di Oreste Veronesi
A Verona, in un’area chiamata Spianà, resiste ancora uno degli ultimi lembi di suolo agricolo e verde, nelle immediate vicinanze del centro urbano. Proprio lì, in una zona che fa già fatica a respirare, tra Borgo Milano, San Massimo, Borgo Nuovo e Stadio, è stato proposto un intervento presentato come “green e innovativo”: una piscina per il surf urbano, con onde artificiali generate da pompe, strutture ricreative, seicento parcheggi e un’area bungalow.
Il progetto è stato proposto dal patron del gruppo Calzedonia e accolto con entusiasmo dall’attuale amministrazione comunale. La giunta ha approvato in via preliminare il progetto, identificando tuttavia l’area di località Bertacchina, e non più la Spianà come sede dell’attuazione. Nei comunicati ufficiali si parla di “riqualificazione sostenibile”, “recupero ambientale”, “verde attrezzato per tutti” in quanto, gli imprenditori proponenti donerebbero al Comune un’area adiacente al parco della Spianà per ampliarlo e valorizzarlo ulteriormente

Ma cosa c’è davvero dentro questo progetto? E, soprattutto, che idea di città si sta promuovendo quando si trasformano spazi agricoli in attrazioni artificiali?
Di sovranità e servitù
C’è un mito che ricompare ogni volta che un grande investimento privato si affaccia sulla città: quello di Re Mida. Ogni cosa che il privato tocca diventa oro. È lo stesso racconto che accompagna oggi il progetto del surf urbano alla Bertacchina. “Dire no a quest’opera”, ha dichiarato l’ex sindaco Flavio Tosi, “è come dire no a Re Mida”. Ma Re Mida, è bene ricordarlo, finisce da solo, circondato da ricchezze inutilizzabili, senza possibilità di mangiare e bere.
Il paragone è più calzante di quanto sembri: ciò che si presenta come un’opportunità d’oro per la città rischia di essere l’ennesima trappola urbanistica. Un altro caso di consumo di suolo camuffato da rigenerazione. Un’iniziativa privata, accompagnata da una narrazione pubblica costruita su parole come “sostenibilità”, “innovazione”, “attrattività”. Ma che nei fatti produce solo terreno impermeabilizzato.
Un progetto privato, una narrazione pubblica
Il surf urbano nasce come progetto privato e la giunta di centro sinistra guidata da Damiano Tommasi lo ha accolto come un’opportunità strategica per la città. Solo la voce dell’assessore al bilancio Michele Bertucco è stata critica, non condividendo l’iniziativa. A leggere i comunicati ufficiali, sembrerebbe quasi un parco accessibile e integrato nel paesaggio. Ma in realtà si tratta di una piscina artificiale alimentata da pompe, costruita su 13 ettari di suolo agricolo, con un forte impatto idrico ed energetico. Un impianto pensato per attrarre turismo e investimenti, non per rispondere a bisogni locali.
La stessa amministrazione è stata chiara: “l’attrattività dell’area potrà crescere grazie al richiamo nazionale e internazionale generato dalla novità dell’offerta sportiva, prolungando i tempi di permanenza dei visitatori in città”. Come spesso accade, la parola “green” viene svuotata di ogni significato ambientale e utilizzata come brand urbano. Il verde non è più un soggetto attivo, ma uno sfondo che serve a legittimare l’intervento. Lo chiarisce bene Legambiente Verona, criticando il progetto e affermando che “gli interventi paesaggistici e di rinaturalizzazione previsti all’interno del progetto appaiono più funzionali all’arredo sportivo che alla biodiversità”. L’operazione retorica è semplice: si parte da un’area verde “frammentata” e si promette, grazie all’intervento privato, la sua “valorizzazione”. Ma il risultato è opposto: un suolo vivo trasformato in attrazione.

Dalla Bertacchina alla Marangona: la coerenza del cemento
Quello della Bertacchina non è un caso isolato. A pochi chilometri, un’altra trasformazione ha già preso avvio: l’area della Marangona, 1 milione 500 mila metri quadri di campagna agricola che saranno convertiti in polo logistico e di innovazione (ne abbiamo parlato qui). Anche lì, la narrazione istituzionale ha usato gli stessi termini: sostenibilità, lavoro, sviluppo. Un insieme di descrittori post-politici, come li definisce il sociologo Giovanni Semi, perché nessuno, in teoria, si oppone a una città più sostenibile, abitata dal verde e allo stesso tempo vettore di sviluppo industriale. Ma questi descrittori servono a svuotare ogni discussione del suo intrinseco valore politico, cioè dal carico di interessi e visioni del mondo contrapposte che la animano. E infatti, alla Marangona, come alla Bertacchina, la sostanza è ben diversa da come viene descritta omettendo altre parole, cariche di ben altri immaginari: cemento, consumo di suolo, danno irreversibile. E lo stesso discorso va fatto per il progetto della Strada di Gronda, denunciato quotidianamente dal Comitato Verona Sud e dello studentato previsto in quartiere Pindemonte a Borgo Trento, approvato nonostante la bocciatura della Circoscrizione competente con i voti contrari delle stesse forze politiche che sono a guida del Comune.
Nel caso della Marangona, il progetto è stato approvato con il consenso bipartisan del Consiglio comunale. Nonostante 26 associazioni, tra cui WWF, Legambiente e Italia Nostra, abbiano firmato una lettera di protesta, il dissenso è rimasto ai margini. Anzi, criminalizzato, tanto che l’assessore Michele Bertucco ha rischiato una purga politica. La maggioranza della giunta, infatti, ha provato a imporre un silenzio totalitario a ogni visione critica, attraverso un codice di comportamento che avrebbe dovuto blindare il dissenso. Il partito unico del cemento vorrebbe imporre un solo racconto. Chi ha voce è chi ha capitale. Il resto — cittadini, comitati, territorio — resta inascoltato.
Eppure, i numeri parlano chiaro: secondo ISPRA, nel biennio 2022-2023 il Veneto è stata la regione italiana con il più alto consumo di suolo: 891 ettari. Verona è la provincia peggiore in Italia, in termini di superficie consumata, con 323 ettari. Come fa notare Legambiente Verona, mentre la compensazione prevista per l’impianto di surf urbano risulta “poco equilibrata e ambientalmente inadeguata”, l’obiettivo dovrebbe essere quello di non toccare più suolo agricolo. Il suolo perso è suolo che non assorbe, non rinfresca, non produce. ISPRA stima oltre 400 milioni di euro l’anno di costi pubblici legati al degrado prodotto dalla cementificazione, ma tutto questo sembra non contare, nemmeno mentre la crisi climatica si fa evidente.
Partecipazione, questa sconosciuta
Il progetto del surf urbano è approdato in Giunta senza alcun reale confronto con la cittadinanza, nonostante il tema fosse noto da molto. Nessuna assemblea, nessuna consultazione pubblica, nessun coinvolgimento delle realtà territoriali. Eppure la proposta era già arrivata in Giunta due anni fa. È lecito chiedersi perché, in questo tempo, non sia stato costruito nessun reale processo di discussione pubblica. Ora la decisione passerà al Consiglio comunale, ma il parere favorevole della Giunta pesa — e il tempo utile per aprire un confronto vero è stato bruciato.
Eppure, la partecipazione è un mantra di questa amministrazione, almeno a parole. Si aprono tavoli per la scrittura del PAT, percorsi di ascolto della cittadinanza, e chi più ne ha e più ne metta. Ma la Bertacchina, come la Marangona, come l’area verde a Ponte Crencano, viene trattata come una superficie tecnica, non come uno spazio sociale e vivo. La partecipazione se arriva, arriva sempre dopo. Serve solo a ratificare decisioni già prese.
E tutto accade, come sempre, a luglio. In estate, quando la città è distratta, il caldo si fa opprimente e i processi decisionali possono scorrere indisturbati. È un rito già visto: costruire mentre nessuno guarda.
Il re Mida non trasforma in oro, ma in deserto
E allora sì, forse Tosi ha ragione. Stiamo davvero assistendo al ritorno di Re Mida. Ma non è quello delle favole. È un Re Mida al contrario. Trasforma ogni terreno in superficie sterile. Ogni investimento in fragilità. Ogni spazio collettivo in rendita privata. E come nel mito, quando ci si accorge del danno, è troppo tardi. Il cibo non nutre. Il paesaggio non protegge. L’oro non vale nulla.
Il problema è che la politica ha smesso di governare e si è inginocchiata al re. Non esercita controllo, non pone limiti, non apre dibattiti. Si china, accoglie, firma. E intanto, in nome di una piscina, si sacrifica un ecosistema urbano. In nome dell’“attrattività”, si distrugge suolo fertile. E tutto questo accade con un consenso diffuso, trasversale, blindato. Come se non ci fosse alternativa. Come se tutto questo fosse inevitabile.
Ma non lo è. Si potrebbe partire da qui — dalla Bertacchina, dalla Marangona, da ogni lembo di terra ancora vivo — per costruire un’altra idea di città. Una città che non rincorre attrazioni effimere, ma si prende cura di ciò che ha. Una città dove il verde non è un ornamento, ma una struttura ecologica e sociale. Per farlo, serve però rompere l’incantesimo di Mida. Riconoscere che l’oro non è sempre valore. E che il suolo, a differenza dell’oro, una volta perso non torna più.