Intervista all’associazione Inclusiv3 sul suo lavoro incentrato su intesezionalità, inclusività, e lotta alle discriminazioni.
di Leonardo Mezzalira
Inclusiv3 è un’associazione di Verona che si occupa di inclusività e di lotta alle discriminazioni con un approccio intersezionale. Ma da dove nasce quest’esperienza? Che cosa indicano esattamente questi concetti chiave, e come vengono declinati nelle attività dell’associazione? Per saperne di più, Seize the Time ha intervistato per Inclusiv3 Serena Tosi Santoro e Stefano Capponi, rispettivamente presidente e segretario dell’associazione.
Come nasce l’esperienza di Inclusiv3?
L’associazione è nata ufficialmente nel 2023, ma affonda le sue radici in esperienze precedenti, incentrate soprattutto sul giornalismo. Già intorno al 2010 alcun* di noi, soprattutto Serena, scrivevano su varie testate online, ma non tutte le riflessioni trovavano spazio e sembrava mancare un portale specificamente dedicato al tema delle discriminazioni. Così nel 2011 è nato Il Referendum, rivista online incentrata su diritti, minoranze e sociale. Il Referendum è stato registrato come testata giornalistica, abbiamo organizzato un festival del giornalismo giovanile a Verona e abbiamo creato una vasta rete di contatti e relazioni. Nel 2015 il percorso de Il Referendum si è concluso, ma è rimasto un passaggio formativo fondamentale per tutte le persone che ne hanno fatto parte, tanto che durante il periodo del Covid si è iniziato a ragionare su un eventuale nuovo progetto giornalistico. Molte videochiamate dopo abbiamo dato vita a Inclusiv3, che rispetto a Il Referendum si propone di fare più un lavoro da associazione anche se tiene dentro anche una parte di informazione (la newsletter, a cui ci si può iscrivere qui).
Perché avete deciso di concentrarvi in particolare sul tema dell’intersezionalità?
Al centro dell’esperienza de Il Referendum c’era il tema delle discriminazioni e dei diritti in generale. Ma occupandosi di diritti ci si rende conto ben presto che spesso le discriminazioni sono collegate tra loro, e combinandosi danno vita a “intersezioni” specifiche, che a uno sguardo inavvertito rischiano di rimanere invisibili. Da qui la volontà di concentrarci sul principio dell’intersezionalità. Il termine è stato introdotto nel 1989 da Kimberlé C. Crenshaw in un articolo che parlava dello status delle donne nere: l’essere donna e l’essere nera, secondo Crenshaw, determinano uno specifico status di marginalizzazione che non appartiene né alle sole donne bianche né ai soli uomini neri. In mancanza di uno sguardo intersezionale, questa e molte altre forme di oppressione e marginalizzazione restano al di fuori del discorso sociale e politico.
Quanto diffuso è, attualmente, il pensiero intersezionale?
Il termine è ben noto in ambito accademico, è sempre più utilizzato nell’ambito dell’attivismo, e recentemente ha anche iniziato a comparire nell’ambito istituzionale. Non sempre, però, se ne fa un uso adeguato. Intersezionalità e inclusività sono concetti ben precisi, che se usati a sproposito rischiano di non servire a nulla o a volte anche di essere controproducenti.
Potreste fare un esempio di uso improprio dei termini?
Nel caso dell’intersezionalità, si vedono manifestazioni in cui a volte il tema centrale è offuscato dalla volontà di tenere dentro tutte le altre rivendicazioni. Così le manifestazioni rischiano di diventare tutte uguali, si rischia di perdere di vista il punto e di lanciare un messaggio non chiaro. Dal nostro punto di vista sarebbe meglio manifestare per una questione specifica, e nominare le altre questioni solo se sono davvero collegate, e spiegando bene perché lo sono; altrimenti il riferimento all’intersezionalità rischia di assomigliare a fenomeni di finta inclusività, come avviene per il tokenismo (il fenomeno per cui gruppi di maggioranza inseriscono una persona facente parte di una minoranza al solo scopo di sembrare inclusivi, NDR), lo si fa per apparire nel giusto senza averci riflettuto a fondo.
Sui social poi c’è una tendenza, forse un po’ anglosassone, ad utilizzare questo e altri concetti in modo semplificato e molto polarizzante – è un approccio che fa audience, ma divide e rischia di ricadere nell’attivismo performativo. L’intersezionalità non è un valore ma uno strumento; non si manifesta “per” l’intersezionalità, ma si usa l’intersezionalità come una lente per leggere la realtà. È un approccio che deve essere al servizio della complessità, non della semplificazione, altrimenti non funziona e anzi rischia di frammentare i gruppi sociali discriminati in tanti sottogruppi con dinamiche corporative al loro interno.
Quanto invece al termine “inclusività”, se ne fa un uso talvolta improprio negli ambienti più diversi – dalle scuole alle aziende – dimenticando che un’inclusività sostanziale deve essere – ad esempio – al contempoanticapitalista, anticoloniale, transfemminista, laica altrimenti la parola si svuota.
Come Il Referendum vi eravate registrat* come testata giornalistica, come Inclusiv3 avete costituito un’associazione. Perché avete sentito questa necessità e qual è il vostro rapporto con il mondo delle istituzioni?
Ai tempi de Il Referendum ci siamo registrat* al tribunale per essere più credibili rispetto a un semplice blog; questo passaggio, in effetti, ci ha obbligat* a interfacciarci con giornalist* di professione, ci ha consentito di organizzare un festival patrocinato dal Comune di Verona, insomma ci ha dato alcuni accessi che altrimenti non avremmo avuto. C’era poi l’idea di creare una struttura e che la rivista potesse diventare per alcun* di noi un lavoro. Per gli stessi motivi ora, come Inclusiv3, abbiamo costituito un’associazione registrata: le quote associative e le donazioni ci permettono di finanziare i nostri progetti, e in futuro prevediamo di partecipare a bandi, iniziando, prima di tutto, come partner di progetto.
Detto questo, non siamo un’associazione liberal: il nostro lavoro si colloca a scavalco tra le istituzioni e le lotte di base, partecipiamo a manifestazioni come quella per la Palestina dello scorso 5 ottobre e facciamo parte della rete contro il DDL Sicurezza ma allo stesso tempo dialoghiamo con le istituzioni e il mondo del sociale – abbiamo anzi l’ambizione di fare da ponte tra i due mondi. Proprio per questo nostro posizionamento, a volte registriamo una certa diffidenza nei nostri confronti da entrambe le parti. Crediamo però che, con una mission forte alla base, la struttura e i fondi ci permettano di fare di più senza perdere la nostra identità.
Parliamo delle vostre attività. Che cosa fate concretamente per promuovere il pensiero intersezionale?
Innanzitutto pubblichiamo una newsletter con alcune rubriche fisse, ad esempio sul lavoro di cura, sull’autismo e sull’archeologia di genere, oltre a una rubrica specifica sulle intersezioni (ma l’approccio intersezionale è comune a tutti i contributi: ad esempio la rubrica sul lavoro di cura intreccia il tema principale con le discriminazioni di genere, nazionalità, appartenenza ad un gruppo sociale discriminato e a una classe).
La scorsa primavera poi abbiamo organizzato un primo corso online sulle discriminazioni intersezionali, che ha previsto lezioni sull’intersezionalità da un punto di vista sociologico e giuridico, seminari (ad esempio su lavoro e antirazzismo, disabilità e questioni di genere, ecofemminismi e resistenza animale, neuroqueering), un webinar sul contrasto alle mutilazioni genitali femminili e un laboratorio sulle discriminazioni intersezionali e le donne musulmane.
A ottobre abbiamo tenuto un workshop sull’intersezionalità in collaborazione con ARCS Culture Solidali nella sede di Arci nazionale a Roma, all’interno dello scambio europeo Youth Exchange – Generazione Solidale.
Tra le altre attività, abbiamo organizzato diversi eventi in città, svolgiamo attività di advocacy (attività di supporto e informazione a campagne volte a influenzare le politiche pubbliche, NdR) e abbiamo partecipato a diverse campagne, tra le ultime quella per il reddito di liberazione (per le donne e persone socializzate come donne vittime di violenza) promossa dal movimento Bruciamo Tutto.
Chi sono in generale le persone che vi seguono? Ad esempio, quali erano i destinatari del corso della scorsa primavera?
Uno degli scopi del corso era far uscire il discorso sull’intersezionalità dal giro ristretto di chi si occupa di sociologia del diritto (in accademia) e di chi lavora negli sportelli antidiscriminazione. L’operazione ci sembra riuscita: abbiamo avuto una quarantina di partecipanti tra cui persone appartenenti a categorie discriminate, attivist*, avvocat*, persone che lavorano nel sociale, persone che si occupano di questi temi per conto di Comuni e altri enti.
Quando si parla di intersezionalità, la maggior parte dei discorsi tiene dentro principalmente genere, razzializzazione e classe. Voi invece nominate molti altri fattori, tra cui la questione ambientale. In quali modi la questione ambientale interagisce con gli altri fattori di oppressione/discriminazione?
Il punto centrale è che la crisi ambientale non viene vissuta da tutt* allo stesso modo, ma impatta diversamente sulle diverse persone a seconda degli altri fattori di discriminazione. Per parlare di questo aspetto del fenomeno tornano utili alcuni concetti, come quello di giustizia climatica, di razzismo climatico, e il termine intersectional environmentalism nato nel momento culminante del movimento Black Lives Matter. Il pensiero intersezionale permette di affrontare con più cognizione di causa un fenomeno come quello delle migrazioni climatiche, con le sue dinamiche interne di marginalizzazione (ad esempio migranti donne, persone anziane o persone con disabilità migrano con più difficoltà). E non si parla solo di clima: grazie ad uno sguardo intersezionale si può anche, per esempio, analizzare il fenomeno per cui i gruppi sociali discriminati, a causa delle loro condizioni economiche, abitative o geografiche, sono più esposti di altri all’inquinamento dell’aria e alla contaminazione del cibo. Abbiamo affrontato alcuni di questi temi nell’ambito della nostra partecipazione a Resistenza climatica, movimento veronese culminato in un documento inviato al Comune e contenente una serie di richieste politiche. Tra queste, abbiamo lavorato per inserire una richiesta di attenzione alle soggettività più esposte alla crisi ambientale.
Foto di copertina: Flash mob Tocca a noi per lo stop alla “Tampon Tax” a Piazza dei Signori a Verona – foto di Inclusiv3