di Thomas Simon Mattia
Il giorno 3 febbraio, nella città di Adria (RO), si è svolto un corteo di protesta in risposta all’approvazione del testo del Decreto Energia, convertito in legge il giorno precedente. Le posizioni dei sindaci, delle associazioni e dei comitati che hanno partecipato al corteo, manifestano una netta opposizione all’articolo 2 del decreto, che autorizza nuove trivellazioni al largo delle coste polesane.
Nello specifico, l’articolo arretra al 45° parallelo il divieto di coltivazione di idrocarburi relativo alle acque del golfo di Venezia. Prevede inoltre la riduzione della distanza minima tra le trivelle e i confini della costa e delle aree protette da 12 a 9 miglia nautiche nella porzione di mare fino a 40 km a sud del parallelo. In sostanza, le acque a largo della costa compresa tra la foce del Po di Maistra e Comacchio saranno oggetto di nuove concessioni per lo sfruttamento degli idrocarburi.
Le voci presenti alla manifestazione denunciano soprattutto il rischio di abbassamento del terreno (subsidenza), una minaccia che il Polesine subisce sin dalle trivellazioni degli anni ’20 intraprese nell’area. “Il Polesine ha già dato”, lamentano gli esponenti del corteo, riferendosi sia all’enorme onere già incombente sulle spalle dei comuni polesani interessati a non rimanere sott’acqua, sia all’installazione nel 2008 del terminale di rigassificazione offshore Adriatic LNG, il maggior terminale GNL italiano situato a largo di Porto Levante.
Sebbene il corteo di protesta fosse composto quasi esclusivamente da politici o attivisti, un veloce sguardo online alla risposta mediatica all’evento rivela un quadro interessante sullo stato dell’opinione pubblica sulle trivelle in Adriatico.
Mentre l’opposizione deride il centro destra che improvvisamente spalleggia gli ambientalisti, auspicando ulteriori fratture e divisioni nella maggioranza, i più conservatori, all’insegna del realismo energetico, sminuiscono il corteo riducendolo a un blocco omogeneo di NIMBY (Not In My Backyard), contrari alla legge per il capriccio ostinato e ottuso del “non dietro casa mia”, sprezzanti di una più vasta utilità economica. Spesso tali critiche vengono estese a “quelli” che dagli anni ’90 hanno bloccato le trivelle in adriatico per “ambientalismo ideologico”, accusati di aver paralizzato l’economia Italiana. Ma si tratta davvero di uno scontro tra cieco ambientalismo ideologico e nimbyismo da un lato e cinico realismo dall’altro?
Se la convinzione comune è che nell’Adriatico settentrionale italiano la coltivazione di idrocarburi è vietata da anni, la verità è che solamente nel golfo di Venezia – comprendente un area di circa 1/5 dell’estensione totale della porzione settentrionale del mare – c’è stato un divieto simile. Solamente due pozzi sono potenzialmente produttivi, ma non eroganti in quanto ricadenti nell’area vietata, mentre altre 49 piattaforme nello stesso alto adriatico sono produttive e erogano idrocarburi indisturbate. La disinformazione scaturisce però dalle restanti 63 piattaforme, contrassegnate come produttive ma non eroganti, che attivamente danno luogo sul web e sui giornali a teorie e speculazioni in merito al motivo della loro inoperosità.