Chi paga le politiche abitative della Lega.
Giuliana, 68 anni, 700 euro di pensione di reversibilità. Ora lʼATER, lʼazienda territoriale di edilizia residenziale, vuole farle pagare 600 euro di affitto perché in banca ha il TFR e la liquidazione che gli ha lasciato lʼex marito. Alberto, 63 anni, operaio per più di trenta. Con il nuovo affitto lʼATER si mangerebbe metà della sua pensione, erodendo i risparmi di una vita. Monica, 40 anni, disoccupata. Lʼaffitto della sua casa popolare è schizzato a 200 euro mensili perché gli viene conteggiato il risarcimento di un incidente subito. Mohammed e Irina, in Italia da dieci anni, due figli. Lui lavora in un magazzino, lei per una ditta di pulizie, con i nuovi aumenti gran parte del loro stipendio finirebbe nelle tasche dellʼATER.
Queste sono le storie di solo alcuni tra i tanti inquilini colpiti dallʼaumento degli affitti voluto dalla giunta regionale guidata dalla Lega. Con la legge regionale 39 del 2017, i nuovi parametri per il calcolo dellʼISEE hanno prodotto un aumento impressionante dei canoni per la maggior parte di loro. A pochissimi, quelli in maggiore difficoltà, i canoni sono invece stati abbassati, ma comunque non sotto i 40€ al mese, il nuovo tetto minimo, superiore a quello che avevano finora gli inquilini più indigenti. La Regione si ostina comunque a parlare di riforma giusta, addirittura di “equità”. Mentre intanto giornali allineati con lʼideologia della guerra ai poveri – se non direttamente con le forze politiche che governano la regione -, come il Gazzettino o il Corriere del Veneto, parlano di “inquilini milionari”, dei “furbetti delle case popolari”.
Quasi quindici anni fa, le prime pagine dei giornali erano dedicate ai “furbetti del quartierino”, la banda di imprenditori rampanti che tentarono clamorose scalate finanziarie dopo aver accumulato miliardi in speculazioni immobiliari. Oggi con gli stessi termini i giornali locali parlano di Giuliana, Alberto, Monica, Mohammed. Gente che avrebbe “speculato” perché grazie allʼalloggio garantitogli dallo Stato ha potuto mettere un poʼ di soldi da parte. E che bisognava insultare e delegittimare perché ha compiuto il peggiore dei crimini: non subire in silenzio. Nel giro di pochi giorni sono infatti spuntate assemblee condominiali, cittadine, regionali e da lì presidi, manifestazioni e addirittura forme di disobbedienza civile. Come lʼautoriduzione, cioè il pagamento del canone ai livelli precedenti a questi scellerati aumenti. È in queste mobilitazioni che abbiamo conosciuto e raccolto le loro storie, quando insieme ad altre organizzazioni sindacali e politiche gli abbiamo dato una mano nellʼorganizzarsi per contrastare gli effetti di questa delibera e sostenuto la lotta per farla ritirare.
Ma se non sono loro i furbi in questa storia, chi lo è? Solo analizzare il problema abitativo in Italia e in Veneto e le politiche che sono state adottate per fargli fronte può aiutarci a capirlo. Proviamo allora a farlo!
Un’emergenza di cui tutti parlano
Cento famiglie sfrattate ogni giorno. 650 mila in attesa di vedersi assegnato un alloggio popolare. Più di un milione e mezzo in cosiddetto “disagio reale”, un terzo del loro reddito cioè se ne va in affitto. E circa lʼ11% di quelle che hanno un mutuo rischiano lʼinsolvenza.
Sono i dati dell’emergenza abitativa in un paese in cui “la precarietà economica e la crisi dei redditi delle famiglie hanno moltiplicato le situazioni di disagio e povertà abitativa” come scrive il Censis nel suo ultimo rapporto annuale. Dallo scoppio della crisi si è infatti moltiplicato il numero di persone sotto la povertà assoluta. Non solo disoccupati e pensionati ma anche più di un milione di lavoratori attivi. Un dato che raddoppia se si considera il cosiddetto “rischio di povertà” (persone che hanno un reddito al di sotto del 60% di quello mediano). A rispondere alle loro esigenze abitative un patrimonio di meno di un milione di alloggi pubblici, molti dei quali privi delle manutenzioni necessarie o addirittura inutilizzabili. E scarsissime risorse destinate al sostegno degli affitti. “Politiche per la casa al minimo storico” come scrive sempre il Censis.
Tante persone in difficoltà, alcune in estrema sofferenza… Ma comunque una minoranza, giusto? Vero, ma questo anche perché è la ricchezza passata a compensare la povertà presente. I mutui che vengono accesi per i propri figli, o i genitori e nonni che pagano lʼaffitto ai loro giovani. O, per gli anziani, la cosiddetta “nuda proprietà”, la vendita della propria casa a prezzo scontato in cambio della possibilità di usarla in usufrutto fino alla fine della propria vita. In tre decenni in cui i redditi calavano o stagnavano, i valori delle case sono rimasti inalterati o addirittura cresciuti, col risultato che “sempre più annualità di reddito rispetto al passato sono necessari per lʼacquisto di unʼabitazione”. Se i mutui hanno finito per gravare sempre di più sul bilancio famigliare, lo stesso è valso per gli affitti, cresciuti del 105% dal 1991 al 2009 nelle aree urbane (i redditi famigliari solo del 18%).
Ma la crisi non ha fermato questa corsa? Non ha abbassato i prezzi delle case? Sì ma non quanto ha colpito i redditi. E, paradossalmente, lʼabbassamento dei prezzi ha messo in discussione il valore del “mattone” come bene rifugio in cui investire i propri risparmi. Si potrebbe addirittura configurare un “mutamento strutturale del mercato”, scrive la Cassa Depositi e Prestiti, alludendo alla possibilità che lʼItalia smetta di essere quel paese di piccoli proprietari che rimane tuttʼora, con il suo 70% e oltre di case di proprietà. Un’altra tappa nel processo di erosione di quella ricchezza che le classi popolari hanno accumulato in un passato che offriva migliori opportunità lavorative e salariali. E che le politiche sociali dello Stato contribuivano a preservare. Mentre oggi, allʼopposto, i tagli alla previdenza e ai servizi pubblici gravano sui redditi dei lavoratori e disoccupati, contribuendo a consumarla.
Così accade proprio nel caso dellʼedilizia pubblica, che nonostante la sua insufficienza a far fonte allʼemergenza abitativa viene svenduta per battere cassa. Dal 1993 a oggi sono duecentomila le unità abitative messe sul mercato nel “disperato tentativo di ridurre disavanzi economico-finanziari”. Una “manifestazione dellʼincapacità di privilegiare quelle prestazioni sociali che si dovrebbero invece garantire”, scriveva in una nota ufficiale Nomisma nel 2017, a seguito dellʼannuncio di alcuni enti locali di edilizia pubblica di vendere parte dei propri alloggi. Da Roma a Genova, da Milano a Brindisi, da Nord a Sud, questo processo continua ancora oggi.
Anche nel Nord-Est che si vorrebbe ricco, ma dove secondo lʼISTAT sono 273 mila le famiglie al di sotto della soglia della povertà assoluta. E dove, mettendo insieme i dati di Friuli, Trentino, Veneto, Emilia, si superano a malapena i 130 mila alloggi pubblici. È la stessa Regione Veneto d’altronde a scrivere che la quasi totalità della domande di alloggio popolari da parte di perso- ne che avrebbero i titoli per riceverne “rimane insoddisfatta, visto il numero esiguo di alloggi da destinare a questo fine”. Solo il 6,5% delle richieste ricevono risposta positiva. E chi non ne ha diritto neanche sulla carta non se la passa necessariamente bene. È sempre la Regione a scrivere che “il problema abitativo con la crisi è andato estendendosi, coinvolgendo anche la cosiddetta ʻfascia grigiaʼ della popolazione, cioè quella che per il reddito maturato non rientra nelle assegnazioni previste per lʼedilizia residenziale pubblica, ma non ha la capacità di accedere al libero mercato.” La “grave
deprivazione abitativa in Veneto è, infatti, un problema in aumento”. Con il risultato che nel 2018 gli sfratti sono stati 2900, in un trend pressoché costante di crescita che ne ha quintuplicato il numero in ventʼanni.
E qual è la strategia dell’ATER, ente di diretta emanazione della Regione? Soldi, soldi, soldi. Nel 2018 tutte le sue divisioni provinciali hanno registrato bilanci in attivo: quello di Padova di quasi quattro milioni, Verona quasi di due, Treviso, Vicenza, Rovigo e Belluno più di mezzo milione (di Venezia non è disponibile il bilancio 2018, ma quello dellʼanno prima registrava un attivo di quasi due milioni di euro). In molti casi, una parte significativa dei ricavi provengono dalla vendita del patrimonio alloggiativo, che infatti negli ultimi cinque anni è diminuito di quasi il dieci per cento. Solo nella provincia di Padova il numero di alloggi attualmente a disposizione è diminuito di mille unità rispetto al 2014, nonostante la dichiarata incapacità di far fronte allʼemergenza abitativa. Altra parte consistente dei proventi sono i finanziamenti in conto capi- tale, cioè i finanziamenti diretti regionali e nazionali verso gli istituti. Ma la maggior parte dei ricavi provengo- no dai canoni di affitto. Circa due terzi delle entrate complessive sono pagate direttamente dagli inquilini delle case popolari. Più che un costo, molte di queste case si sono allora rivelate un investimento per lo Stato. Varrebbe la pena fare due conti su quante di queste siano state più e più volte ripagate dai canoni imposti agli inquilini, considerata anche lʼetà e la carenza di manutenzioni, in molti casi di fatto appaltate a chi le abitava. “Gliele abbiamo
curate noi, queste case. Dovrebbero pagarci anziché man- darci avvisi di sfratto”, raccontava Giuliana.
Ma invece è dalle loro tasche che la Regione vuole attinge- re, nel nome della lotta a quel disagio abitativo che in realtà contribuisce a creare. Nelle parole dellʼassessore ai servizi sociali Lanzarin, intervenuta a inizio Agosto per rispondere alle polemiche (e alle mobilitazioni) su questo clamoroso aumento dei canoni, “le nuove norme intervengono in particolare, visto lʼincremento della domanda e la scarsità di offerta di nuovi alloggi, sul tasso di rotazione dei beneficiari, garantendo un ricambio delle famiglie in stato di bisogno e lʼintroduzione dei principi di equità e sopportabilità per il nucleo familiare assegnatario, nonché di sostenibilità economica del sistema di edilizia residenziale pubblica.” Tradotto dal politichese: non ci sono case, non ci sono finanziamenti, ma ci sono i poveri e i conti da far quadrare… chi non è proprio disperato se ne deve andare (a farsi dissanguare da affitti e mutui diventandoci davvero disperato a quel punto) e tutti gli altri devono pagare di più! Certo, compatibilmente con la “sopportabilità per il nucleo familiare”.
Purtroppo però a veder diminuito il proprio canone di affitto non è neanche un quinto degli abitanti. Per gli altri, solo aumenti. Non solo per chi ha un ISEE superiore ai 20 mila euro, che vede un aumento medio superiore al 65% e su cui incombe lo sfratto tra due anni. Ma anche per chi ha un ISEE sotto i 20 mila euro, cioè quasi 34 mila dei 47 mila inquilini totali. Per loro
il canone medio aumenta di quasi il 30%, raggiungendo i 130 euro mensili. Così, lucrando su quello che una volta era un diritto da tutelare, lʼATER Veneto prevede di porta- re nelle sue casse altri 21 milioni di euro annui. Perché lʼequità è importante, ma sempre nei limiti della “sostenibilità economica”, ci mancherebbe.
Padroni di casa nostra
Il diritto alla casa non nasce dallo Spirito Santo, anche se forse questa è lʼopinione della Regione Veneto che nella sua unica pubblicazione ufficiale sul tema lo attribuisce addirittura alla Bibbia. A livello internazionale viene citato per la prima volta nella convenzione ONU dei diritti umani del ʻ48 e poi in quella sui Diritti Economici e Sociali del ʻ66. Quanto allʼItalia, basterebbe lʼarticolo 3 della Costituzione sullʼobbligo di rimuovere ostacoli di ordine economico e sociale che “impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Difficile in effetti svilupparsi senza un tetto sopra la testa. Questi e altri bellissimi articoli tuttavia sarebbero rimaste lettera morta senza le dure lotte delle classi popolari del nostro paese. Occupazioni di alloggi, autoriduzione dei canoni, manifestazioni. E il grande sciopero sulla casa e servizi del 1969, capace di unire i sindacati e coinvolgere tutte le categorie lavorative, a cui seguì dopo poche settima- ne, quasi in risposta, la strage di Piazza Fontana che diede avvio alla strategia della tensione. Mobilitazioni da cui nacque anche il SUNIA, il sindacato inquilini, che nel
proprio statuto cita il coraggio di chi si espose agli inevitabili “scontri con la forza pubblica e strascichi giudiziari”. Lo ricordino i fan della legalità di oggi.
Quella grande stagione di lotte lasciò il segno più grande a livello legislativo e mobilitò le più ingenti risorse finanziarie al fine di garantire il diritto a un alloggio dignitoso o un affitto equo. Superò di gran lunga i piani (per la verità molto modesti) dei decenni precedenti, quelli di Fanfani e del fondo Gescal, volti a costruire edilizia pubblica per i lavoratori del paese, che contribuivano a finanziarla con unʼapposita trattenuta in busta paga. Gran parte dellʼedili- zia popolare attuale viene da quegli anni e da quelle lotte.“Queste case le abbiamo costruite noi lavorato- ri!”, come ha urlato in un corteo a Padova un anziano manifestante. Ma questo progetto riformatore fu ostacolato sul nascere e i suoi limiti fecero da alibi per il suo smantellamento nei decenni successivi. Come alternativa veniva offerta la piacevole illusione di poter diventare tutti piccoli proprietari di casa, alimentata a suon di condoni edilizi e incentivi fiscali e sui mutui. Pochi si accorsero della fine del fondo Gescal negli anni ʼ90 e del progressivo taglio alle risorse necessarie all’edilizia popolare, che univano il centrodestra e il centrosinistra della seconda Repubblica. Fino ad arrivare a oggi, con le politiche per la casa ridotte al minimo nel pieno di unʼemergenza sociale.
Per colmare questo vuoto senza dover stanziare risorse – magari andando a prendere i soldi da chi ce lʼha – e senza intaccare gli interessi di costruttori e affittuari, ma anzi potenzialmente ampliandone il mercato, lʼultima trovata è il cosiddetto “social housing”. Laddove manca un progetto, subito spunta una parola inglese. Non si tratta di nientʼaltro che di un restyling delle vecchie politiche dellʼItalia liberale di inizio Novecento, destinate ai redditi medio-bassi e volte a coniugare forti interessi privati e politiche sociali deboli. Oggi dovrebbero garantire una casa a chi non ha diritto a un alloggio pubblico ma è in estrema difficoltà a pagare affitti a prezzo di mercato. Gli strumenti sono molteplici, ma in sostanza la funzione del pubblico diventa quella di garantire i profitti a costruttori e affittuari (spesso grandi fondi finanziari) mantenendo prezzi accessibili per i soggetti destinatari degli alloggi – in sintesi, mettendoci la differenza. Tutto questo mentre la stragrande maggioranza di quelli che avrebbero diritto alla vecchia edilizia popolare rimangono in lista di attesa ad aspettare il giorno in cui lʼalloggio gli verrà assegnato!
Con buona pace delle Sacre Scritture la Regione Veneto in questi anni ha “anticipato [queste] strategie di predilezione per il settore privato” che venivano portate avanti a livello nazionale. Lo scrive la Cassa Depositi e Prestiti in un apposito studio. Le norme per lʼedilizia residenziale del 1978 e poi la legge Bassanini del 1998 hanno infatti conferito ampi spazi di manovra alle Regioni rispetto alle politiche abitative. Cosa ci ha fatto con questa autonomia la regione di Zaia, che lʼautonomia la sogna e la pretende su ogni materia? Ha garanti-
to affari privati con soldi pubblici, lucrando sul disagio abitativo da essa stessa denunciato. Lo ha fatto prima del Piano Casa del Governo Berlusconi del 2008, quello che pretendeva di risolvere il problema abitativo incentivando e liberalizzando la costruzione di case; o meglio, voleva facilitare gli affari di investitori e costruttori a colpi di finanziamenti statali e deroghe sui vincoli urbanistici e paesaggistici, usando lʼemergenza sociale come scusa. E lʼha fatto ben prima di analoghe misure dei successivi governi Monti, Letta, Renzi, tutti accomunati dalla retorica per cui le “difficoltà del settore edilizio e del mercato abitativo” potessero essere addebitate a una generica “burocrazia”, come scrive Giancarlo Storto nel recentissimo “La casa abbandonata”.
“Liberiamoci di lacci e lacciuoli, freghiamocene dei vincoli, sosteniamo gli imprenditori con le tasse dei cittadini e vedrete che le case ci saranno per tutti”. Questa propaganda ci ha lasciato indietro cemento, non case. Profitti, non diritti. Il Veneto detiene il record italiano di consumo di suolo, come le tragiche alluvioni che lo hanno colpito in questi anni ricordano. Ma al contempo è la regione che più di tutte ha recepito il Piano Casa di Berlusconi, liberalizzando ulteriormente costruzioni e cementificazioni. Ma soprattutto, come dicevamo, aveva già anticipato il principio ispiratore di questa e delle successive leggi. Alcuni numeri. Dal 2001 al 2006 nella nostra regione sono stati spesi 293 milioni di euro per questioni relative allʼabitare, quasi cento di provenienza statale mentre il resto regionale. Come scrive la
Cassa Depositi e Prestiti, gran parte di essi sono stati impiegati in progetti che vedono “un significativo coinvolgimento di privati”: se le Ater hanno ricevuto in questi cinque anni solo 28,5 milioni, il resto delle risorse sono andate o a sostenere la domanda (quindi a integrazione di affitti o mutui), o direttamente spesi in progetti in cui costruttori, imprese, cooperative edili e proprietari di case si sono degnati gentilmente di mobilitare le proprie risorse private essendo sicuri che lo Stato gli avrebbe garantito i loro ricchi guadagni.
Di quelle risorse e di quegli investimenti privati cʼera bisogno, ci ricordava però la Regione Veneto nel 2007. Perché i già citati fondi Gescal erano cessati da tempo e a livello statale lʼultima individuazione di risorse destinate allʼedilizia residenziale pubblica risaliva al 2001. E quei finanziamenti non erano comunque ancora stati effettiva- mente assegnati. Bisognava sforzarsi allora di trovare “nuovi canali di finanziamento”. Ma perché piuttosto non battagliare con il Governo perché queste risorse venissero sbloccate? Perché non far valere con forza le ragioni di quel popolo con cui le istituzioni locali sono a diretto contatto, di cui conoscono le emergenze sociali, protestando contro la scarsità di investimento a loro destinati, contro lʼinsostenibilità sociale di questi tagli? Ah giusto, perché al governo in quel momento cʼerano le stesse forze politiche che governavano la regione! E perché anche quando poi al governo ci sono state quelle ufficialmente opposte, finché si trattava di tagliare fondi pubblici e di garantire profitti privati le differenze si potevano mettere da parte. Così per anni in Veneto la Lega e Forza Italia hanno potuto giustificare le proprie scelte politiche locali con i risultati devastanti di politiche nazionali che erano le prime a portare avanti o contro cui non si sono mai opposte. Negli anni successivi e fino a oggi infatti la litania sarà sempre quella: non ci sono abbastanza soldi pubblici, i pochi che ci sono bisogna spenderli per stimolare gli investimenti priva- ti. Così dei 130 milioni di euro del Programma regionale per lʼedilizia residenziale pubblica 2007-2009, la gran parte (più di cento milioni), finiranno in edilizia agevolata, quella cioè destinata alla locazione a canone calmierato o alla cessione in proprietà a prezzo convenzionato. E allʼinterno di questa, al “social housing” che viene nominato per la prima volta in questʼoccasione.
Ed è nellʼinvocazione di questa formula magica che viene raggiunto lʼapice dellʼipocrisia. Una delle principali criticità delle strategie per far fronte “allʼemergenza abitativa”, si legge nel Programma Regionale 2007, è rappresentato dalla “crescente presenza di nuclei familiari [che] a causa del superamento del massimale di reddito previsto dalla vigente legislazione, non possono accedere allʼofferta proposta dalle A.T.E.R., né dʼaltra parte possono permettersi di poter affrontare gli elevati canoni di affitto proposti dal libero mercato”. Ma quel massimale non è deciso da Dio, è la Regione a definirlo. Basterebbe alzarlo e include- re nelle graduatorie per gli alloggi popolari anche questi nuclei familiari di cui si riconosce appunto “la limitata potenzialità [sic] economica”. Certo, a quel punto aumenterebbero le persone che hanno diritto a un alloggio popolare, quando lʼofferta di alloggi è già di gran lunga insufficiente a soddisfare la domanda attuale. Ma è questa allora lʼemergenza!
Peccato però che si tratti di unʼemergenza poco redditizia. Mentre il “social housing” – con le sue fondazioni banca- rie, le sue cooperative edilizie, le sue onlus e infine il suo Fondo Immobiliare Etico Veneto Casa – con la scusa di rendere etico il business, può fare dellʼetica un business. Per questo negli anni successivi, con il Piano strategico delle politiche della casa del Veneto del 2013-2020, si proseguirà su questa linea. Ancora una volta: emergenza abitativa, alloggi di edilizia residenziale insufficienti, finanziamenti pubblici che mancano, manutenzioni che costano troppo. La risposta? Da una parte la vendita del patrimonio pubblico, addirittura attraverso un Piano Straordinario che mirava a genera- re 800 milioni di euro in sette anni attraverso la svendita di quasi ventimila alloggi (a cui farebbe fronte lʼacquisto di soli ottomila). Dallʼaltra incentivi per edilizia agevolata e social housing per tappare tutti i buchi. A queste ultime misure vanno la maggior parte delle risorse, nello stesso momento in cui il patrimonio pubblico diventa strumento per battere cassa. Perché oltre alle dismissioni, la trovata geniale che viene partorita è quella da cui siamo partiti all’inizio del nostro racconto: aumentare i canoni di affitto dell’edilizia popolare, fino ad aumentare gli introiti di 120 milioni di euro in pochi anni. Da qui nasce la famigerata legge regionale 39/2017 contro cui si battono gli inquilini delle case popolari.
Chiamarli “furbetti”, come fanno i giornali e giornalisti incapaci di mettere insieme i fatti o anche solo di leggere carte di pubblico dominio, serve a nascondere manovre furbe per davvero. Quelle dellʼATER e della Regione, il primo che continua ad accumulare utili, la seconda che taglia quanto vuole le spese. Tra svendita del patrimonio e canoni sempre più alti l’ATER prova infatti a contare solo su risorse proprie, o meglio su quelle ereditate dagli investimenti pubblici del passato e tramutati ora in capitali da spremere. Chi se ne importa dei diritti, con la trasformazione che negli anni ʼ90 ha portato quelli che erano una volta gli Istituti Autonomi Case Popolari (IACP) in Aziende Territoriali per lʼEdilizia Residenziale, la logica diventa appunto puramente aziendalista. In questo modo la Regione è libera di dirottare fondi sulle aziende vere e proprie, fornendo ulteriori alibi allʼATER che può mascherarsi dietro “i soldi che non ci sono”. Il cerchio si chiude. Non prima però di aver messo milioni di soldi pubblici nelle tasche dei grandi furboni, i padroni di casa nostra: i fondi immobiliari, le fondazioni banca- rie, i costruttori edili. E in mezzo, un mondo opaco fatto di cooperative e di onlus che elargiscono assistenzialismo a pagamento.
Ma il circolo diventa perverso. Lʼedilizia popolare non serve infatti solo a dare una casa a chi non ce la fa. Aumentando lʼofferta di case ne abbassa il prezzo medio, calmierando così il mercato immobiliare e rendendolo accessibile anche a quelli non direttamente inseriti nel circuito dellʼedilizia popolare. Quei ceti “medio-bassi” che la Regione invoca così spesso. Che di riflesso è uno dei motivi per cui la legge sullʼequo canone, istituita nel 1978 per fissare un tetto massimo agli affitti, ha fallito il suo scopo, alimentando spesso il mercato nero o lasciando numerose case sfitte. Senza essere accompagnata da unʼadeguata offerta di edilizia pubblica – comʼera in realtà negli intenti iniziali – è rimasta infatti unʼarma spuntata. E i suoi fallimenti ne hanno giustificato la cancellazione definitiva meno di ventʼanni dopo con il Governo Amato prima e Prodi poi. Ma questo “non portò ad alcuna diminuzione significativa degli alloggi sfitti o inoccupati”, ma piuttosto a “un progressivo aumento del livello dei canoni di locazioni private”, come documenta Elisa Olivito in “Il diritto costituzionale allʼabitare”. Oggi ci ritroviamo senza equo canone e con sempre meno case popolari, mentre le disuguaglianze crescono, dilaga la precarietà e la crisi morde. Per questo “l’emergenza casa sembra ricordare gli anni settanta”, come scrive proprio la regione Veneto. Ma chiamarla emergenza serve solo a giustificare misure tampone che poi finiscono per aggravarla. Perché questo è il risultato di politiche che anziché concorrere con il mercato privato, lo integrano con soldi pubblici per permettergli di arrivare ancora più lontano. I prezzi degli affitti possono non scendere mai, tanto ci saranno i finanziamenti regionali a integrare i redditi delle famiglie in difficoltà. I prezzi così si calmierano, sì, ma all’incontrario, rimanendo per sempre alti e insostenibili. E sempre più soldi pubblici diventano necessari per chi non ce la fa, per trovare soluzioni temporanee a chi viene sfrattato, per stimolare nuovi investimenti “socia- li”. Alimentare lʼemergenza e lucrarci sopra, in nome delle sacre scritture, di cui si ripete la lettera e si tradisce lo spirito. Ecco il Veneto cattolico di Zaia.
Il risultato paradossale è che per spendere meno, per non provare a risolvere il problema a livello strutturale, si finisce per spendere di più, in misure permanentemente emergenziali. E oggi queste misure la regione Veneto vuole finanziarle attingendo ai portafogli delle vittime, con una patrimoniale all’incontrario o “patrimoniale dei poveri”, come in un articolo su Jacobin un attivista dellʼADL Cobas ha giustamente definito questa legge regionale che attinge ai risparmi di chi ha lavorato una vita, per economizzare su quellʼedilizia pubblica che dovrebbe essere un diritto.
Una lotta giusta, da generalizzare
I poveri però si sono ribellati. “Siamo poveri, non stupi- di”, recita uno degli slogan più ripresi. La loro mobilitazione è un sassolino dentro questʼinfernale ingranaggio che aggrava i problemi che dice di voler risolvere, fa passare le vittime per carnefici, ribalta cause ed effetti. Perché però questa spirale si interrompa davvero, la lotta deve farsi più decisa e più estesa.
La prima rivendicazione dev’essere ovviamente quella del ritiro della legge 39. Nessun emendamento o revisione può bastare. La sua logica è sbagliata alla radice e non le si deve lasciar spazio. E se davvero si vogliono colpire i “furbetti” lo si faccia, siamo pronti a dare una mano a scoprire i milionari che abitano a scrocco. Siamo infatti i primi a voler cacciare chi lucra sullʼedilizia popolare. Ma a questo punto perché accontentarsi? Si faccia una vera battaglia contro tutta l’evasione fiscale della nostra regione, quella dei ricchi furboni che riescono a dichiarare redditi inferiori a quelli dei lavoratori dipendenti. Ah giusto, secondo la doppia morale leghista loro sono sempre giustificati. Se evadono è perché le tasse sono troppo alte. Ma invece i canoni di affitto non lo sono? I redditi degli straricchi vanno difesi, mentre i risparmi dei lavoratori dovrebbero essere mangia- ti dalle manovre dellʼAter? Noi crediamo di no. La legge va ritirata!
E non ci dicano che non ci sono i soldi. Abbiamo visto i bilanci degli ATER in attivo e i milioni di euro spesi dalla Regione per finanziare progetti su cui investitori privati potessero guadagnarci. I soldi ci sono e devono essere subito destinati alla manutenzione degli alloggi pubblici e all’acquisto e costruzione di nuovi. È uno scandalo che ci si riempia la bocca di emergenza abitativa e non si faccia niente di significativo per quel 90% e oltre di domande ammesse ma insoddisfatte perché mancano gli alloggi da assegnare. Anzi, si fa proprio lʼopposto, continuando a dismettere il patrimonio già esistente. Altro che svendite, l’edilizia residenziale pubblica deve tornare a essere la priorità! Anche per i benefici che può avere per i famosi ceti medio-bassi su cui le politiche di “social housing” vorrebbe- ro lucrare. Oltre a estendere sempre più lʼedilizia popola- re per toccare almeno parte di loro, bisogna puntare sugli effetti di calmieramento dei prezzi degli affitti che questa può avere.
Chiaro, un programma così ambizioso rischia di erodere queste stesse disponibilità finanziarie, anche tenendo in conto i risparmi che può al contempo generare. Questo però vuol soltanto dire che ad esso va accompagnata la liberazione di nuove risorse pubbliche da destinare alle politiche abitative. Innanzitutto nella nostra regione, che è una delle poche che non applica unʼaddizionale sullʼIRPEF, facendo di questo addirittura un vanto. L’addizionale IRPEF va reintrodotta, in una forma estremamente progressiva. Applicandola innanzitutto ai redditi più alti, magari quelli frutto di rendite immobiliari o finanziarie, dirottando gli introiti così generati in misure di edilizia popolare. E poi a livello nazionale, con una politica seria di redistribuzione della ricchezza, attraverso una maggiore progressività fiscale, il recupero dellʼevasione e la tassazione dei grandi patrimoni. Altro che flat tax e patrimoniali allʼincontrario!
Prima che si dica che non si può fare, che lʼEuropa (non) ce lo chiede, ricordiamoci che sulla politica fiscale il nostro paese ha totale autonomia rispetto ai dettami dell’Unione Europea. E per quanto riguarda i diktat di questʼultima, se sono di ostacolo alla spesa socia- le (come sono quasi sempre) allora vanno a loro volta combattuti. Il nostro Paese è in avanzo primario dal 1992. Ricava cioè dalle tasse più soldi di quanti non ne spenda per servizi e altro. A portarlo in deficit sono le spese per gli interessi sul debito accumulati nel decennio precedente. In pratica i lavoratori italiani, che sono i principali contribuenti anche a causa dellʼevasione fiscale di tutti gli altri, continuano a spendere in tasse più di quanto ricevano in servizi. Il resto se lo intascano i mercati finanziari che ci hanno prestato i soldi quarantʼanni fa e ancora lucrano su quella rendita. E lʼUnione Europea li tutela, con i suoi deliri contabili sullʼimpossibilità di sforare oltre una certa soglia il rapporto debito/pil. Per questo la lotta va estesa, contro gli attuali trattati europei e contro il ripagamento di un debito ormai illegittimo, di cui le classi popolari non hanno alcuna responsabilità.
Ma così come non abbiamo entusiasmi per il mercato, non ci facciamo illusioni neanche sulle virtù dello Stato, anche qualora fosse libero dalle “imposizioni” di Bruxelles, come vorrebbero i presunti sovranisti nostrani. Qualsiasi riforma sociale ha delle ripercussioni impreviste, suscita reazioni nella classe proprietaria che possono ad esempio portare all’abbassamento dei salari una volta che ai lavoratori venisse garantito un alloggio dallo Stato, visto che le buste paga non dovrebbero più tenere in conto affitti o mutui. Oppure ad aumentare i prezzi di tutti gli altri beni, portando di fatto alla situazione precedente. O ancora, a toglie- re in salute e in paesaggio quello che si è guadagnato calando cemento. Più concretamente: finché continuerà a dilagare la disoccupazione, il lavoro nero e quello povero e precario, sarà pressoché impossibile garantire una casa a tutte le persone che vivono nel nostro Paese, non importa quanti soldi si spendano per farlo.
Questo non è un motivo per non lottare, come vorrebbe il qualunquismo dilagante, che con la retorica del “tanto non cambia niente” giustifica i comportamenti più gretti ed egoisti. Proprio lʼopposto: è il motivo per estendere la lotta il più possibile. Il più furbo dei comportamenti individualisti non contiene allora neanche la metà della lungimiranza e intelligenza dimostrata dagli inquilini ATER nelle loro mobilitazioni, per quanto incerti e confusi possano essere stati i loro primi passi. Compito di noi tutti è rendere i prossimi ancor più solidi, dargli ancor più prospettiva, far risuonare le loro istanze.
a cura di Potere al Popolo Padova