di Emanuele Caon e Leonardo Mezzalira
Lo scorso 2 febbraio in Consiglio dei ministri è stato approvato un disegno di legge presentato da Roberto Calderoli, noto come DDL sull’autonomia differenziata. Il provvedimento mira a consentire il trasferimento dallo Stato alle Regioni di determinate competenze da negoziare caso per caso, tra cui figurano scuola, sanità, ambiente, lavoro, energia, reti logistiche – nel complesso una grandissima parte dei servizi pubblici e di quel che resta dello Stato sociale in Italia. A patrocinare sul piano politico questa riforma è da sempre la Lega, mentre sul piano territoriale le Regioni che l’hanno chiesta a gran voce sono il Veneto, la Lombardia e l’Emilia Romagna: tra le Regioni più ricche d’Italia, tant’è vero che c’è chi ha definito l’autonomia differenziata una sorta di secessione dei ricchi.
Non è difficile farsi un’idea dei motivi per cui questo tipo di autonomia fa gola a certe amministrazioni regionali e ai gruppi di potere che le sostengono: ai motivi identitari, al desiderio di una più stringente politica del consenso su scala locale si somma la volontà di mettere le mani sulle risorse, favorendo il settore privato e promuovendo un quadro di competizione tra le regioni anziché di solidarietà. Le implicazioni però sono complesse, e per conoscere meglio le caratteristiche tecniche di questo DDL e le sue possibili conseguenze, in particolare in ambito scolastico, abbiamo intervistato Carlo Salmaso, portavoce dei Comitati per il ritiro di qualunque autonomia differenziata, per l’unità della Repubblica e l’uguaglianza dei diritti.
Che cos’è, tecnicamente, l’autonomia differenziata?
L’idea di autonomia differenziata è legata alla riforma del titolo V della Costituzione avvenuta nel 2001 e approvata con una maggioranza di centrosinistra. Il titolo V riformato agli art. 116 e 117 elenca le materie di competenza esclusiva dello Stato e quelle oggetto di legislazione concorrente tra lo Stato e le Regioni, prevedendo la possibilità di attribuire ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con apposita legge, alle Regioni che ne facciano richiesta. Le materie su cui si può attribuire l’autonomia differenziata sono quelle concorrenti tra Stato e Regioni, e tre di competenza esclusiva dello Stato: ambiente, norme generali sull’istruzione e giudici di pace (in totale 23).
Nonostante vari tentativi, questa legge costituzionale non ha ancora una norma attuativa. Il DDL Calderoli si propone di renderla operativa, stabilendo un iter che le Regioni possono seguire per richiedere di gestire autonomamente uno o più degli ambiti legislativi previsti. Inutile dire che il Veneto, prima ancora che il DDL sia legge, ha già richiesto piena autonomia su tutte e 23 le materie consentite.
Ma se il DDL Calderoli è semplicemente l’attuazione di una norma costituzionale già approvata, che argomentazioni possiamo opporgli?
È vero che questo disegno di legge vorrebbe dare attuazione al titolo V post riforma, ma spesso ci si dimentica che all’articolo 119 lo stesso testo insiste sul criterio della perequazione [distribuzione delle risorse secondo criteri di equità, nel tentativo solidale di diminuire le differenze socio-economiche tra le Regioni, N.d.R.], di cui nel testo di Calderoli non c’è traccia. Per la ripartizione delle risorse alle regioni, una volta attuata l’autonomia differenziata, viene invece presa a criterio la spesa storica: un modo sicuro di mantenere le disuguaglianze. Prendiamo il caso di una Regione con una buona disponibilità di scuole dell’infanzia, e di un’altra Regione con una grave carenza. Una volta ottenuta l’autonomia, con il criterio della spesa storica, la prima Regione riceverà molti fondi, la seconda pochissimi e quindi non potrà mai risollevarsi.
Quindi da un lato salta la perequazione che redistribuisce le risorse che provengono dalle Regioni e dall’altro le risorse dello Stato vengono distribuite secondo i criteri della spesa storica?
Sì, facciamo sempre l’esempio del Veneto. Con l’autonomia differenziata il Veneto si terrebbe i soldi che avrebbe dovuto girare allo stato tramite il meccanismo della perequazione e, allo stesso tempo, riceverebbe più risorse dallo Stato perché storicamente ha speso di più. Il meccanismo va a tutto detrimento delle regioni che non chiedono l’autonomia differenziata, tant’è vero che quasi tutte le Regioni hanno avviato la procedura di richiesta dell’autonomia almeno per i settori della scuola e della sanità, per assicurarsi fondi sulla base della spesa storica.
Dunque il DDL non prevede nessuna forma di solidarietà tra le Regioni.
No. L’uniformità dei servizi sul territorio nazionale dovrebbe essere garantita dai LEP, o Livelli Essenziali di Prestazioni, che dovrebbero essere ora definiti in fretta e furia e per decreto, ma è facile comprendere come questi non possano funzionare bene. Prendiamo la sanità, che in Veneto funziona abbastanza mentre in Calabria è disastrosa. Se i LEP sono modellati sulla Calabria, sono perfettamente inutili: servono solo a mantenere lo status quo. Se sono modellati sul Veneto o su un livello intermedio, sono inattuabili senza una importante ridistribuzione delle risorse. D’altronde proprio in ambito sanitario i LEP sono già stati applicati, si chiamano LEA – Livelli Essenziali di Assistenza – e si è visto che funzionano in modo disastroso.
Sembra che con questa riforma venga definitivamente a cadere il principio del servizio pubblico uguale per tutti.
È una riforma egoista. E di fatto incostituzionale perché contraria agli articoli 3 e 5 della Costituzione, che fanno parte dei principi fondamentali e sono ben più importanti degli articoli 116 e 117. Paradossalmente modificando qualche comma di due tra gli ultimi articoli della Costituzione se ne modifica pesantemente l’impianto complessivo che vuole la Repubblica una e indivisibile oltreché capace di promuovere l’uguaglianza dei cittadini, aldilà che siano nati in una regione piuttosto che in un altra.
Passiamo alla scuola: se ora in Veneto si attuasse l’autonomia differenziata, che cosa potrebbe succedere?
Tecnicamente i diversi uffici scolastici territoriali passerebbero sotto il controllo diretto della Regione, i concorsi verrebbero fatti su base regionale e verrebbero posti dei vincoli alla mobilità interregionale. Secondo le proposte già depositate i nuovi docenti verrebbero assunti sulla base di un contratto regionale, anziché di quello nazionale, e avrebbero un obbligo di cinque anni di permanenza in Regione. Potrebbero esserci un trattamento salariale e un contratto di lavoro diversi da Regione a Regione, e verosimilmente si potrebbe andare verso il modello trentino. Nella Provincia di Trento gli insegnanti percepiscono uno stipendio maggiore, ma legato a ore aggiuntive e minori garanzie sindacali. Poi, come succede in Trentino, la Regione avrebbe piena competenza sulle modalità e sugli argomenti della formazione, resa obbligatoria, dei docenti.
Insomma la formazione finirebbe nelle mani della Donazzan! Restando nell’ambito dell’istruzione, la riforma potrebbe anche andare a vantaggio delle scuole private?
Certo: una volta lasciata la Regione libera di spendere come crede, una parte cospicua delle risorse per la scuola potrebbe essere dirottata alle scuole private. È già successo di recente con fondi che il Veneto aveva ricevuto per il diritto allo studio, ma gli esempi più lampanti si hanno nel settore della sanità, che è già gestita parte dallo Stato e parte dalla Regione. L’interesse per le privatizzazioni è una delle molle più importanti di questa riforma, è un pericolo concreto in particolare in Veneto e Lombardia e ci dovrebbe far capire che l’autonomia differenziata non conviene nemmeno a noi.
Che cosa si sta facendo per opporsi a questa legge?
La proposta che ha avuto maggiore risonanza è quella della legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dal Comitato per la Democrazia Costituzionale, insieme ad ARCI, ANPI e alcuni sindacati confederali. Questa legge vorrebbe modificare di nuovo il titolo V della Costituzione restringendo il campo all’autonomia differenziata e riducendo le materie cedibili alle Regioni. L’istruzione in questo modo resterebbe di competenza esclusiva dello Stato. Il problema, secondo noi, è che una legge costituzionale di iniziativa popolare viene solo sottoposta alla discussione parlamentare, il Parlamento prima di approvarla può liberamente modificarla. La proposta quindi rischia di essere un regalo per i promotori dell’autonomia differenziata i quali potrebbero far passare la loro idea di autonomia spacciandola pure per volontà popolare. La nostra proposta è piuttosto che si proceda all’abolizione del comma 3 dell’art. 116, che è quello che introduce l’idea di autonomia differenziata, in modo da scongiurare completamente questa pericolosa evoluzione normativa.
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