Venerdì 8 marzo 2024 a Padova una marea ha liberato uno spazio dismesso e abbandonato dal 2019, il Consultorio di via Salerno 1, dando vita alla Consultoria femminista e transfemminista. Da punto di riferimento per il quartiere e per la comunità, il Consultorio era diventato un simbolo delle politiche di privatizzazione e centralizzazione della salute. Le rivendicazioni di Non Una Di Meno Padova sono chiare: dare vita a una dinamica di mutualismo femminista conflittuale, rimettere al centro la salute nella sua pluridimensionalità, creare uno spazio di condivisione di saperi, di ascolto e di mutuo aiuto che dia vita a processi di soggettivazione e di autodeterminazione per le donne e le libere soggettività.
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- Quale significato politico ha occupare uno spazio come il consultorio dismesso? Qual è la storia di questo luogo?
Rispetto al contesto in cui ci troviamo, il primo dato da tenere in considerazione è che nell’arco di 10 anni a Padova sono stati chiusi 4 consultori; la chiusura di quello di via Salerno 1, in cui ci troviamo ora, risale al 2019. La scelta di chiuderlo è di matrice politica ed è stata dettata dalla volontà di risparmiare il canone di affitto di questo spazio, che rappresentava un punto di riferimento per il quartiere e per la comunità per tutta una serie di servizi che vi erano forniti, e che sono stati spostati successivamente in via Scrovegni 1. Nelle scorso settimane, tra le varie attività promosse dalla Consultoria, c’è stato un laboratorio, condotto da due ricercatrici accademiche, centrato proprio sulla storia e sul ruolo dei consultori: il primo consultorio autogestito in Italia nasce a Padova nel 1974, in Galleria Trieste. Nel ‘75, la Legge 405 istituiva i consultori attribuendo loro una funzione non solo sanitaria, ma anche sociale: parliamo di assistenza psicologica e sociale alla genitorialità responsabile, alla divulgazione delle informazioni per una sessualità consapevole. A partire dagli anni ‘90 l’idea del consultorio, pensata e fortemente voluta dalle lotte e dalle spinte degli anni ‘70, inizia a vacillare: a prendere piede è la narrazione secondo cui questi luoghi rappresentino un servizio scadente e inutile, tale da essere tagliato, tramite “interventi di cosiddetta riorganizzazione della sanità territoriale”. Attualmente il Veneto è tra le regioni con la più bassa diffusione di sedi di consultori nel panorama nazionale.
Come Assemblea di Non Una Di Meno il nostro obiettivo non è quello di sopperire a una mancanza e a un vuoto di carattere istituzionale, ma di creare una dinamica di mutualismo femminista conflittuale: siamo convinte che per rispondere a determinati bisogni ed esigenze sia necessario mettere in circolo le nostre conoscenze e le nostre competenze, per poter sviluppare un sapere che sia collettivo e accessibile. Il nostro obiettivo è quello di creare nuove e buone pratiche di condivisione di saperi, di ascolto e di mutuo aiuto, anche cercando di capire come indirizzare le persone che ci contattano o attraversano lo spazio, costruendo una consapevolezza politica rispetto a dei processi di soggettivazione, che speriamo possano attivarsi.
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- Quale idea di salute è racchiusa dentro questo progetto?
Sulla questione della salute e sulla medicina femminista e transfemminista ci sarebbero tante cose da dire; Non Una Di Meno ha sempre inteso la salute non come mancanza di malattia, ma come benessere complessivo delle donne e delle libere soggettività. All’interno della Consultoria vorremmo trovare un modo di condividere saperi e pratiche su tanti tipi di salute, da quella intima a quella sessuale, fino ad arrivare a quella psicofisica. Dar vita a processi di soggettivazione significa, attraverso momenti di confronto e condivisione, creare uno spazio politico in cui la persona possa dire “voglio conoscere il mio corpo” e sia in grado di autodeterminarsi nei contesti medici che si trova ad affrontare lungo il corso della sua vita: la prima settimana di occupazione è stato fatto un laboratorio con un’ostetrica in cui si è parlato in maniera molto coinvolgente non solo di contraccezione, ma anche di come ciascuna di noi affronta il ciclo e come ciascuna di noi si regola rispetto all’utilizzo delle app, o a dispositivi come coppette o assorbenti; un esercizio è stato quello di utilizzare un cartellone per fare assieme un brainstorming su “qual è la prima parola che ci viene in mente quando pensiamo alle mestruazioni”; le parole uscite sono state tante, dolore, tabù, spesa, ma una in particolare è stata piuttosto ricorrente: la salute.
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- Come si è strutturato il processo che vi ha portate a compiere questa azione politica?
Il processo è stato molto lungo: l’idea della Consultoria nasce già attorno al 2018, all’interno dell’assemblea di Non Una Di Meno Padova; era condivisa l’esigenza di provare a creare uno spazio in città di rete e di ascolto. Viene scritto un volantino, intitolato “Sorella facciamoci spazio” tradotto in più lingue, e nel 2019 il progetto trova spazio all’interno di Sala Pinelli, all’epoca definita “bene comune” dall’amministrazione comunale. Le esigenze e le intenzioni erano diverse: dal creare un infopoint per l’interruzione volontaria di gravidanza a Padova, al fornire gli strumenti per saper riconoscere e segnalare situazioni di violenza domestica, ma eravamo aperte anche a proposte esterne: c’era anche chi voleva affrontare questioni come la genitorialità consapevole o le relazioni violente. Con l’arrivo della pandemia, però, il processo si è interrotto e c’è stato un ridimensionamento delle attività, con l’utilizzo di collegamenti online e la raccolta di racconti della quarantena. Il progetto è poi ripreso post pandemia con un nuovo nome: Consultoria Itinerante. Gli incontri non si svolgevano più in Sala Pinelli, ma prendevano forma in diversi spazi, dalle sale comunali a spazi amici. Uno dei risultati più importanti sulla salute riguarda l’IVG, con la realizzazione di una guida, tuttora man mano aggiornata (qua il link alla guida); ma importante è stata anche la collaborazione con ADL Cobas rispetto a un vademecum contro le molestie sui luoghi di lavoro, a partire dall’esperienza delle operaie del magazzino Geox di Treviso; per poi arrivare alla consapevolezza della necessità di individuare un luogo fisso di incontro.
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- Qual è stata la risposta del quartiere?
La risposta dal quartiere è stata ottima, superando le nostre aspettative, ed è stata molto eterogenea: si sono avvicinate persone anziane, famiglie, madri con figli e figlie piccole, ma anche residenti del quartiere Palestro, che in passato avevano attraversato questo spazio per la consulenza con la psicologa o con l’assistente sociale. Molte persone si sono adoperate per fornire mobili e oggetti per arredare gli spazi, hanno portato cibo e bevande; c’è stato un forte interesse e una forte curiosità. La Sacra Famiglia è un quartiere popoloso e in parte popolare, con le relative contraddizioni di un contesto periferico, con una presenza fascista utile a distogliere l’attenzione dai responsabili dei problemi reali, indirizzando il malcontento verso le persone migranti, le donne e le libere soggettività, come accade con i loro attacchinaggi di manifesti deliranti comparsi in occasione dell’8 marzo. Quello che viene narrato come un quartiere dormitorio è in realtà una zona che registra un impegno e una partecipazione piuttosto attiva, come testimoniano ad esempio le rappresentanze di genitori sia sul piano della scuola sia sul piano dello sport.
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- La risposta della comunità ha dimostrato quanto luoghi di incontro e condivisione, in cui ripensare il modo in cui viviamo gli spazi collettivi ele relazioni che li attraversano siano necessari. Quali sono le prospettive future?
La prospettiva è quella di far sì che questo spazio sia a disposizione di tutte e possa essere utile al quartiere e alla città, nel suo progetto di rivendicazione politica e di mutualismo conflittuale. Non è uno spazio in cui vogliamo autoconfinarci: continueremo a stare nelle strade e nelle piazze, ma avere un punto fisso può fungere da strumento affinché ci si organizzi anche per ulteriori piani di lotta, per continuare a creare rete con la città, con il quartiere, con le realtà e i collettivi che si muovono e condividono i nostri stessi obiettivi. Non abbiamo certezze rispetto alla volontà di ATER, proprietario dello stabile, ma sicuramente non c’è nessuna volontà di andarcene autonomamente. ATER non è il nostro interlocutore a livello politico, perché sappiamo bene che tipo di politica faccia in questa città; una politica che va a braccetto con la speculazione, con la svendita del patrimonio pubblico e degli alloggi popolari, tenuti in maniera criminale: case lasciate a marcire che diventano inservibili in una città con grande crisi abitativa; case messe all’asta, pagate dai nostri genitori e dai nostri nonni con le trattenute in busta paga, che non appartengono a nessuno se non alla collettività. Un interlocutore potrebbe essere l’ASL, perchè responsabile dell’abbandono dello stabile e perchè dovrebbe occuparsi di consultori, ma non c’è questo tipo di volontà politica. Inoltre, se dovessimo chiedere uno spazio vero e proprio ci ritroveremmo davanti alla macchina farraginosa e burocratica del Comune, con bandi e scadenze, che difficilmente riusciremmo a gestire e rispettare, in quanto a molte di noi manca il tempo materiale da poterci dedicare. Per questo, non ci aspettiamo nulla in particolare da questo tipo di interlocutori: quello che ci aspettiamo sta nelle nostre mani e continueremo a lottare e a riempire le piazze per ottenerlo