Di Valentina Lazzara
Negli ultimi anni è diventato sempre più centrale all’interno della gestione dei flussi migratori il concetto di vulnerabilità.
Secondo l’OIM, l’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni, è vulnerabile la persona che non è in grado di godere in modo efficace dei propri diritti umani, che è esposta maggiormente al rischio di violazioni e abusi e che, conseguentemente, ha il diritto di invocare una forma rafforzata di tutela.
All’interno delle normative europee e italiane, però, la vulnerabilità risulta essere un concetto poco definito, e anziché indirizzare a politiche e pratiche più inclusive e attente, ha provocato ulteriori frammentazioni, generando paradossalmente esclusione ed erosione dei diritti.
Un problema centrale è dato dalla declinazione che si dà alla vulnerabilità all’interno di queste politiche. Essa non appare come qualcosa che cambia nel tempo o che viene condizionata dal contesto in cui emerge, ma viene raccontata come un fattore ontologico, come una caratteristica intrinseca delle persone: si è vulnerabili in quanto donne, in quanto minori, in quanto persone lgbtq+, in quanto persone malate. Questa essenzializzazione della vulnerabilità non è mai neutra e determina categorie che hanno dei limiti e dei confini ben precisi, non intersecabili tra di loro e cristallizzati nel tempo, i quali si riflettono nei processi attraverso cui viene concessa o meno la protezione, a partire dalla valutazione che avviene nelle Commissioni Territoriali.
L’iter per ottenere l’asilo o la protezione ha come nucleo centrale il colloquio con la Commissione Territoriale, la quale valuta se la storia raccontata dal richiedente sia attendibile e riconducibile a una delle forme di protezione concedibili.
Chi si trova a valutare la veridicità delle storie ha una lente ben precisa, quella del trauma e della vulnerabilità fisica e psicologica che ne dovrebbe conseguire, ed è attorno a essa che deve incentrarsi la narrazione del richiedente.
L’obiettivo è essere il più credibile e convincente possibile. Quello che viene chiesto è di ripercorrere oralmente la propria vita e di dimostrare di avere il diritto di restare nel Paese di arrivo, rispondendo a due domande: la prima sui motivi che l’hanno indotta a lasciare il Paese, la seconda sui motivi per cui non può tornare.
Essendo consapevoli della ristrettezza delle maglie della protezione, gli stessi operatori e volontari che accompagnano queste persone le invitano a focalizzarsi sugli eventi che hanno maggiori possibilità di convincere la Commissione della propria condizione di vulnerabilità, portandole a semplificare la propria storia attorno a un unico elemento.
Avviene quello che Shahram Khosravi nel suo libro “Io sono confine” definisce come processo di “profughizzazione”, in cui le persone vengono addestrate a diventare vittime.
“È il campo stesso a produrre il profugo, o la sua condizione, attraverso una burocrazia patologizzante. Il processo di “profughizzazione” inizia appena si mette piede in un campo. In quello artico io sono stato addestrato a diventare una vittima. Nessuna delle mie esperienze passate – la fustigazione, il carcere, un anno di vagabondaggi illegali – era riuscita a privarmi della mia dignità. È stato il campo a togliermela.”
La condizione della persona migrante diventa unidimensionale e atemporale: la sua esistenza è riconosciuta solo in funzione del viaggio che ha compiuto e del trauma che a questo viaggio viene collegato; non esiste un prima e non esiste un dopo, non esistono progetti di vita e aspettative. I richiedenti asilo vengono rappresentati come non-agenti: tradire il minimo indizio di autodeterminazione equivale a mettere in dubbio la propria autenticità di profugo. Sono gli stessi decreti legge a incentivare questa metamorfosi: i progetti di accoglienza sono nella gran parte dei casi luoghi di assistenzialismo, da cui difficilmente si esce in autonomia.
Allo stesso tempo, paradossalmente, l’essere riconosciuto come vulnerabile non determina un presa in carico adeguata, ma crea un impasse: i posti nei progetti SAI per persone vulnerabili sono pochissimi e limitati ad alcune categorie di vulnerabilità, quali la disabilità e il disagio mentale; mentre nei SAI ordinari le persone considerate i “troppo” vulnerabili vengono escluse per mancanza di strumenti adeguati al loro percorso di inserimento.
Ripensare la vulnerabilità nella sua complessità diventa, quindi, un atto politico.
Non si tratta di un concetto astratto, ma estremamente concreto. Essa è sempre situata e varia nel corso del tempo e delle condizioni in cui una persona si trova a vivere; deriva da politiche miopi che investono nell’esternalizzazione dei confini, nell’apertura di CPR, nella precarizzazione dei sistemi di accoglienza, nell’instaurazione di zone rosse nelle città che tutti i giorni attraversiamo; da politiche abitative che escludono chi sta ai margini e da politiche del lavoro che liberalizzano precarietà e sottopagamento.
Ripensare alla vulnerabilità significa, soprattutto, guardare alle persone migranti come agenti, come individui non solo potenzialmente vulnerabili, ma anche resilienti, in grado di utilizzare gli strumenti che vengono loro forniti per autodeterminarsi nei loro progetti di vita, accettando che possano e non debbano coincidere con le nostre aspettative eurocentriche.
Riconoscerlo è una responsabilità collettiva.