Di Lorenzo Zaggia
Che I pessimisti non fanno fortuna di Luca Zaia sia prima di tutto una grande operazione mitologica lo si capisce quasi subito — quando il nostro autore si misura con la forza che, più di tutte, dovrebbe poter resistere al mito: la Storia con la S maiuscola, quella delle grandi trasformazioni globali. Dopo aver elencato con una dovizia quasi enciclopedica i vari problemi che hanno afflitto l’Europa dal Novecento ad oggi — la guerra del Golfo, le guerre mondiali (con tanto di foibe per la seconda), le guerre in Palestina, la crisi energetica del ’73 che ha avviato l’austerity, il terrorismo di estrema sinistra (ma anche quello di estrema destra, dai), gli attentati mafiosi, i terremoti in Friuli del ’76 e dell’Irpinia dell’80, la guerra fredda, la caduta dei regimi comunisti e, per finire, il Covid-19 e l’invasione russa dell’Ucraina — se ne esce con questa constatazione:
Tutti i ricordi che attraverso questa cavalcata nella memoria personale — ma, ne sono certo, condivisa dai miei coetanei e dalle generazioni che ci hanno preceduti — sono emersi nel ripercorrere le tante «guerre» affrontate hanno un tratto comune: mai è mancata la forza per guardare al futuro con ottimismo, anche nei momenti peggiori. (p. 36)
Zaia rubrica tutti questi avvenimenti così diversi tra loro sotto un singolo nome. Ma questo “«guerre»” lo mette tra virgolette: è il segno che pure lui sa benissimo che la sua è un’approssimazione, che il termine che sta usando non è quello giusto. Ma lascia correre, come faremmo noi quando chiacchieriamo: ci manca proprio quel benedetto nome per completare tutto il discorso e ne usiamo uno che a quella parola perduta si avvicina, per far capire almeno il senso di quello che stiamo dicendo. Il nostro interlocutore ci perdonerà, perché in fondo conta più il fatto che stiamo parlando tra noi che la precisione del nostro ragionamento. È anche l’ambizione di Zaia: parlare senza sofisticazione, così come viene, perché in fondo è un uomo pratico, non da grandi paroloni. C’è solo un problema: quest’uomo pratico sta scrivendo un libro. Se cerca la vaghezza del parlato lo fa deliberatamente, per scelta stilistica — e politica, orientando sottilmente il discorso. Per tornare alla citazione, è proprio grazie a quel “«guerre»”, a quella parola impropria che rende il discorso più efficace proprio in virtù della sua inadeguatezza, che tutto il ragionamento regge — anche perché Zaia di guerre aveva parlato poche pagine prima:
Fin da bambino… mi è stato ripetuto che la guerra è identificabile con l’orrore che incarna, con i lutti che porta con sé, la rovina di esistenze e intere famiglie, associata alla miseria, alla difficoltà di sostentamento e a tutte quelle forme di povertà che ruotano intorno alle restrizioni belliche nonché a una condizione permanente di emergenza. (p. 19)
A Zaia, uomo pratico, della guerra interessano gli effetti, non le cause, ossia ciò che concretamente riguarda il suo popolo. Questo però preclude altre considerazioni che si potrebbero fare al riguardo. Una guerra senza cause assume i tratti della catastrofe: tragica, insondabile e soprattutto indiscutibile — la sua prevenzione non è nemmeno contemplata. Davanti a un disastro simile l’ottimista non può che rimboccarsi le maniche, senza perdersi in congetture inutili. È per questo che il suo esempio è Gorbačëv, che “Stabilito il superamento del conflitto ideologico e di classe, aveva dato priorità agli interessi generali dell’umanità” (p. 31) smantellando l’URSS: come se questa decisione non avesse nulla di politico ma fosse solo frutto del buon senso di un buon governatore che si è rimboccato le maniche e ha risolto un problema.
Ovviamente il testimonial d’eccezione di questo ottimismo è Zaia stesso, impegnatissimo nella risoluzione di qualunque questione contemporanea — a patto che quella brutta bestia dell’ideologia sia tolta di torno, perché allora tutti bei sentimenti e la cortesia propri ad un dibattito civile ed educato vanno a farsi benedire. Pur identificandosi come un boomer, ad esempio, Zaia difende a spada tratta le nuove generazioni dalle accuse più dure, ma ci confessa anche che
Non penso che Greta Thunberg possa permettersi di dare lezioni di ambientalismo al mondo… Se a volte trovo discutibile il modo in cui si pone – probabilmente per un fatto generazionale –, è perché ritengo che il presupposto su cui fondare il dialogo debba essere il rispetto, e su questo ho l’impressione che mostri qualche pecca. (p. 142)
La cosa divertente è che prima aveva addirittura citato Giovanni Paolo II: “Se vivi con i giovani, dovrai diventare anche tu giovane”(p. 53). Ma sembra che in realtà Zaia desideri il capovolgimento di questo detto: se i giovani vogliono proporre dei cambiamenti devono diventare come lui — cortesi, rispettosi ma soprattutto apolitici. E non si tratta solo di giovani: anche se non usa nemmeno una volta la parola “femminismo” Zaia è sensibilissimo alla questione femminile, anche se a volte le cose non filano lisce:
Una visione distorta del politically correct… rischia di penalizzare la figura femminile, dopo che molti steccati sono ormai stati definitivamente abbattuti e le donne possono oggi misurarsi alla pari con i colleghi di lavoro, nel mondo della cultura e in ogni altro campo, compresa la medicina, dove via via sono diventate protagoniste sia nell’ambito della ricerca sia nella cura dei pazienti. (p. 102)
Insomma: la faccenda è chiusa, archiviata; non si può tornare indietro. A che serve protestare ancora? Proprio questo stesso motivo sembra caratterizzare il suo rapporto con la comunità LGBT:
Tra la gente che incontro ogni giorno… ci sono naturalmente tante persone che si dichiarano omosessuali. […] Più di una mi ha detto che non parteciperebbe mai a un Gay Pride, ritenendolo una forma di estremizzazione che non le rappresenta. Per loro […] è difficile vedere la propria vita raffigurata come una sorta di evento nel quale un certo tipo di esibizionismo rischia di far perdere di vista l’obiettivo. Sostengono che condire di ostentazioni quelle che sono sacrosante rivendicazioni non giovi alla causa. (p. 108)
Diversi sì, ma con creanza e rispetto. E poi mica l’ha detto Zaia che il Gay Pride è una merda. L’ha solo sentito dire dai suoi amici — uno dei mezzi che preferisce per farci capire quello che pensa.
D’altronde, quale modo migliore per nascondere la propria interpretazione ideologica del mondo se non presentandola come qualcosa che emerge spontaneamente dalla realtà, senza sovrastrutture, addirittura dalla testa dei propri lettori? Zaia ambisce ad innestare le sue constatazioni in quel sapere immediatamente a disposizione di tutti che è la saggezza popolare. Non è un caso che affidi proprio ad un proverbio il compito di chiudere il libro: una scelta così banale che passerebbe in sordina se non superasse in brutalità tutto il perbenismo millantato nelle pagine precedenti.
«Tempi difficili creano uomini forti, uomini forti creano tempi facili; tempi facili creano uomini deboli, uomini deboli creano tempi difficili» recita un proverbio arabo. È una brillante sintesi della relazione tra ricorsi storici e coloro che sono chiamati a governarli. (p. 198)
Questa chiusura che non ammette repliche getta delle luci inquietanti sull’ottimismo proposto nel libro: non è tanto una questione di guardare al futuro con occhi nuovi e con speranza, quanto di reimmergersi nel tempo ciclico del mito. Perché seguendo la pista del tempo tracciata da Zaia, chi potrà mai emergere da questi ultimi “tempi duri” scatenati dagli uomini deboli, questi sfigati burocrati intellettualoidi? Per calcolata coincidenza, proprio il tipo di uomo che, assicura Zaia, sarebbe davvero impossibile far venire al potere con il presidenzialismo:
Non credo possa essere la via per una deriva autoritaria o che possa prefigurare l’ascesa dell’«uomo forte». (p. 186)
Eppure è lo stesso termine che introduce e, si lascia intendere, conclude il cerchio del “proverbio arabo” finale.
Nel tempo del mito principio e fine sono la stessa cosa, ma devono esserlo in un posto preciso. Un luogo geografico in cui vige la legge mitica di Zaia c’è: non poteva essere che il Veneto della sua giovinezza. Tra un aneddoto e l’altro scopriamo infatti che nelle abitudini e nei costumi di quella povera gente, la cui “cultura” è ovviamente più vicina ai processi naturali che all’elaborazione ideologica, si trova già tutto: le risposte alle problematiche dei nostri giorni ma anche alle grandi innovazioni a cui l’Italia stava andando incontro in quel periodo. Certo, il nostro Governatore si spende in appelli a non idealizzare quel Veneto alle soglie del boom economico:
Non dobbiamo cadere nell’errore di attribuire a chi è venuto prima di noi categorie di pensiero… che allora non esistevano affatto e che siamo noi a proiettare su un passato che, in quanto tale, diventa «mitico». (p. 131)
Ma perché usare il pronome plurale? Chi sta scrivendo il libro, chi sta portando avanti il ragionamento? Ovviamente Zaia stesso (o, ad essere proprio dei bastardi, chi ha pagato per farlo al posto suo), che sta facendo esattamente quello che si ripromette (e astutamente ci ingiunge) di non fare. E quel Veneto intriso di nostalgia non è solo un modello di riferimento — talvolta assume i tratti di un mondo tragicamente perduto, corrotto dai malavitosi del sud Italia inviati al confino:
Nel Veneto dei decenni scorsi, in cui si usciva di casa lasciando le chiavi infilate nella toppa, in cui il decollo dell’economia alimentava un benessere diffuso, in cui tutti aspiravano a lasciarsi alle spalle la povertà e iniziavano a uscire da un’economia di pura e semplice sussistenza per aspirare a qualcosa di più, in cui si voleva che tutto continuasse a funzionare in modo efficiente, questi provvedimenti giudiziari creavano le condizioni per l’innesto nella nostra società della peggiore e più famigerata delinquenza. (p. 171)
E se questa civiltà perduto era grado di anticipare il mondo moderno, sembra davvero che la transizione storica da povertà a ricchezza sia stata quasi inevitabile, il compimento di quello che, mercé le solite paraculate di Zaia, è un carattere primordiale, essenziale:
Ho sempre sostenuto che per i veneti il lavoro sia una sorta di richiamo ancestrale. È un’affermazione che ha in sé qualcosa di pesante e retorico, ma è innegabile che il lavoro quotidiano sia il primo pensiero per la mia gente. Ciononostante rifiuto categoricamente l’idea consolidata – che spesso viene usata anche per canzonarci – che quella dei veneti sia una società malata di lavoro, ossessionata dall’occupazione e dal profitto. (p. 47)
Mito chiama mito. Perduta e al contempo sempre presente, la venetità attraversa il tempo ciclico, rigenerandosi ad ogni tornata.
Non è finita qui. Il mito di un mondo ciclico e quello del Veneto eterno devono convolare a nozze e manca l’officiante. Ma Zaia ha le idee chiare per il nome — il suo. Il presidenzialismo, come dicevamo, non è poi così male; perché
In Italia… esiste già un modello «presidenzialista» che si è dimostrato vincente. Sono le Regioni dove il presidente viene eletto dai cittadini contestualmente al Consiglio che compone l’assemblea legislativa. Sono i presidenti eletti che garantiscono la governabilità dei territori. (p. 187)
Il colpo da maestro di Zaia è quindi quello semplice e geniale di far convergere i due miti sulla sua persona: dopotutto l’uomo a capo di un’Italia presidenziale e federalista (ci mancherebbe: tutto il libro è farcito di stoccate al centralismo) non potrebbe che essere proprio lui, figlio prediletto di una terra che ha già previsto ogni possibile trasformazione sociale e che quindi non può che meritarsi anche l’autonomia. Peraltro con quest’ultima suggestione Zaia completa anche l’ultima rivincita. Concedendo ai veneti la vittoria di “quella che non mi stancherò mai di chiamare «la madre di tutte le battaglie»” (p. 138), si instaura una logica per cui
Sono i cittadini veneti che danno compimento alla Carta costituzionale. Sono loro a difenderla, perché chi è contro l’autonomia è contro la Costituzione. (p 162)
E il futuro prospettato da Zaia sembra andare anche oltre a questo smacco inflitto al centralismo: la sua mossa finale è quella di distruggerlo dall’interno, capovolgendo il processo storico per cui lo stato centralizzato italiano si è intrufolato nel mondo mitico del Veneto. L’Italia sarà punita con un contrappasso: il Veneto la fagociterà rendendola identica a sé, venetizzandola, trasformandola in un altro specchio in cui il suo mito può continuare a riflettersi.
A questo punto è chiaro cos’è di preciso quest’idea di ottimismo che domina il libro: non è altro che una forma superficiale e presuntuosa di adesione politica. Se “i pessimisti non fanno fortuna” è perché il dubbio — quella cosa che se ci sbatti contro la testa abbastanza magari ti può anche aiutare a pensare meglio — è subito neutralizzato e scartato da quella “capacità di cogliere le opportunità immaginandole anche prima che si presentassero” (p. 50) che Zaia riconosce nelle levate d’ingegno suoi coetanei, ma che è semplicemente il concetto di remunerabilità al centro della “cultura di impresa. Una cultura che è sempre appartenuta ai veneti” (pp. 47-8). E Zaia sa benissimo che questa sua operazione culturale è tutt’altro che inattaccabile. Ci vuole davvero poco per eludere la presa della sua cortesia fasulla, dei suoi miti neanche tanto ben nascosti — e in fin dei conti anche della sua arroganza. Basta mettersi dalla parte della solita, cara, vecchia, “strisciante ideologia” (p. 191) e questo Eden in cui si mangia polenta e si beve Prosecco si dissolve come per magia, lasciandoci in un Veneto forse meno meraviglioso ma almeno in cui il dissenso non è pessimismo ma il ragionevole desiderio di creare alternative.
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