È giusto rinominare una via? Togliere un film dallo scaffale? Rimuovere una statua? Imbrattarla, decapitarla? È sufficiente? È controproducente? È un gesto politico? A Padova non ci sono statue di Cristoforo Colombo, né di Re Leopoldo. Per nostra fortuna, nemmeno di Montanelli. Però nel quartiere 5, il quartiere Palestro, ci sono sette vie dedicate a luoghi e personaggi legati al colonialismo italiano.
Le vie non si decapitano, si attraversano, si guardano, si osservano. E anche lo sguardo con il quale le osserviamo può essere decolonizzato.
Ieri, 20 giugno, un’iniziativa intitolata “Decolonize your eyes” ha preso le strade in questione mettendo in discussione i nomi di tre vie (Via Tembien, via Amba Aradam, via Lago Ascianghi) all’interno di un quartiere che, ironia della storia, si dà il caso che sia anche tra i più multiculturali di Padova.
L’obiettivo è uno: raccontare una storia diversa, una storia che dà fastidio perché va contro la rassicurante rappresentazione degli italiani “brava gente” e ne afferma un’altra, in cui le conquiste coloniali italiane vengano riportate nella loro violenza di crimine.
Diversi i nomi che sono stati proposti: via XX Giugno (giornata mondiale del rifugiato), via Fatima (dodicenne fatta schiava da Montanelli), via 3 Ottobre (anniversario dell’invasione italiana dell’Etiopia e del naufragio avvenuto al largo di Lampedusa nel 2013), via Giorgio Marincola e via Alessandro Sinigaglia (partigiani antifascisti afrodiscendenti). Cambiare la toponomastica, infatti, può far perdere l’orientamento, ma la perdita di orientamento può significare anche una nuova direzione.
Commenta Jacopo di Quadrato Meticcio, una delle associazioni coinvolte nel quartiere:
“Noi abbiamo sempre lavorato sul territorio a stretto contatto con i ragazzini e le famiglie. Sentiamo l’esigenza di trasformare e fare nostro un movimento che non nasce sul territorio come quello originato dalle proteste per la morte di George Floyd, perché sentiamo che alcune rivendicazioni che sono state portate avanti potrebbero avere molta presa sul territorio. Noi, infatti, ci interfacciamo con ragazzi che hanno un’età che va dagli 8 ai 13 anni. I più grandi stanno iniziando a formarsi delle idee personali e ci piacerebbe che queste iniziative fossero portate avanti nel futuro proprio da loro, con i quali facciamo attività da tanti anni. Un metodo per fare in modo che questo succeda è quello di di non impostare la giornata come se fosse una lezione su come è stata la storia. Vogliamo portare i ragazzi nel luogo e in qualche modo lasciare che le cose accadano. Quando porti le persone nei luoghi, le cose succedono da sé. Speriamo che molte persone prendano la parola. Infatti, se questi nomi devono essere cambiati non deve essere attraverso un emendamento della giunta comunale, nonostante poi si passi necessariamente attraverso il consiglio, ma vogliamo che sia una rivendicazione dal basso. Deve venire dalla piazza”.
Non è possibile redimere il passato e non è l’intento profondo di queste iniziative. Ma è possibile trasformare il presente, condannando il passato e i suoi residui dal nostro punto di vista sempre situato. Anche per questi motivi è necessario che iniziative come queste non cadano nel vuoto, ma si uniscano a lotte materiali per il miglioramento delle condizioni di vita di chi sconta il prezzo di xenofobia, razzismo e discriminazione: i decreti sicurezza (e il decreto Minniti-Orlando prima di loro), i morti nei CPR, gli accordi con la Libia non sono qualcosa di lontano, ma un dramma vivo e presente. Questa emergenza inoltre ha reso evidenti le differenze sociali, aumentando discriminazione ed esclusione: ne abbiamo parlato qui, raccontando un presidio sui temi della solidarietà, del mutualismo, della redistribuzione della ricchezza.
Le vie protagoniste della giornata circondano un campo da calcio in cui bambini, ragazzi e adulti praticano un’integrazione senza stratificazioni, con sudore, grida e sbucciature. Quel campo dice più di quanto ogni battaglia formale potrà dire, dice comunicazione, dialogo, unione e mostra di come la differenza non debba essere cancellata. Ognuno gioca con il suo stile, e gioca insieme; i solisti non vanno molto lontano.
Sappiamo che i nomi non sono solo nomi, ma simboli che parlano sempre di qualcosa di ulteriore rispetto a loro stessi. È con questo surplus simbolico che dobbiamo confrontarci, e lavorare sulle contraddizioni materiali che nascono da questo scarto. Consideratelo il fischio d’inizio.
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