di Cecilia Beretta
Grazie per i biscotti. Grazie ai minuti di silenzio e alle frasi di circostanza.
Grazie ai politici di destra che avanzano dubbi sulla colpevolezza solo quando l’aggressore è bianco.
“Donne, asini e noci vogliono mani atroci”
Grazie alle forze dell’ordine che sulla propria pagina Instagram pubblicano post che sembrano una plateale presa in giro.
Grazie alle aziende che nel migliore dei casi hanno deciso di lavarsi la coscienza con una donazione, nel peggiore con un post sponsorizzato online per innalzare la propria brand reputation. Nei toni del rosso.
Grazie alle parole vuote della rettrice Daniela Mapelli che ancora una volta ha deciso di non prendere posizione, con un generico invito al cordoglio, a rispettare un minuto di silenzio durante le lezioni e con l’installazione di una panchina rossa davanti al dipartimento a cui apparteneva una studentessa della sua Università, femminicidio numero 106 del 2023.
“La donna deve avere tre m: matrona in strada, modesta in chiesa, massaia in casa”
Grazie a chi pensa che tutto si risolva con galera a vita, caccia al lupo, castrazione chimica e che considera le città del nostro paese delle giungle.
“Chi dice donna dice danno”
Grazie a chi ritiene che il problema siano le scelte della vittima, come presentarsi all’ultimo appuntamento. Come se si potesse prevedere che fosse l’ultimo.
“Pane e botte fan la moglie e i figli belli”
Grazie a chi si sente in diritto di esprimersi, ancora una volta, non potendo criticare come era vestita la vittima, sugli indumenti scelti dalla sorella, ulteriore strategia per depotenziare le sue parole, per spostare l’attenzione, per tornare a usare gli stessi linguaggi.
“Donna ridarella, o santa o puttanella”
Grazie anche a voi, Giulia Cecchettin è la centoseiesima donna uccisa in quanto donna in Italia nel 2023.
“Na bela femena l’à l cul e l piet sot la pievia” (Una bella femmina ha il culo e il petto sotto la pioggia, quindi sporgente), frase stampata sulle bustine di zucchero dell’APT Val di Fassa nel 2019.
Purtroppo per voi questa volta è successo qualcosa di diverso. Tutt’ora non completamente comprensibile.
Una vittima più giovane, una famiglia diversa, una storia di “ragazzi scomparsi” di cui una parte del Paese aveva già capito l’epilogo, una sorella che prende parola per modificare i termini del discorso. Parresia, il diritto-dovere di dire la verità.
Non tragedia inevitabile ma omicidio di stato, soprattutto se verranno verificate le ipotesi di mancato intervento da parte delle forze dell’ordine.
Una rabbia così forte da poter superare il senso di impotenza. Quindi le piazze piene, le chiamate al 1522 raddoppiate.
E ora? Cosa fare con tutto questo?
In Veneto viene pubblicato ogni anno, intorno al 25 novembre, un report che disegna la situazione dei Centri Anti Violenza. Nel 2022 erano presenti sul territorio in totale 38 sportelli, afferenti a 15 Centri Anti Violenza. Questo significa che esisteva un Centro ogni circa 100.000 donne. Se si contano anche gli sportelli, al momento delle ultime rilevazioni era garantito un punto di accesso ogni 40 mila donne circa, contando solo le donne residenti. Se si va a vedere la quantità di case di rifugio, ovvero le abitazioni che si rendono necessarie in caso di interruzione della convivenza con il proprio abusatore, la situazione è ancora più tragica.
L’apertura al pubblico dei Centri antiviolenza è di 5 giorni alla settimana (requisito richiesto dall’Intesa 27 novembre 2014 tra il Governo e le Regioni, le Province autonome di Trento e di Bolzano e le autonomie locali), con differenze riguardanti gli orari di apertura (intesa anche come ascolto telefonico) e le modalità di accesso alla struttura.
13 Centri su 15 riescono ad assicurare una reperibilità h24, mentre per i rimanenti Centri è presente una segreteria telefonica h24. Come esistono regioni migliori di altre per abortire, esistono luoghi migliori di altri per denunciare.
Nel report del 2022 in Veneto si è registrata una donna “presa in carico” ogni 751 donne residenti, soprattutto nelle fasce d’età comprese tra 31 e 40 anni e tra 41 e 50 anni.
Le donne coniugate sono le più numerose e il 54% delle donne ha una relazione di unione/convivenza. Il 55% ha un grado di istruzione medio alto.
Questo secondo grafico mostra che molto spesso le vittime di violenza sono state raccontate come persone isolate, prive di una rete di sostegno, incapaci di reagire. La maggior parte invece accede ai servizi dei Centri Anti Violenza su iniziativa personale oppure su consiglio di parenti e amici. Questo ci dimostra quanto è importante avere cura delle proprie relazioni, stringere le maglie delle proprie reti.
Molto spesso sono donne italiane (67%) che hanno studiato, magari hanno lottato, hanno chiesto aiuto. Più della metà sono donne che lavorano. Solo il 36% delle donne prese in carico dai centri hanno denunciato le loro aggressioni alle forze dell’ordine.
L’uccisione violenta di una studentessa dell’Università della nostra città, a pochi chilometri dai luoghi in cui ogni due settimane facciamo le nostre riunioni di redazione, mi spaventa. Ma quello che sta accadendo, soprattutto grazie al coraggioso intervento di Elena Cecchettin, ha saputo risemantizzare il discorso, per ricordarci che le vittime di violenza non sono queste belle donne con i segni del martirio, ma molto di più. E che tutte le altre sono molto arrabbiate.
Non dobbiamo lasciarci sfuggire questa occasione per trasformare il dolore e la ferita di una comunità in qualcosa di diverso.
Quindi migliaia di persone nelle piazze, 15 mila solo a Padova, 500 mila a Roma. La pagina della Polizia di Stato invasa da commenti di donne che descrivono il totale abbandono da parte delle istituzioni in casi che le vedevano protagoniste di violenze e aggressioni.
Un dato interessante è che il report non fornisce dati sugli aggressori che, ancora una volta, se non dipinti come mostri o affetti da disturbi psichiatrici, quindi dotati di un’immagine rassicurante in quanto eccezione ed elemento alieno al tessuto sociale, restano invisibili. Possiamo vederne solo il pugno, anche nelle rappresentazioni che vorrebbero portare alla luce le violenze da essi perpetrate.
Le donne di queste immagini sono terrorizzate, messe al muro, mentre sembrano attendere inermi la violenza. Sono immagini irrealistiche che eliminano ogni possibilità di identificazione con le vittime e con i carnefici, mostrando solo l’apice della relazione disfunzionale, la violenza fisica.
Nessuna comunicazione istituzionale potrà mai avere la lucidità mostrata da Elena Cecchettin nel discorso che ha avuto il coraggio di fare in diretta nazionale.
Ma possiamo averla noi. Possiamo iniziare a chiamare le cose con il loro nome, combattere la cattiva educazione alle relazioni come sembra essere quella proposta dal governo (che sorpresa), scendere in piazza, non tacere al pranzo di Natale, coltivare la sorellanza, creare spazi di dialogo e di cura, aprire gli occhi, far aprire gli occhi, liberarci anche noi donne delle prospettive sessiste che abbiamo interiorizzato.
Non educare gli uomini, facendosi ancora una volta carico di un lavoro (di cura) che non dobbiamo fare, ma spingere perché si educhino da sé, slegando il discorso dal concetto di colpa per trasformarlo in una questione tutta politica, di privilegio. La sola cultura non cambierà se non cambiano le strutture materiali, quindi è necessario lottare per stravolgere dalla base queste strutture.
Smetterla con lo sproloquio sulla crisi del maschio e chiedere al genere maschile di mettersi realmente in discussione per abbandonare la dominanza e imparare nuovi modi di relazionarsi. Leggere le femministe, consigliare di leggere quello che le donne hanno scritto su questi temi per aprire discussioni che mettano da parte il lessico della colpa, un meccanismo essenzialmente privato che raggela il pensiero, per spalancare nuovi spazi politici in cui il pensiero si faccia pratica nel senso più alto del termine.
Cambiare i rapporti di forza all’interno delle relazioni e delle famiglie per smussare il margine di ricattabilità. Parlare, ripensare il linguaggio, riconoscere e correggere le storture. Smettere di pensare che sono le donne vittime di violenza a doverla riconoscere, ma noi tutte e tutti a dover combattere per cancellarla, dalle scuole agli spogliatoi.
Abbiamo ormai capito che le istituzioni non ci difenderanno e che possiamo aspettarci ben poco a livello di tutela giuridica, quindi dobbiamo lottare dal basso per strappare uno spazio di sicurezza e libertà in cui ribaltare lo stato delle cose.
E nel breve termine intanto, per favore, non lasciamo che questa tensione si estingua, facciamola continuare a bruciare. Tutte e tutti.