ed esce presto per andare al lavoro a commettere crimini contro l’umanità e, forse, rappresenta la sua caratteristica meno interessante.
La riflessione in realtà si incentra e mette in scena il prezzo del nostro interesse e la volontà predatoria dell’essere umano che non solo non è in grado di fermarsi davanti alla tragedia, anzi la fomenta e le dà vita programmaticamente in modo tale da poterne trarre un vantaggio personale, familiare, nazionale.
Il regista sembra suggerire che un piccolo vantaggio (un rossetto, la vicinanza al fiume per andare in canoa con i bambini) verrà sempre scientemente cercato, anche al prezzo incalcolabile di una inaudita sofferenza. Non per una tensione sadica, ma banalmente perché ne abbiamo la possibilità e vogliamo farla nostra.
II film subisce però un’improvvisa accelerazione quando il posto di lavoro del comandante Höss rischia di essergli sottratto. Questo imprevisto lavorativo, percepito come inaudita tragedia, minaccia l’equilibrio borghese della famiglia, costituito da tangibili vantaggi tutti materiali, configurandosi agli occhi dei protagonisti quasi come una punizione, una immotivata e inaccettabile cacciata dal paradiso.
La determinazione di Hedwig a mantenere intatti i suoi interessi è tale da voler smuovere anche il Fürher pur di non perdere una elegante villetta con orto, giardino e piscina con servitù a non finire, a due passi dal luogo di lavoro del marito, Auschwitz.
Il personaggio di Hüller pur di non lasciare casa, pur di non privare i figli della possibilità di giocare prima di andare a letto con i denti d’oro degli internati, pur di non perdere l’occasione di scoprire all’interno delle pellicce delle deportate un rossetto con una tonalità che le si addice, è disposto ad abbandonare il marito alla sua carriera e rimanere in pianta stabile ad Auschwitz dove sembra aver trovato il suo posto nel mondo.
Impossibile immaginare di abbandonare i suoi privilegi, non da ultimo la servitù polacca che può trattare con sufficienza e aggressività a cui può serenamente donare le camicette in seta delle donne che al di là del muro saranno disumanizzate e mandate a morte.
La zona d’interesse non è un film sulla banalità del male perché il desiderio di Hedwig di rimanere a due passi dall’inferno in terra è più forte di ogni altra piccola felicità borghese e coniugale. La soddisfazione della protagonista è determinata e rafforzata da quelle urla racchiuse dietro il muro che esaltano la luce e il profumo dei suoi fiori, dando un’immaginaria consistenza e realtà ad una vita di ordinario non amore.
I protagonisti del film non sono mostruosi o disumani ma semplicemente portano all’estremo una caratteristica vampiresca e affermativa della nostra specie che si sviluppa piramidalmente affinché esista sempre una base da poter sfruttare fino alla morte e allo sterminio per raggiungere i propri obiettivi o perché, più banalmente, non vengano posti limiti ai propri privilegi.
Il film si interroga su quanto possa espandersi la nostra zona di disinteresse, su quanto, troppo, siamo disposti a eliminare dalla nostra visuale per non mettere in discussione i nostri interessi. Quante persone dall’aspetto cadaverico che trascinano dei carretti indossando un pigiama a righe dovrà aver volontariamente eliminato dalla sua visuale la signora Höss? Quanta devastazione i governi del mondo dovranno ancora fingere di non vedere per non ammettere un genocidio in diretta mondiale?
Mi sono domandata se immaginare dei paragoni con la situazione attuale a Gaza sia sbagliato o estremo, ma, dopo aver letto La pulizia etnica della Palestina di Ilan Pappé, storico ebreo israeliano, mi sono resa conto di come il sionismo abbia sempre retoricamente sfruttato la sofferenza dell’Olocausto per poter protrarre i suoi casalinghi orrori nel silenzio del mondo e che quindi sia nostro dovere non tacere questa prossimità di famiglia.
Lo stesso produttore del film, James Wilson, in una dichiarazione pubblica ha descritto il muro all’interno de La zona d’interesse come una metafora del modo in cui, da molto prima e anche dopo la Shoah, nascondiamo e rinchiudiamo il massacro dietro spessi cancelli, muri, prigioni a cielo aperto, dimostrando la natura gerarchica che caratterizza le nostre società, con la volontà di evidenziare la natura sempre più gravemente selettiva della nostra empatia.
Ilan Pappé stesso all’interno dei suoi saggi si chiede come sia possibile che gli osservatori ONU dal cielo e i testimoni ebrei da terra non abbiano potuto notare lo scorrere di orde di profughi verso Nord nell’ottobre del 1948 e di come abbia potuto la maggioranza della popolazione che aveva visto svuotare le proprie case in Polonia, i propri cari bruciati vivi dalla violenza nazista o anche solo conosciuto tramite il racconto la tragedia, non abbia mosso un dito di fronte a quella catastrofe verso la quale sembravano essere diventati tutti improvvisamente ciechi e sordi.
Quanta devastazione è necessaria per far fiorire il deserto come recita lo slogan del Fondo Nazionale Ebraico? Qual è il prezzo dei fiori, alto abbastanza da giustificare l’utilizzo delle ceneri umane come concime? Alto abbastanza da poter spiegare l’urbicidio dei villaggi palestinesi per la costruzione di parchi di divertimento sionista? Per distruggere e dearabizzare dei quartieri e trasformarli nelle discariche delle città di nuova fondazione?
Con una inaspettata proiezione nel futuro il regista ci conduce a spiare Auschwitz oggi, nelle ore antecedenti all’apertura al pubblico, quasi a indicarci che la memoria trova radice e fondamento anche nello sfruttamento delle signore polacche che ora spazzano la polvere e non più la cenere umana da quello che è stato un letale campo di sterminio. La macchina da presa vaga nelle stanze dell’orrore, indugia nei suoi grigi e si interroga sul beneficio che i visitatori possono trarre da questa liturgia che ha reso Auschwitz un sito turistico, mostrandoci l’impossibilità stessa di rendere visibile ciò che non è rappresentabile e che, infatti, nel film non viene mai mostrato.
Nella più potente sequenza del film il comandante Höss, che ormai non riesce a non entrare in una stanza senza calcolare mentalmente quanto gas servirebbe per uccidere gli esseri umani presenti, vomita davanti a questa visione impossibile di Auschwitz nel futuro. Una visione che lo mette davanti, non alla sua condanna e alla sua impiccagione, ma alla Storia.
Il film di Jonathan Glazer si interroga sulla incalcolabile distanza dell’empatia, sul perché l’orrore non sarà mai abbastanza spazialmente e temporalmente vicino per sentirlo nostro se non riguarda chi reputiamo essere come noi. Mettendoci davanti agli occhi Auschwitz oggi sembra voler dimostrare che, anche un mucchio di scarpe appartenuto a uomini, donne e bambini musealizzato dietro una vetrina, non sarà mai abbastanza alto o imponente per assicurare la volontà di infilarsi, con uno sforzo immaginativo metaforico, in quelle scarpe.
Ancora meno se quelle scarpe appartengono a chi viene raccontato come nemico della democrazia, come pericoloso terrorista attentatore dei nostri supposti e mai definiti valori, come povero, brutto e sporco. Come un palestinese oggi a Gaza, dove non c’è memoria e le tracce della Nakba sono già state spazzate via, da un altro tipo di pulizia, perché è profondo interesse degli ebrei israeliani negarla per evitare quelle che Ilan Pappé chiama le ripercussioni morali ed esistenziali sulla propria psiche. Perché, se la accettassero, dovrebbero riconoscere di essere divenuti l’immagine speculare dei loro incubi peggiori.