Agnese Pieri
Il saggio di Elisa Cuter è stato letto riletto discusso e quasi ovunque apprezzato (minimaetmoralia, leparoleelecose, indiscreto, globalproject, ecc.). Qualche settimana fa qui, al contrario, né è stata messa in discussione perfino «l’etichetta di libro», con riferimento alla mancanza di un buon lavoro di editing in grado di trasformare l’iniziale «somma di articoli» e «accozzaglia di idee», in un Libro Vero e Proprio.
All’elenco dei capi d’accusa, oltre alle critiche per così dire strutturali, si sono aggiunti: autobiografismo superfluo, tono colloquiale (svelando così l’adesione al vecchio preconcetto stilistico del decorum, per il quale delle cose serie si deve parlare in modo altrettanto serio, accordando la gravità del tono alla «portata dei problemi», pena la blasfemia) e, infine, il fatto che Cuter citi Pasolini, Louis C.K. e le serie tv ma non «i fondamentali» (Gisela Bock e Carole Pateman).
Franco Palazzi (su menelique) si allinea invece all’accoglienza generalmente positiva ricevuta da Ripartire dal desiderio e del libro di Cuter scrive ciò che avrei voluto scrivere io:
«La posta in gioco che Cuter si pone è alta: proporre una formulazione accessibile e non specialistica, ma anzi ricca di riferimenti al cinema, alla letteratura e alla televisione di massa, di un femminismo che sia allo stesso tempo radicalmente anti-essenzialista e trans-includente […], comunista, non moralista né incline a passare “dalla padella della repressione alla brace di una sex positivity all’acqua di rose, da pubblicità” (p. 171), pronto ad abbracciare una visione del sesso inclusiva ma anche “conflittuale”. Il suo è un libro a tratti punk, che ha il potenziale di raggiungere fasce di pubblico pressoché ignote alla (spesso pregevole) saggistica femminista pubblicata in Italia. Pazienza se per ottenere questo risultato l’autrice può a tratti apparire impegnata a dimostrarsi più cattiva e manichea di quanto non sia: le teenager la adoreranno, e qualcuna dovrà pur prendersi la briga di convertirle alla causa rivoluzionaria».
Posizionandomi tra le teenager digiune di saggistica femminista italiana (di difficile reperibilità, pubblicizzata all’interno di canali – accademia, collettivi, librerie indipendenti, riviste di nicchia online – poco raggiungibili da chi non sia già dentro alle segrete cose) e condividendo la scelta di stile della stessa Cuter di partire da sé[i], mi sono chiesta perché il libro fosse piaciuto proprio a me che non ho molte letture di questo tipo alle spalle. Mi sono risposta che, come fanno tutti i buoni libri, il saggio di Cuter mi ha fatto vedere alcune cose che prima non vedevo.
1) Critica della vittima
Qualche volta mi è capitato di sentirmi quasi in colpa per non avere nessuna storia brutta da raccontare: nessuna storia, intendo, legata al mio essere femmina. Il trauma, vorrei specificarlo, non è un nuovo taglio di capelli, ma può finire per esserlo, soprattutto in un contesto in cui ogni prospettiva sembra equivalersi di fronte all’aumento dei discorsi interpretativi e del valore dell’esperienza diretta: “l’ho provato su di me, so di cosa parlo…”.
Così formulato, il mio privilegio (ragazza bianca scolarizzata ecc. ecc. che non ha subito molestie) sembrava ritorcersi contro di me: non avevo nessuno episodio sufficientemente potente da provocare shock e scandalo che mi permettesse di sentirmi parte di un gruppo.
Salto di palo in frasca e mi viene in mente una puntata della sit-com The Office, Women’s Appreciation, in cui un uomo, fingendo di aver bisogno di informazioni, si avvicina a un’impiegata e le mostra i genitali. Dwight, un collega che si occupa della sicurezza, distribuisce un memo a tutte le donne dell’ufficio che dice: «Le donne verranno mandate a casa se indossano trucco o tacchi oltre i sei millimetri. Le donne non possono parlare agli estranei se non dietro autorizzazione scritta da Dwight Schrute».
Poco dopo lo stesso Dwight irrompe in sala riunioni urlando: «Attenzione. Rimuoverò tutte le banane dalla cucina». Michael, il manager della sede, mortificato dal comportamento di Dwight, dichiara che l’ambiente di lavoro è troppo «maschile» e, dopo avere istituito la Giornata di Apprezzamento delle Donne, decide di portarle al centro commerciale («a place where you feel comfortable») a comprare completini intimi.
L’episodio ridicolizza due soluzioni opposte e complementari di fronte alla violenza di genere: l’auspicata sterilizzazione dell’ambiente sociale attraverso l’espunzione di oggetti riconducibili alla realtà del sesso e del desiderio e l’esaltazione acritica e fiabesca della bellezza femminile. Il presupposto della prima è che la tutela delle persone di sesso femminile passi per la demonizzazione e rimozione degli «oscuri oggetti del desiderio» (minigonne, trucchi, ecc.); il presupposto della seconda che l’essere donna abbia qualcosa di intrinsecamente positivo (a prescindere dalle condizioni in cui si nasce donna) e che le donne (in quanto donne) devono essere libere di mostrare il proprio corpo.
In particolare, le misure estreme adottate da Dwight mostrano bene due cose di cui parla anche Cuter: da un lato la desessualizzazione «neopuritana» e perbenista del corpo femminile, dall’altro il sovraccarico simbolico attribuito alla sfera sessuale.
Uno dei paragrafi di Ripartire dal desiderio che mi ha colpito di più – perché non ci avevo mai pensato e perché mai, se non da parte di misogini o reazionari, avevo sentito criticare l’attenzione che si dà alle molestie – è stato questo:
«l’attenzione che i casi di molestie sessuali ricevono nella narrazione contemporanea […] tende a considerare l’abuso o la molestia sessuale peggio di altre forme di violenza (fisica, simbolica, sociale, economica, politica e così via). C’è un motivo: la sessualità, ci ripetono, è una sfera intima e individuale, un ambito inviolabile della nostra esistenza, così personale da risultare estremamente sensibile. […] esistono svariati fatti cui quotidianamente assistiamo altrettanto preoccupanti e lesivi della dignità degli interessati (spesso nella sfera del lavoro e del ricatto economico) […] eppure non suscitano hashtag, né un’attenzione mediatica vagamente paragonabile all’ondata di tutte le molestie, minuto per minuto, che ha affollato i social e la stampa durante quei mesi [si riferisce ai mesi della campagna #metoo]» (pp. 107-8).
Nel capitolo Critica della vittima, da cui è tratta la citazione precedente, Cuter imposta una brillante critica alla ricezione e narrazione di uno dei temi del “femminismo che mette tutti d’accordo” (da Alessandra Mussolini a NUDM): la violenza di genere. Nelle storie nere di abusi e femminicidi che monopolizzano la stampa mainstream la donna è cristallizzata e appiattita su alcuni tratti culturalmente attribuiti alla femminilità: debolezza fisica e psicologica, bisogno di protezione e tutela, ecc. Ciò che Cuter evidenzia è il rischio che la pervasività di queste storie, e di un certo modo di raccontarle, conducano a una sovrapposizione pericolosa tra identità femminile e vittima proprio perché il ruolo di vittima è uno dei pochi ruoli pubblici previsti per le donne (e richiesti in tv: la Bella, la Donna In Carriera, la Brutta ma Simpatica e, infine, la Vittima).
La retorica della vittima diventa così troppo facilmente un modo per pensarsi e raccontarsi, per definire la propria individualità e creare un senso d’appartenenza e di solidarietà che rischia spesso di rimanere schiacciato su posizioni essenzialiste e politicamente innocue. A proposito di The Handmaid’s Tale, serie televisiva del 2017 tratta dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood e presa come esempio negativo della deriva dei discorsi sulla violenza di genere, si domanda Cuter:
«Dove risiede l’interesse di uno spettatore ideologicamente contrario alla violenza di genere nel guardare questa stessa violenza di genere reiterata con dovizia di particolari sullo schermo, e qual è il ruolo con cui si identifica in questa rappresentazione? C’è chi difende la serie in nome del suo valore documentario e testimoniale riguardo all’oppressione di genere. In un abbassamento della posta in gioco (un meccanismo che accomuna tante minoranze), questa risposta entusiastica è una reazione (il termine non è scelto a caso) a un secolo di produzione audiovisiva in cui le donne erano sottorappresentate, o rappresentate solo come oggetto sessuale: siccome (in quanto donna) non mi vedo rappresentata e riconosciuta, allora preferisco rivedermi minacciata, maltrattata, molestata, imbavagliata, infibulata, picchiata a sangue, mutilata, calpestata, venduta – tutti trattamenti riservati alle protagoniste della serie. È una piccola consolazione, il dirsi: almeno questi soprusi mi vengano riconosciuti» (p. 101).
Gli aneddoti che troviamo nel libro funzionano perché avvicinano la teoria al quotidiano, facilitano l’identificazione, ridimensionano la postura dell’autrice collocandola su un piano orizzontale. Tra questi ce n’è uno, in particolare, che funziona più di tutti, ed è il racconto dello sconosciuto che le palpa il culo ad una festa. Cuter racconta di aver reagito a questo gesto non richiesto con il pianto, la nausea e le minacce, salvo poi rivelare, qualche riga dopo, come causa di quella reazione non fosse tanto «la mano sul culo», quanto piuttosto il rifiuto ricevuto qualche ora prima da un ragazzo che le piaceva, unito al senso di colpa per aver indossato un vestito attillato e al bisogno «estenuante e masochistico di sedurre sempre tutti».
Questo episodio mostra a) che Cuter aveva attribuito alla mano sul culo l’Importanza Che Essa Avrebbe Dovuto Avere Nella Società, a scapito dell’importanza effettiva per lei e b) che è più facile manifestare dolore per qualcosa di “socialmente accettato” (lo scandalo e la rabbia per essere state toccate senza volerlo) piuttosto che per qualcosa di poco, quasi per niente, «virtuoso», come la frustrazione per non essere riuscite a sedurre (e di aver quindi, in qualche modo, fallito il compito a cui siamo addestrate: e cioè piacere, sempre e incondizionatamente, agli altri).
La morale del racconto non è – ovvio ma non così tanto da non ribadirlo – che le ragazze esagerano e una palpata indesiderata non è la fine del mondo. Lo scopo è piuttosto quello di mostrare uno degli effetti meno visibili della sovrapposizione tra percezione sociale acuta della violenza di genere e pervasività del discorso prescrittivo su Come Dovrebbero Essere Le Donne (cosa dovrebbero fare, sentire, per cosa dovrebbero provare dolore ecc. tutte le donne in quanto donne). L’episodio di Cuter non ha pretese di universalità, e le lettrici possono riconoscervisi o meno, ma mette a fuoco un leitmotiv che attraversa l’intero saggio e che ha una portata più ampia: il potere di desiderare. Ma desiderare cosa? Per Cuter, ad esempio, di rimorchiare.
2) Desiderio politico
Una delle critiche che sono state mosse al saggio è il finale aperto: cosa significa esattamente «Ripartire dal desiderio»? Franco Palazzi, cartografando con precisione molta della teoria presupposta e presente nel libro (Lacan, Fisher, Andrea Long Chu), individua le funzioni «politiche» del desiderio di cui parla Cuter, tra cui: la funzione antipatriarcale (l’uomo vuole essere desiderato ma è l’unico soggetto al quale sia consentito desiderare); anticapitalista (il desiderio, che è sempre desiderio dell’Altro – di essere desiderati, amati, voluti dall’altro – viene ingerito dal capitale e risputato nella coercizione al consumo e alla cura maniacale del sé); antiessenzialista (contro l’assunto della donna come naturalmente desiderante l’esperienza della maternità); e infine quella «epistemologica», collocare cioè il desiderio al posto dell’etica per rileggere sotto una luce nuova la necessità di un approccio intersezionale (e quindi cooperare e solidarizzare con altre minoranze non perché sia moralmente più giusto ma perché è nel mio interesse di soggetto oppresso allearmi con altri soggetti oppressi; Cuter scrive a questo proposito della «cura vissuta come sacrificio, come tentativo di nobilitare il compito socialmente più bistrattato»).
Parlerò brevemente solo della funzione anti-patriarcale. Nell’episodio della festa, Cuter soffre perché il suo desiderio di essere desiderata viene frustato. Ma, in quel momento, preferisce mascherare la sofferenza che sperimenta in qualità di soggetto desiderante attivo (e rifiutato) con la rabbia provata in qualità di oggetto del desiderio passivo e vittima del desiderio di un altro. Tra le due opzioni, la seconda le appare come la più Giusta.
Tra le virtù legate al Non Desiderare ci sono infatti il controllo, l’autoeducazione, l’autosufficienza e la soppressione del bisogno (dell’Altro, del desiderio dell’altro): tratti tipici di un certo tipo di femminilità positiva, materna e, in qualche modo, edificante (è Dante che si perde nella selva oscura e che compie il viaggio oltremondano, mentre Beatrice è tra i beati ad attenderlo, a suscitare l’amore e la visione di Dio).
L’abitudine e l’educazione a essere oggetto del desiderio altrui, a differenza dell’attività maschile finalizzata alla soddisfazione del proprio desiderio, e la parallela capacità femminile di modellarsi sulle aspettative e le richieste dei soggetti attivi desideranti, rendono complicato e necessario il processo (psicologico e insieme politico) che trasforma l’oggetto desiderato in parte attiva e non alienata del desiderare.
3) Femminilizzazione della forza lavoro
Un amico che lavora alla Mediaworld mi ha parlato qualche giorno fa dell’indice NPS (Net Promoter Score), un sistema che le aziende utilizzano per conoscere la percentuale di gradimento dei prodotti venduti. Ai clienti viene chiesto: «Su una scala da 0 a 10, quanto è probabile che consiglieresti il prodotto/servizio di questa azienda a un amico o un collega?». In base al voto assegnato, i clienti vengono poi divisi in detrattori, passivi e promotori. Sulla valutazione del prodotto, però, incide la Customer Experience (la strategia con cui i negozi fisici cercano di battere quelli virtuali): dal momento che i clienti quando acquistano un prodotto lo fanno anche, e soprattutto, mossi dall’”emotività” e non dalla “razionalità”, maggiori sono le cure che il cliente riceve da parte del commesso più favorevole sarà la valutazione del prodotto (e del negozio che te lo ha venduto). Serviranno quindi: pazienza, accondiscendenza, affabilità, gentilezza, aspetto complessivamente piacevole, solarità ecc.
La parola «cura» non è scelta a caso, dal momento che storicamente sono state le donne a svolgere i compiti che rientrano nella definizione di “lavoro riproduttivo”: procreazione, allevamento della prole e «tutto quel lavoro di riproduzione delle energie necessarie alla forza lavoro: gestione domestica, alimentazione, cura personale anche nelle forme banali e immediate di lavarsi e riposarsi, e anche tutto il lavoro di riproduzione sociale, cioè la cura dei rapporti umani che consentono lo sviluppo di un individuo capace di fare parte della società» (p.65).
Nel capitolo Manuale per ragazze di successo Cuter prova a legare i significanti socio-culturali della femminilità alla terziarizzazione dell’economia. Riassumo: la femminilità è un insieme di caratteristiche che sono state tradizionalmente attribuite alle donne (come la virilità agli uomini). Da queste caratteristiche – pensiamole come fossero oggetti e vestiti – si ricavano diversi costumi di scena (la Santa, la Puttana, ecc.). Buona parte degli obblighi a cui i modelli femminili devono rispondere hanno a che fare o con la soddisfazione dei bisogni e desideri altrui (dei figli, del partner, dei genitori anziani) o con il compiacimento dello sguardo, sempre altrui. Le qualità per assolvere a questi compiti rimandano quindi alla capacità di saper curare e/o sedurre gli altri e sono diventate molto richieste per poter lavorare, soprattutto, ma non solo, nel mondo del terziario (e cioè, per i comuni mortali, quasi ovunque).
Mentre leggevo il capitolo mi è capitato più volte di pensare a come, in una miriade di situazioni diverse, dal lavoro ai rapporti con gli altri, mi sia capitato di trovarmi nella posizione del commesso che riceverà un bonus in busta paga se il cliente ne darà una valutazione positiva. L’abitudine alla docilità, all’obbedienza e all’autocontrollo (che si incarnano nella figura della Brava Ragazza che non impreca non urla e non ribatte), insieme all’obbligo di rispondere costantemente al desiderio dell’altro (ignorando il proprio) con cordialità ed educazione, sono caratteristiche che ben si accordano con le richieste che vengono fatte nei posti di lavoro.
La tesi di Cuter difficilmente può essere interpretata come nostalgia per una società “maschilizzata” e strutturata su aspettative e ruoli di genere. Piuttosto, e mi sembra un’idea interessante da discutere e approfondire, Cuter cerca di spiegare quali siano le strategie con cui il sistema economico sia riuscito a sfruttare il progressivo annullamento della separazione tradizionale tra privato (casa famiglia sesso donne) e pubblico (lavoro politica uomini) mettendo a valore «quelle soft skill che provengono da un’attitudine alla gestione del sé, della casa e delle relazioni che sono difficilmente quantificabili e retribuibili a cottimo» e che «la teoria post-operaista ha chiamato lavoro immateriale» (p. 80).
Una breve chiosa conclusiva: il saggio di Cuter resta un buon saggio nonostante la disorganicità, di cui l’autrice si dichiara a più riprese consapevole, di riflessioni aperte e problematiche che invece di essere espunte dall’edizione definitiva vengono conservate nella loro veste incompiuta. Nel libro si lascia così penetrare ciò che – per comodità e con buona pace dei lettori filosofi – definirei manifestazione di un pensiero debole: l’esposizione del “non-finito” e l’ammissione, da parte del soggetto che scrive, dell’incapacità e/o della non volontà di dare risposte definitive. Ma i punti di forza del saggio sono, per me, proprio questi: la “debolezza strutturale”, il finale aperto e l’andamento a tratti non lineare e tendenzialmente digressivo, a cui si unisce il tono colloquiale, diretto e personale. E questo un po’ perché mi sento affine alla postura verosimile dell’io di Cuter e un po’ perché di tutta la carne che mette al fuoco si possono scegliere i pezzi più buoni e, senza dover buttare via tutto, dedicarsi solo a quelli.
[i] Per chi non ne sa molto (io non ne sapevo molto), è una buona lettura il saggio Storia delle storie del femminismo di Cinzia Arruzza e Lidia Cirillo (Roma, Alegre, 2019), da cui prendo la citazione che segue: «Partire da sé fu la formula che negli anni Settanta tradusse problemi complessi e che poteva significare cose diverse. Poteva essere un invito a non dedicarsi all’apostolato per le oppressioni altrui, prima di aver preso coscienza della propria. Oppure voleva dire che in un contesto storico in cui altri avevano deciso cosa una donna fosse, quali fossero i suoi desideri e i suoi compiti, non c’era altro modo per uscirne che cominciare a interrogare sé stessa. […] Questa raccomandazione serve ancora oggi? Serve oggi più che mai, per gli uomini come per le donne. […] Il proletariato si costituisce come classe quando smette di identificarsi con l’astratto citoyen per partire da sé, cioè per politicizzare il suo stomaco vuoto e la sua stanchezza».