Viaggio impossibile verso una borsa di studio
di Tancredi Castelli e Livia Pinzoni
È passato più di un anno dall’inizio della protesta della comunità studentesca e accademica dell’università di Padova, che chiedeva una denuncia da parte dell’ateneo contro il genocidio, tuttora in corso, del popolo palestinese, e il boicottaggio accademico per impedire che le ricerche e tecnologie sviluppate all’interno delle università italiane possano essere impiegate per scopi politici e militari da Israele (qui e qui per approfondire). Il 10 maggio 2024 veniva presentato al senato accademico dell’università di Padova un appello firmato da più di mille lavoratrici e lavoratori della comunità accademica, in cui si chiedeva maggiore trasparenza nella stipula degli accordi tra università di Padova, università israeliane e aziende ed enti che con le loro politiche contribuiscono alle violenze sul popolo palestinese e la rescissione degli accordi in essere. Nel pieno stato di agitazione della componente universitaria padovana, il 14 maggio, è stata approvata all’unanimità dal senato accademico una mozione, di fatto completamente priva di alcun riferimento al boicottaggio accademico, in cui l’istituzione si impegna a potenziare il programma Scholars and Students at risk, stanziando 5 borse di studio dedicate a studenti, e 60000 euro per borse di ricerca rivolte a ricercatori e/o professori palestinesi.
La rete internazionale Scholars at risks (fondata nel 1999 presso l’Università di Chicago per promuovere la libertà accademica e proteggere studiosi e studiose in pericolo di vita o il cui lavoro è severamente compromesso) arriva in Italia nel 2019 con la costituzione di una sezione italiana di SAR a partire da iniziative di alcune università. Tale esigenza è nata in risposta alla persecuzione dei ricercatori turchi firmatari di una petizione a favore della protesta curda e ha trovato nuova applicazione in concomitanza con i nuovi disordini in Afganistan e con lo scoppio della guerra in Ucraina. È interessante notare come una guerra dalla forte connotazione ideologica, come quella nata dall’invasione russa del Donbass, abbia influenzato anche l’azione universitaria, dal momento che le borse stanziate allora per accogliere studentesse e studenti ucraini furono 75. A maggio, l’università ha deciso di implementare tale programma a favore della comunità accademica palestinese, ma stavolta le borse di studio sono solo 5. Di questi cinque posti disponibili per studio solo due sono stati effettivamente occupati, nonostante le domande siano state circa 400 (e il numero di soggetti idonei fosse ben maggiore di 5). Tale situazione è spiegabile data la straordinarietà della realtà in atto: non si tratta di un “semplice conflitto mediorientale”, di uno scontro tra due eserciti regolari, ma di un’azione tendente al genocidio e alla pulizia etnica, in cui anche la meravigliosa opportunità di andare a studiare all’estero diventa una questione di vita o di morte.
Abbiamo quindi deciso di provare a ripercorrere, grazie all’aiuto di alcune persone che hanno seguito molto da vicino questa vicenda, le varie tappe di questo tortuoso percorso a ostacoli che dovrebbe (e presto capirete che il condizionale è d’obbligo) portare a frequentare l’università di Padova con una borsa di studio.
La prima grande incognita riguarda la possibilità stessa di entrare in contatto con tale progetto. La nostra fonte ci parla di un gruppo Facebook nel quale docenti e ricercatori condividono iniziative di questo genere. Tuttavia, i social network sono disponibili solo se è garantita una connessione internet, un presupposto non scontato in un contesto in cui pure l’acqua e il cibo sono razionati. C’è poi la questione dei requisiti minimi, tra i quali la certificazione linguistica: per poter seguire i corsi in lingua inglese bisogna dimostrare di conoscerlo già a sufficienza. Tuttavia, all’interno della striscia di Gaza, dove il 70% degli edifici sono stati distrutti e dove è impossibile garantire una connessione internet durevole, come è possibile ottenere una certificazione?
Da un ostacolo come questo si passa poi ad un problema esistenziale: nel bando si chiede di esplicitare il proprio stato di “persona a rischio”. Ovviamente è sufficiente aver guardato un telegiornale nell’ultimo anno e mezzo per capire che ogni singolo cittadino palestinese è a rischio. Lo sconforto provocato da tale domanda, si scaglia su uno sfondo più ampio propriamente europeo. Infatti, negli ultimi mesi si è discusso enormemente della lista di paesi a rischio di cui è più o meno lecito o legale accogliere la popolazione in fuga. Ricordiamo poi che esistono rischi e problemi a noi invisibili nel prendere parola su tali questioni, come ad esempio il pericolo di essere politicizzati. Anche una domanda mal posta allora diventa un ulteriore fattore di rischio.
Ultimata l’application bisogna ottenere il visto. Non è possibile chiederlo in Egitto, poiché serve un permesso di residenza; bisogna andare a Gerusalemme. Le difficoltà ora si moltiplicano. Prima di tutto, la probabilità che un gazawi vi possa andare è pressoché nulla. Tutti noi quando pensiamo alle immagini dell’ottobre 2023, ricordiamo un grande muro; quel muro esiste tuttora e sta a significare che i gazawi devono stare dentro la Striscia. Se anche fosse accordato tale permesso, bisognerebbe poi arrivare a Gerusalemme tra controlli, posti di blocco e cancelli di accesso, il che significa entrare in contatto con le forze di occupazione israeliane e quindi con il concreto rischio di essere arrestati. C’è poi la burocrazia e infine la partenza, ma ormai è chiaro che nessun cittadino di passaporto palestinese può stare tranquillo finché l’aereo non è decollato.
Si arriva finalmente in Italia e l’università versa la prima rata della borsa: euro 12.000 (lordo percipiente) ed esonero dalle tasse universitarie. Ora si pone un altro problema: vivere a Padova. Tralasciando il fatto che la mensa non sia gratuita, la vera impresa per ogni studente è trovare alloggio. Tramite privati la strada è in ripida salita. I prezzi delle case sono esagerati, il razzismo già presente, ma alimentato dalla propaganda di un anno e mezzo di notizie in prima pagina, è difficilmente aggirabile, la richiesta di un garante è ridicola e la caparra da versare in anticipo è assurda per uno studente con la sola borsa. Si aggiunga il fatto che il mercato è monopolizzato da agenzie che richiedono la commissione ed è incistato da annunci falsi e truffe. Ci si rivolge quindi all’ESU, ma i tempi di emanazione delle graduatorie rendono il tentativo quasi inutile.
È difficile immaginare gli effetti che questa trasferta di studio può avere su delle persone appena ventenni. Non è un caso che chi ci racconta tutto questo, abbia avuto molto a cuore la questione psicologica. Tra le tante cose dette, la nostalgia, la paura di perdere qualcuno di caro, l’ansia costante di ricevere notizie da casa, la più straordinaria alle nostre orecchie riguarda il silenzio: ci è voluto tempo prima di riuscire a dormire nel totale silenzio della notte padovana. L’università ha un centro di assistenza psicologica, ma i posti sono pochi e i colloqui ridotti. Il dramma umanitario in atto è un dramma psicologico e dimostra ancora una volta come le strutture atte ad accogliere questo bisogno internamente all’accademia siano latenti; non si parla solo dei traumi della guerra, ma anche di quel disagio che, almeno in minima parte, italiano o non, ogni studente e ogni studentessa hanno provato sulla propria pelle.
Due anni passano in fretta e chiedersi se ritornare a casa è una domanda mal posta. Prima di tutto, non si sa se la casa ci sia ancora. Non parliamo dell’immobile, della sala da pranzo o del gabinetto, ma della stessa terra in cui si è nati. A oggi, i piani occidentali e israeliani dell’ipotetico futuro post-Hamas sono solamente fantasie, da cui in ogni caso restano esclusi i palestinesi. Ma la questione principale è il tema stesso del ritorno, uno degli atti fondativi della coscienza europea, che vede in Ulisse il suo eroe simbolo, è un diritto umano negato ai palestinesi. Vi siete mai chiesti cosa voglia dire quella chiave che spesso accompagna il bianco, il rosso, il verde e il nero, della bandiera palestinese? È la chiave che apre la porta di casa. Da sempre la resistenza palestinese chiede il diritto al ritorno, di ritornare alla terra dove si è nati, alla casa dei genitori, ma, troppo spesso, ormai, non resta che chiedere la sola possibilità di rientrare nei territori palestinesi, che comunque è tutt’altro che garantita. Se è difficile uscire da Gaza, ancor più difficile è ritornarci.
Allora si può stare qui, in Italia. Esiste infatti, la possibilità di chiedere un permesso di un anno: “in cerca di lavoro”. Ma se un requisito minimo per accedere all’università è la conoscenza dell’inglese, non è invece tale al di fuori di essa. Trovare un lavoro per una persona straniera che non parla bene l’italiano è infatti quasi impossibile. Basti pensare che ad alcuni studenti è negato involontariamente il diritto alla sanità di base, poiché il medico non è in grado sostenere un colloquio in inglese.
È quindi lecito domandarsi se ci siano delle alternative. Sebbene i bandi siano molto simili in tutta Europa, le particolarità politiche e sociali dell’Italia aggravano la situazione di questi studenti e, verrebbe da dire, di tutti gli studenti in generale. Ripensare questo sistema di supporto significherebbe piuttosto ripensare la struttura alla sua base, ascoltando le richieste dei protagonisti di questa diaspora: la comunità accademica palestinese. Non è casuale che l’esercito di occupazione israeliano si sia impegnato tanto nel distruggere e pubblicizzare la distruzione delle sedi accademiche di Gaza: avere un luogo dove riflettere, studiare, stare insieme, costruire comunità di pensiero e di pratica è indispensabile per mantenere la propria cultura, la propria identità e la propria dignità umana. Quanto fatto dallo Stato di Israele nell’ultimo anno e mezzo non si realizza solo nell’omicidio indiscriminato di decine di migliaia di persone, ma nella realizzazione di una prospettiva mai nascosta dai vertici sionisti e trasparente nelle parole dell’allora ministro della guerra Gallant: “Niente elettricità, niente cibo, niente benzina, niente acqua. Tutto chiuso. Combattiamo contro degli animali umani e agiamo di conseguenza”.
Bisognerebbe ripensare questi progetti in funzione di argine a questa deriva e usare le nostre risorse per le università, i docenti, gli studenti e i ricercatori e garantire loro la loro esistenza a Gaza e in Palestina. La comunità accademica palestinese non si è mai sciolta in questi mesi e, anzi, è più attiva che mai nel cercare di salvare la propria funzione storica assieme alla propria esistenza. Dunque quello che queste persone chiedono non sono solamente borse di studio per garantire almeno a qualcuno il proprio diritto a vivere una vita degna, ma anche programmi di supporto in loco, con la creazione e la protezione di biblioteche o di corsi online, modi alternativi ed emergenziali per mantenere in vita questi centri del sapere. Esistono già iniziative più o meno grandi che puntano in questa direzione; tra queste c’è TESI (Technical Education Support for Higher Education Students Initiative), lanciata da An-Najah National University e UNIMED (Mediterranean Universities Union) che si propone di offrire supporto alle università gazawi distrutte tramite progetti di apprendimento virtuale.
Tuttavia, se si prova a riflettere su come attuare questo progetto di ricostruzione, le risposte arrivano da sé. Esistono Internet café in cui la connessione resiste, ma gli stessi professori hanno paura a pubblicizzarli, perché ogni luogo di socialità può tranquillamente e facilmente diventare bersaglio di un raid aereo. Si è pensato di mandare delle sim card per garantire l’accesso a internet, ma spesso manca la tecnologia necessaria. Allora sarebbe più opportuno mandare telefoni e laptop? Strumenti che devono passare tra le mani della polizia israeliana che pochi mesi fa ha fatto esplodere migliaia di apparecchi simili in tutto il Libano ferendo migliaia di persone. Come detto, la risposta arriva da sé ed è il video realizzato dall’IOF del bombardamento della sede dell’Università Gaza City. Non resta che una borsa di studio per poter dare un po’ di speranza di vita a uno studente o a una studentessa.
Scrivendo questo breve articolo, ho ripensato più volte a una delle opere simbolo dell’Illuminismo europeo: Lettere Persiane. È Montesquieu a scrivere questo romanzo epistolare, in cui due aristocratici persiani, giunti in Europa, restano stupiti e disorientati da un sistema che in ogni dove tradisce le idee di giustizia e uguaglianza di qui esso stesso si fa portatore. È il trucco saggistico più vecchio del mondo: adottare la prospettiva dell’altro per osservare la propria casa e metterne in crisi la falsa coscienza. Oggi per noi gli “occhi persiani” sono quelli di questi giovani studenti palestinesi che altro non fanno se non illuminare le stesse contraddizioni interne all’Università che ogni studente, nel suo piccolo, vive. Il quadro emerso, quindi, non è solo una testimonianza dello stato indegno in cui milioni di persone sono costrette a vivere in tutto il mondo e soprattutto in Palestina; ma è anche un interrogativo riguardante il diritto allo studio di studenti, ricercatori e professori; una domanda rivolta al senato accademico, che parla di valori universali come la dignità umana, il diritto all’esistenza, il valore della democrazia e della nonviolenza, ma non sembra aver preso una posizione etica e politica in nome dell’universalità della dignità umana di cui si fa simbolo.
Le borse di studio sono strumenti che possono salvare delle vite, che possono ridare speranza a chi ne usufruisce, che posso accendere sogni e possibilità, nascoste o dimenticate, anche in coloro che ormai avevano iniziato a dubitarne. È quindi, ovviamente, una buona notizia che l’Università di Padova abbia deciso di aderire al programma Iupals (Università italiane per gli studenti palestinesi) facendovi confluire i 180mila euro avanzati dalle borse mai assegnate. Tuttavia, bisogna saperne leggere i limiti e provare a ragionare in maniera più aderente a una realtà dei fatti che sembra essere molto diversa dalla dimensione burocratica di un bando o di un application. Insomma, chi verrà qui a Padova sarà salvo e probabilmente contento, ma sicuramente potrebbe chiederci di riflettere un po’ meglio sulle forme con cui supportare il diritto allo studio e a una vita degna di tutti gli studenti, professori, accademici e persone a cui l’Università si rivolge.