di Cecilia Beretta
Le città di pianura, secondo lungometraggio di Francesco Sossai, presentato a Cannes nella sezione Un certain regard, è una cartografia della terra, il Veneto, scarabocchiata sui tovaglioli da bar e filmata in pellicola.

Due perdigiorno cinquantenni, Pierpaolo Capovilla e Sergio Romano, Carlobianchi e Doriano, che bivaccano da un bar all’altro tra indigesti cocktail di gamberetti e addii al nubilato in cui poter elemosinare qualche drink, ci accompagnano in un viaggio a bordo di una Jaguar un po’ âgé alla ricerca del significato più profondo dell’esistenza, che forse si cela in quell’ultimo bicchiere che si rivela sempre essere il penultimo.
Sul loro cammino caracollano fino a Venezia dove si imbattono in una provvidenziale laurea che adempierà a due funzioni fondamentali per il proseguimento del film: l’incontro con un giovane e rigido studente di architettura e la scoperta dell’apertura notturna dei Biliardi, storico locale veneziano ormai chiuso, dove possono continuare a mantenere alto il tasso etilico tracannando spaventosi gin tonic a due euro e cinquanta.
Giulio, innamorato della laureanda ma troppo imbranato per poterla approcciare, viene sequestrato dai due protagonisti che decidono di iniziarlo alla vita e a quel Veneto di cui non sanno niente di importante ma tutto di essenziale e lentamente si trasforma nel loro quarto moschettiere. Il terzo, Genio, Andrea Pennacchi, come nei migliori romanzi di appendice, risulta disperso in una terra lontana da cui forse sta per fare ritorno. Ovviamente i nostri eroi sbaglieranno aeroporto e mancheranno il suo arrivo.
In realtà il film inizia anni prima, in un parcheggio di una fabbrica di occhiali del bellunese in cui un venetissimo imprenditore scende dal suo elicottero per pochi minuti in vista del pensionamento del suo più longevo dipendente. Incontriamo il signor Sossai, questo ironicamente il suo nome, come fidatissimo operaio, encomiabile padre di famiglia sposato con Genni e lo ritroveremo come morto vivente davanti ad una slot machine di un bar di paese da cui non può staccare lo sguardo. Forse si è giocato tutto, anche la casa, ma al polso sfoggia ancora il Rolex regalo dell’imprenditore, vestigia di un mondo perduto, degli anni d’oro del Veneto locomotiva d’Italia che hanno permesso al Genio di arricchirsi prima e di essere condannato per associazione a delinquere poi.

La pellicola on the road ci regala un Veneto per frammenti che ci restituisce qualcosa più del suo tutto, il Bacareto da Lele in cui i facchini e guidatori di vaporetto gustano ombre e panini mentre dalle case si diffonde ancora l’aroma del primo caffè, la villa veneta svuotata di tutto il cui parco storico sarà distrutto dal passaggio dell’autostrada, i colori sfumati del Veronese negli affreschi, la luce filtrata dalla nebbia. Ma anche il cemento armato rigato dalla pioggia degli edifici brutalisti mai conclusi, l’antimeridionalismo duro a morire, i dispenser di sapone fluorescente nei bagni di provincia popolati da un’umanità malinconica e alcolica al contempo.
I due protagonisti vogliono costringere Giulio, straniero in patria, a guardare in faccia il loro Veneto, la loro Terra, che è Terra e non territorio, prima che venga sfigurata e resa irriconoscibile: la terra delle prime uve, delle prostitute che ricevono in bifamiliari progettate da geometri di paese e dell’osteria dei tavolacci di legno della Mery, luogo mitico in cui l’aglio delle lumache è talmente delicato da esaltare il loro sapore senza camuffarlo.
Come spesso accade, quando finalmente la ritroveranno, visto che nel frattempo hanno dimenticato la strada per arrivarci, sarà molto diversa dal ricordo. L’insegna “Dalla Mery” è diventata monca: è caduta la sua grande R gialla, simbolicamente il pezzo mancante che non può più restituire l’insieme.
Giulio dovrà adeguarsi a questa vita di caffè corretti, da uomini mai cresciuti, che nasconde in sé una struggente bellezza. Come quella del paesaggio che i capannoni, le fabbriche e le case sottraggono allo sguardo. Un paesaggio molto diverso da quello che lo studente ad un certo punto osserva in un affresco, un capriccio, in cui le montagne il mare idealmente si uniscono, senza tutte quelle città di pianura in mezzo che lo divorano.

La verità della parola ma anche della visione è sempre celata: dal cemento, dal rumore delle pale di un elicottero che interrompe un discorso, dalla porta scorrevole di un treno regionale che impedisce di cogliere il senso più profondo che è tale solo finché ci sfugge.
Un film sulle luci e le ombre, liquide e non, del Veneto, che parte dalle sue vette per scendere al livello del mare, e corre sull’asfalto di quelle città di pianura che per capriccio vorremmo non esistessero ma che tutto rendono possibile. Stanno in mezzo e vorremmo cancellarle per restituire una cartografia diversa, in cui esistono solo la Mery, Lele, la tomba Brion, le gare di Apecar in paese e non ci sono più tutti quei capannoni, quei cartelloni pubblicitari, quelle Pedemontane e quei Mose.
Il film di Francesco Sossai si gioca tutto sugli alti e bassi per raccontare ciò che sta in mezzo, attraverso uno sguardo orizzontale altezza uomo, altezza divano letto che si apre quando arrivano gli ospiti. Un film-planimetria in cui ciò che sta davanti ai nostri occhi deve essere guardato dall’alto per poter essere compreso nelle sue reali proporzioni. Un racconto in cui la mappa del tesoro è nascosta in una scatola di latta dei Baicoli veneziani piena di vecchie fotografie, ma che quando si giunge alla famosa X rossa, la destinazione finale ci rivela che le cose non sono più come dovrebbero essere e il sotto è diventato il sopra. Non c’è più nulla sotto cui scavare, l’unica cosa che è rimasta la stessa è il cielo basso e grigio, non ancora mangiato dagli edifici.
Giulio imparerà tutto e niente dai suoi due allegri aguzzini ma saprà anche mostrare ai suoi compagni di viaggio una bellezza aliena ai loro occhi, quella dalle linee pulite e rigorose degli elementi decorativi scarpiani della Tomba Brion, nei cui cerchi crederanno di riconoscere l’impronta rossa di vino lasciata dai bicchieri da ombra quando si intrecciano su una tovaglietta di carta da osteria.
Il film inizia in aria, su un elicottero e finisce sull’asfalto, altezza terra, dove un gigantesco gelato che sfidava le leggi di gravità, crolla per essere cancellato dagli pneumatici delle auto che corrono sulla statale. Il gelato, quel dolce che arriva in fondo, traccia labile dell’esistenza di Carlobianchi e Doriano sulla Terra ci commuove proprio per la sua incapacità di restare ma per la gioia pura che leggiamo negli occhi di lo stringe in pugno. Una gioia che se sapessimo rendere politica forse cambierebbe il destino di questa regione.
