di Marco Duò
La recente crisi sanitaria ha riportato al centro del dibattito il tema dell’automazione; ma a che punto siamo veramente coi processi di innovazione tecnologica? Possiamo veramente aspettarci che il lavoro umano venga sostituito? Le seguenti riflessioni nascono da un’inchiesta condotta dai militanti di Potere al Popolo in regione, di cui si può trovare una prima versione qui sotto.
Lavoro in Veneto ai tempi del Covid
Prendiamo una piccola azienda della Saccisica che produce stampi. Ci lavorano solo una quindicina di dipendenti, quasi tutti con contratti solidi o a tempo indeterminato. Si tratta insomma di una delle tante piccole-medie imprese di provincia che costituiscono ormai da anni l’ossatura del tessuto produttivo del Veneto e di tutto il Nord-Est. I dipendenti sono pagati relativamente bene e il clima di solito è e disteso e basato sulla collaborazione. La divisione del lavoro però è molto marcata e le gerarchie non sono un mistero per nessuno; ci sono segretari, contabili, magazzinieri e operai metalmeccanici, ma anche ingegneri, periti, tecnici di vario tipo e grafici specializzati e, naturalmente, la dirigenza. Questa varietà è riflessa anche negli strumenti e nei macchinari usati; come tutte le altre PMI virtuose e all’avanguardia, la nostra stamperia non può di certo rimanere indietro nella corsa all’industria 4.0. Ecco quindi che alle presse e alle piegatrici di precisione si aggiungono stampanti 3D, programmi di disegno innovativi, hardware, brevetti, ecc.
Ma cosa succede a un’impresa del genere in circostanze anomale come quelle dello scoppio del Coronavirus? Pensiamo in particolare alla fase iniziale del contagio, quando i provvedimenti riguardanti il settore economico non sono ancora chiari e la distinzione tra attività essenziali e non ancora non è stata introdotta. In teoria, quest’azienda potrebbe tranquillamente permettersi di chiudere per qualche giorno, giusto il tempo di organizzare gli accorgimenti igienico-sanitari del caso. Dopo la messa in sicurezza dell’impianto, nulla impedirebbe di ridurre l’affluenza dei dipendenti, di ridimensionare gli orari e di trasferire parte del carico lavorativo sulle piattaforme digitali. Dopo tutto, è a questo che serve l’automazione. Invece i dati e le testimonianze che abbiamo raccolto ci raccontano una storia diversa.
Molte di queste aziende non si sono potute permettere di rinunciare neanche a un singolo dipendente, a prescindere dalla mansione o dal settore di occupazione. Non solo; i carichi di lavoro non si sono alleggeriti e gli orari non sono stati ridotti, anzi, in molti casi risultano dilatati. Questo solleva non poche questioni: ci stiamo forse illudendo sugli effettivi progressi dell’automazione? Possibile che anche i macchinari più avanzati richiedano ancora l’intervento persistente dell’uomo, si tratti di manutenzione o semplicemente di premere il pulsante d’avvio?
Le PMI della provincia veneta non possono permettersi robusti processi di digitalizzazione, né di rinunciare al lavoro umano.
L’automazione è un argomento vasto e complesso, di cui la nostra inchiesta non si è occupata in maniera diretta. Tuttavia, uno sguardo a quelle che sono state le condizioni di lavoro durante l’emergenza ci ha fatto capire anche molte cose su com’è fatto il lavoro. In sintesi, le PMI della provincia veneta non possono permettersi robusti processi di digitalizzazione, né tanto meno di rinunciare al lavoro umano. Il Coronavirus – come già la scorsa crisi finanziaria – ha messo a dura prova un tessuto produttivo fragile, che preferisce tirare avanti grazie a sussidi statali, piuttosto che investire grandi capitali, e che rimane ancora troppo legato alla conduzione familiare. È interessante notare che il problema di queste aziende non è quasi mai la liquidità; la possibilità di accedere a linee di credito è sempre aperta e di bandi vantaggiosi ce ne sono molti. Il problema invece sembra essere la paura di perdere clienti e fornitori: chiudere anche solo per pochi giorni può comportare perdite insanabili. Insomma, l’obiettivo primario è fatturare subito più che si può, il che comporta spesso e volentieri la rinuncia ad investimenti strutturali e infrastrutturali e all’assunzione di personale qualificato. Del resto, non si può certo dire che lo stato italiano favorisca questo tipo d’innovazione; la mancanza di un vero e proprio piano industriale e l’abbandono di alcuni settori strategici rendono il paese sempre meno competitivo, inasprendo un processo di impoverimento che ormai cassa integrazione e sussidi vari fanno sempre più fatica a nascondere.
L’automazione viene perseguita solo quando è conveniente e per ora la manodopera a basso prezzo non la rende tale.
Per essere compreso ancora più a fondo, il fenomeno dell’automazione andrebbe anche contestualizzato all’interno della recessione economica che stiamo attraversando. In una situazione del genere, infatti, la crescente disoccupazione comporta spesso un drastico contenimento del costo del lavoro. Perché quindi investire in lunghi e costosi processi di innovazione tecnologica proprio quando il lavoro umano comincia a costare meno? Può sembrare ovvio, ma l’automazione viene perseguita solo quando è conveniente e per ora la manodopera a basso prezzo non la rende tale, soprattutto se si sta parlando, come nel nostro caso, di produzione manifatturiera a basso valore aggiunto.
Le peggiori conseguenze di questi processi, manco a dirlo, ricadono sulle spalle di lavoratrici e lavoratori. Chi non si ritrova disoccupato, sente sempre di più la pressione di una posizione a rischio, diventando così più ricattabile. Quelli che riescono a mantenere il proprio posto si ritrovano spesso in cassa integrazione, mentre quelli che sono in cerca di lavoro si vedono costretti ad accettare condizioni contrattuali pietose. Chi invece lavora in un luogo dove un minimo di digitalizzazione è stata implementata deve sopportare ritmi di lavoro più intensi a parità di salario.
Ci troviamo dunque di fronte ad una delle tante contraddizioni del nostro sistema economico: la crisi sanitaria si presenta come un’occasione senza precedenti per effettuare un salto tecnologico sostanziale, ma allo stesso tempo la recessione scoraggia gli investimenti importanti e rende il lavoro umano più conveniente. Un simile dilemma deve portarci a rivalutare il modo in cui concepiamo l’automazione e l’innovazione tecnologica, prendendone in considerazione la duplice natura – da un lato progresso irreversibile, dall’altro fenomeno ciclico che si presenta a seconda degli umori incontrollabili del mercato. Può quindi fare notevoli passi in avanti, come incontrare delle forti controtendenze. Come può quindi questo processo essere volto a favore dei lavoratori? Attraverso il conflitto. Che l’uso delle macchine sia mirato a massimizzare i profitti e non a redistribuire il tempo di lavoro dipende fondamentalmente dagli equilibri di potere vigenti nei posti di lavoro. Finché saranno i dirigenti a dettare le regole del gioco gli investimenti scarseggeranno e il ricorso a ditte in appalto, subappalto e ad agenzie interinali avrà sempre la precedenza sulla digitalizzazione. Alleggerire il costo umano di questa crisi è un compito che deve passare necessariamente attraverso un ripensamento profondo dell’intero modello produttivo, tenendo in considerazione l’importanza che lavoratrici e lavoratori continuano ad avere tutt’oggi, soprattutto all’interno delle imprese medio-piccole. Un ripensamento che però può concretizzarsi solo in una decisa prova di forza.