di Dario Salvetti
Pubblichiamo l’intervento di Dario Salvetti, uno dei portavoce del Collettivo di fabbrica della GKN di Campi Bisenzio, che ha chiuso il festival di letteratura working class organizzato nella fabbrica occupata dal 31 marzo al 2 aprile 2023. Queste parole ci sembrano importanti soprattutto se lette qui, a Nordest, dove il lavoro è così spesso sfruttamento anche per la mancanza di narrazioni di questo tipo, che siano veicolo di riconoscimento. Contro le brochure aziendali che narrano le magnifiche nascite e sorti, contro l’individualismo di chi vuole la vita divisa fra luogo di lavoro, casa e centro commerciale, ma anche contro l’idea che la letteratura possa essere, di per sé, immediatamente politica, pubblichiamo questa bella riflessione, che affronta il legame fra la capacità di narrare (e di narrarsi) e la capacità di lottare per i propri diritti.
Ringrazio questo festival, tutti i singoli e le realtà organizzate che hanno reso possibile questo momento di lotta. Noi da quel 9 luglio siamo sostanzialmente pervasi da un senso di lutto che si rinnova ogni giorno, perché sentiamo un po’ sfuggire tra le mani giorno dopo giorno una storia, una narrazione – è un po’ come succede quando ti rendi conto che hai poco tempo, ti verrebbe da raccontare tanto, da buttare fuori, anche in maniera disordinata, tutto quello che sai, che non sarà più raccontato. Ed è un po’ frustrante a volte, perché ti rendi conto che ci saranno tante, troppe cose che non verranno probabilmente mai raccontate.
Partiamo da qua: chi entrava in GKN accedeva a un enorme racconto orale tramandato da generazioni e generazioni, fatto di aneddoti goliardici, di scioperi, di insegnamenti, di tradizioni. Il più classico era il passo FIAT: per lavorare, dovevi andare col passo FIAT… Cioè lentamente. Era una delle prime cose che i vecchi ti raccomandavano entrando in fabbrica. Ovviamente spezzare, precarizzare, subappaltare, suddividere, rendere continuamente licenziabile serve anche a rompere queste terminazioni nervose che ti permettono di ricevere una storia orale e, a tua volta, di diventare capace di raccontarla, di tramandare, di narrare e – un domani – anche di scrivere.
La verità è che la capacità di narrare e la capacità di lottare per i tuoi diritti sono una sola cosa: per lottare per i tuoi diritti devi avere la capacità di narrare e quando hai i diritti ovviamente sei facilitato nel portare avanti una narrazione e nel conservarla nel tempo. Ci sono tante e troppe cose che noi non riusciremo a raccontare, ma proviamo a raccontare alcuni dettagli, dettagli che nascondono episodi di lotta di classe. Perché la lotta di classe straborda, si estende a tutto, coinvolge qualsiasi cosa.
Pensiamo ad esempio al modo in cui vengono nascoste le fabbriche nel tessuto urbano, per cui a un certo punto le fabbriche esistono ma sono invisibili: come questa. Se voi andavate a chiedere – non ora che c’è la lotta, ma prima – a chi andava ai “Gigli”, se sapesse che questa non è solo una zona commerciale, ma c’è una fabbrica, probabilmente nessuno avrebbe saputo riconoscere lo spazio della fabbrica. A volte, siccome le cose da narrare sono troppe, lo spazio fisico ti aiuta a narrarle di colpo. Quante volte ci ritroviamo ad andare a trovare i nostri cari nel luogo dove lavorano e dire: «ah, è qui che lavori». Cioè: è qui che passi tanto tempo che è sottratto alla vita. E quanto, a volte semplicemente guardando un ufficio, una scrivania, si può intuire la qualità della vita che scorre là dentro. Non è infatti un caso che lo spazio della fabbrica sia nascosto alla vista e debba essere nascosto, quasi a creare un momento di alienazione tra un pezzo della tua vita e tutto quello che è fuori da quel posto di lavoro, che è tutto quello per cui vai a lavorare o credi di andare a lavorare. E infatti, l’aver stabilito l’assemblea permanente della GKN in fabbrica, e non in un gazebino di fronte al cancello, ha contribuito enormemente a questa lotta: dal punto di vista della narrazione ha consentito di trasmettere a tante persone immediatamente cosa stava accadendo. È stato fondamentale.
Saranno tante e troppe le cose che non saranno raccontate, tra l’altro credo che non sarei nemmeno il più adatto a raccontarle perché affondano la propria storia negli anni ‘80, ‘90, negli anni 2000… Ma si potrebbe raccontare, cosa che mi ha sempre colpito, come ci sia un lavoro sistematico a toglierti proprio la dignità. Per esempio, dentro una fabbrica come questa, o altre in cui ho lavorato, il capitale privato mi è sempre sembrato un enorme spreco: spaventoso. Spaventoso. Una volta abbiamo fatto un sopralluogo fuori dalla fabbrica, c’erano non si sa quante tonnellate di pezzi abbandonati: pura delinquenza, puro teppismo, puro vandalismo; però quando c’era un atto vandalico in fabbrica, e ce n’erano – un taglio di un filo, una macchinetta rotta – c’era la corsa da parte del padrone a far le foto e a metterle lì, per farti sentire un po’ animale: perché nell’anonimato di quel gesto noi ci sentivamo tutti un po’ animali; e perdevi anche il senso di rivendicazione, avevi la sensazione che la comunità attorno a te fosse sporca e quindi avesse meno diritto a rivendicare un’azione.
Oppure mi ricordo di quando ci raccontavano che alla FIAT a Pomigliano avanzavano sempre due ore a fine turno, e i lavoratori, che può sembrare anche goliardico, anche tradizionale, facevano un mercatino di vestiti durante l’orario di lavoro. Il che da un lato è un gesto di ribellione sacrosanta; però è anche un gesto di ribellione individuale. Non è rivendicare che tu quelle due ore potresti non lavorare; è un espediente. Quando poi, a un certo punto, inizia la campagna della FIAT contro i fannulloni, ci arrivi sporco. E quindi anche in fabbrica, come in ogni posto di lavoro, c’ è sempre questo filo sottile tra una ribellione sacrosanta, a volte anche individuale, il diritto di dire no, vaffanculo, il prossimo pezzo non te lo faccio, e quel lassismo che ti fa arrivare più scarico allo scontro, perché in realtà stai cercando una scappatoia individuale invece che rivendicare complessivamente un abbassamento dei ritmi.
Quello che posso dire è che GKN per come mi è stata raccontata era ed è un’enorme fucina di creatività di ogni tipo, dalle carbonare fatte sui trattamenti termici, alle partite a pallone nel pieno turno notturno, di cui noi abbiamo visto solo piccole cose, perché pian piano questi spazi di goliardia si restringevano. Eppure, la fabbrica funzionava meglio quando c’era questo livello di socialità tra lavoratori, perché era un livello di socialità che si prestava anche a tramandare competenze tecniche, che portava a lasciarti la macchina perfettamente in ordine perché ti rispetto, in quanto mi riconosco come individuo parte di una comunità che quindi si rispetta anche sul lavoro. E in questa comunità c’era un enorme fiorire di competenze tecniche. Tutto molto diverso dalla GKN che abbiam conosciuto noi, che già lottava per tenere fuori il lavoro interinale, i ragazzi che venivano presi e poi rimandati a casa senza nessuna possibilità di conoscersi realmente. E si potrebbe raccontare di come alla fine questa pratica invada ogni campo della tua socialità.
A me una cosa che mi ha sempre scassato, veramente l’ho sempre trovata una violenza, è il loro tentativo di cancellare la tuta blu come concetto. A un certo punto ci tolgono proprio la tuta blu. Impongono queste tute bianche – pensate a uno che lavora in officina col grasso: oltre a essere una cosa irrazionale, come irrazionali sono tante cose che fanno, significa trovarti tutto sporco con questa tuta che ti fa sentire a disagio e non orgoglioso della divisa. È un piccolo elemento di indebolimento della tua psicologia, del tuo sentirti appunto tuta blu; hanno individuato che lì c’era un elemento di appartenenza, di orgoglio, e quindi quell’orgoglio andava piegato: dovevi passare alla tua bianca che, oltre a essere bruttissima in un luogo metalmeccanico, serve a farti sentire a disagio.
O ancora, parliamo di quando abbiamo fatto un controllo di 24 ore sulle macchine, e trovammo che c’erano 150 minuti di fermo macchina, un’enormità. È significativa anche questa asimmetria nella valutazione del valore del tempo. Il minuto di pausa doveva essere sempre sanzionato – poi non riusciva molto bene da queste parti, le pause venivano prese largamente, però… – la mensa, questo costante attacco ai 30 minuti di mensa: costante, continuo. Una vera e propria ossessione verso i cazzo di 30 minuti in cui tu devi mangiare e in cui fai anche quel minimo di socialità. Un attacco sistematico, e poi vai a scoprire che in 24 ore sono 150 i minuti di inefficienza. A ben pensarci, quindi, quella tua ora di sciopero che ogni tanto gli piazzi lì non è nulla rispetto alla quantità di spreco inerente alla disfunzionalità delle macchine. Infatti poi la situazione è esplosa. È esplosa in questa fabbrica ferma da 20 mesi, proprio a causa del loro spreco continuo di tempo… E poi vengono a farti le pulci sul minuto! E però noi eravamo in grado di contestargli il minuto al contrario, perché c’erano una comunità, le competenze tenute e la consapevolezza dei propri diritti contrattuali senza i quali non puoi fare la 24 ore sulla macchina dimostrando che sono loro l’inefficienza e sono loro lo spreco totale. E che quel tempo potrebbe essere liberato per fare cose migliori, altroché 30 minuti di pausa!
A tutto questo si dovrebbero aggiungere questi 20 mesi, che sono un altro elemento di narrazione completamente nuovo per noi, forse ancora da metabolizzare. Io ricordo un vecchio testo che parlava della Rivoluzione russa che mi colpì; era un testo scritto due o tre anni dopo il ’17 e mi colpì perché diceva: «Non si può fare il socialismo con chi sputa per le scale». In che senso? Cioè sì, è disdicevole sputare per le scale, ma uno si immagina cose molto più epiche. E invece noi siamo stati messi di fronte a cosa vuol dire passare da una gerarchia indotta dall’alto a provare a darci un’autodisciplina e a dover curare i dettagli e a doverci curare reciprocamente. E siamo molto, molto lontani dagli standard che vorremmo. Molto, molto lontani, ahimè. Perché crolla un vecchio mondo, il nuovo è molto lontano da venire, nel mezzo entri in tutta una serie di contraddizioni, ti si disgrega da una parte la vecchia routine, con il positivo e il negativo che vuol dire questa disgregazione, che ti apre degli spazi ma ti toglie anche delle certezze. Questo costituisce anche un trauma psicologico, non solo un elemento di liberazione.
Quindi questi 20 mesi abbiamo vissuto cose diverse, poi magari un giorno troveremo il modo di raccontarle in maniera più sistematica, o forse no, lo vedremo, ma è un orgoglio e un onore poter raccontare qualcosa qui, ora, così come è un orgoglio e un onore poter raccontare questo festival e tutto quello che seguirà. La narrazione è individuale ed è collettiva, e c’è una dialettica tra queste due cose. Da una parte è progresso ed è un elemento di progresso accorciare le distanze fra soggetto narrante e soggetto narrato. Perché come ti narri tu non ti può narrare nessuno. Ma questo non va mai inteso in senso individualistico: dal lavoratore può venire un racconto che è un semplice rivomitare le cose che gli hanno messo in testa. Quindi la narrazione è comunque una conquista, non è semplicemente un momento in cui tu spieghi quello che ti passa per la testa. E per fare questo ci vuole la capacità di tenere assieme la narrazione del tuo posto di lavoro, con i mille dettagli, con la narrazione storica della tua classe nella dialettica con tutti i settori di quella classe e nella dialettica con gli intellettuali che magari, in supplenza per un periodo, hanno narrato al posto di chi doveva narrare; e quindi mai in senso restrittivo, individualistico ecc.
A cosa ci può servire questa narrazione? Beh, sicuramente a uscire da una concezione un po’ economicistica della lotta sindacale. Non fraintendetemi, soprattutto in un periodo dove non prendiamo lo stipendio da sei mesi, quegli stipendi per noi sono fondamentali, non sto dicendo questo. Sto dicendo che si è sedimentata da tempo la concezione che fare lotte operaie vuol dire sostanzialmente lottare per motivi economici, come il premio di risultato; e c’è una pressione perché evidentemente i lavoratori, soprattutto dopo anni di impoverimento, hanno una fame di monetizzare il più possibile il proprio tempo, e anzi, lo dovrebbero fare di più, dovrebbero lottare per salari ben più alti; però la verità è che, perché non ci riesci? Per mille ragioni. Una è perché per difendere e monetizzare in maniera più alta possibile il tuo tempo di lavoro devi avere il senso e il valore di quel tempo, e il senso e il valore di quel tempo lo trovi se tu riesci a narrare che cos’è, per te, quel tempo e quella vita. Altrimenti finisci intrappolato in un gioco che non vincerai mai e che non può essere vinto, dove rivendichi salario per essere più consumatore, ed essere più consumatore ti porta meno salario e più precarietà, e alla fine è un gioco a perdere sempre, sempre, sempre. Perché alla fine della tua vita magari ti sarai posizionato in una fascia reddituale medio-alta, ma ci sarà un giorno che non capirai quanto ce ne hai lasciato in medicine, e quanto potevi lasciarne in tempo libero, quanto l’hai buttato per inseguire un livello di consumo più alto che a sua volta ha comportato che per te abbandonare quello stipendio era inaccettabile e quindi sei dovuto scendere a compromessi ecc. Non lo sai quale sarà il gioco finale della tua vita, di questa rincorsa tra salariato e consumatore.
Noi siamo salariati, perché portiamo a casa il salario, quel salario però è uno strumento per raggiungere una vita, e che cosa sia questa vita appartiene a una narrazione autonoma che dobbiamo fare insieme, liberandoci dal loro concetto di vita e riappropriandoci di un concetto di vita assolutamente più armonioso, che è quello che poi fa storcere il naso quando diciamo che siamo in convergenza con il movimento ambientalista, col movimento femminista e con tutte le altre lotte perché, scusate il termine un po’ forte in una fabbrica di un padrone cattolico, noi siamo l’unico vero movimento per la vita; nel senso che mettiamo la vita come unico obiettivo strategico al centro, e non sappiamo a cosa serva lavorare e portare a casa lo stipendio se non a liberare gli spazi della nostra vita. E siccome il lavoro, ahimè, ancora per molto tempo è quella cosa che può essere molto alienante, è lì che si gioca lo scontro. E questo scontro passa anche per la nostra capacità di essere soggetto narrante-narrato, di raccontare e di raccontarsi, sapendo scendere nel dettaglio del colore di una tuta, ma tenendolo assieme con i grandi fatti storici della classe operaia e di tutto il resto delle mobilitazioni sociali.